Lo scorso 20 agosto gli All Blacks hanno fatto lo scalpo agli australiani nella prima giornata del Rugby Championship, il torneo australe disputato anche da Sud Africa e Argentina: un secco 42-8 in trasferta a Sydney. Alcuni dei giocatori di casa erano scesi in campo con la testa rasata come gesto di solidarietà per il compagno Christian Lealiifano, trequarti di 1 metro e 80 per 90 chili, fermato dalla leucemia. La notizia della malattia era stata resa nota all’inizio del mese e l’atleta si è sottoposto immediatamente alle cure mediche. La scomparsa avvenuta lo scorso novembre di Jonah Lomu ha lasciato il segno anche nell’immaginario di chi non frequenta assiduamente il rugby, accertando una volta di più che giganti e uomini strutturati fisicamente per uscire indenni dai colpi sono deboli di fronte ai disegni riservati dalla sorte: ne è un altro commovente esempio la vicenda di Joost van der Westhuizen, mediano di mischia degli Springboks campioni del mondo nel 1995, colpito dalla Sla. Appare in pubblico in occasioni speciali e straordinarie e si dedica alla propria fondazione per raccogliere fondi contro le malattie motorie, specialmente tra i bambini.
Andrew Trimble, irlandese, placcato da Justin Tipuric del Galles, durante il Sei Nazioni 2016 (David Rogers/Getty Images)
Casi gravi ed eccezionali, ma oltre a essi ce ne sono altri che, pur creando meno clamore, richiedono una particolare attenzione e cura, tra infortuni, commozioni celebrali e fisici incapaci di riprendersi al cento per cento, ponendo i giocatori di fronte ad una sfida ben più dura e tosta: il ritiro forzatamente anticipato e una vita da riorganizzare. Le stelle possono imboccare una nuova strada da opinionisti e commentatori nei programmi televisivi; c’è chi intraprende il percorso d’allenatore; chi invece rischia di risvegliarsi nel limbo.
«Il ritiro per un giocatore professionista rappresenta un grande cambiamento nello stile di vita, il passare dall’essere un eroe a uno zero», ha riassunto in passato l’ex prima linea irlandese Bernard Jackman: per lui scarpe appese al chiodo nel 2010 in seguito a diverse “concussion”. Jackman ora si dedica alla carriera di allenatore ed è uno dei volti delle campagne di sensibilizzazione per i rischi da infortuni celebrali. D’altro canto, l’International Rugby Board ha assunto una serie di decisioni per tutelare la salute degli atleti ed è ormai consuetudine vedere i giocatori rientrare negli spogliatoi durante il match per alcuni accertamenti dopo scontri che coinvolgono la testa. La danza è contatto, il rugby è collisione.
A febbraio l’ex giocatore della Scozia John Beattie, ora giornalista per la Bbc, ha intervistato, all’interno di un’inchiesta sulle commozioni celebrali, John Shaw, che, dopo una domanda di Beattie, si è perso nel silenzio a causa dei momenti di vuoto che gli si presentano improvvisamente. Oggi Shaw lavora per un’azienda edile ed è riuscito a progettare una vita al di fuori del campo, cosa che non riesce a tutti.
Nell’isola a maggiore densità rugbistica, la New Zealand Rugby Players Association conduce indagini sul post carriera dei giocatori, preoccupandosi in particolare di reinserire nel mondo del lavoro chi si è trovato costretto ad abbandonare il gioco professionistico prima del tempo per motivi di salute. «È un dato di fatto che trovare un’occupazione retribuita dopo l’attività agonistica sarà una sfida rilevante e c’è un’alta possibilità che tu possa vivere un periodo da disoccupato», è l’avvertimento che si legge in uno dei paper redatti e consegnati agli associati. I dati raccolti dalla NZRPA indicano che un terzo di chi si ritira forzatamente dalla palla ovale affronta difficoltà economiche o attraversa una fase di depressione: lo status sociale è cambiato, si smarrisce l’identità pubblica e subentrano ansia e stress. Il primo passaggio per evitare di finire in una spirale negativa è una pianificazione finanziaria accurata: «Risparmia e investi saggiamente. Fai attenzione e pianifica il futuro: dopo il ritiro potresti trascorrere uno o due anni con una sensibile diminuzione di reddito».
Ben Smith, Nuova Zalanda, placcato da Moore, Australia. Bledisloe Cup, Sydney, Agosto 2016 (Peter Parks/Afp/Getty Images)
L’istruzione rappresenterebbe un appiglio, ma il condizionale d’obbligo è dato dal fatto che i giocatori spesso non intraprendono un percorso formativo particolare una volta entrati a pieno regime nell’ambito sportivo. La Nzrpa sostiene che l’88% dei rugbisti che hanno proseguito nella propria formazione scolastica durante la carriera sono in grado di compiere un passaggio meno traumatico dalla vita sportiva a quella lontana da spogliatoi e stadi, ma nello stesso tempo sottolinea che solamente il 25% di chi si è dovuto ritirare ha intrapreso un percorso formativo. In Inghilterra, la Rugby Football Union pubblica un vademecum per i genitori dei ragazzi che hanno ottime prospettive agonistiche, potendo puntare all’ingresso nelle Academy dei club professionistici, suggerendo i percorsi scolastici possibili e riportando le esperienze di alcuni giocatori.
Dal sogno agli incubi. Durante la partita del Sei Nazioni 2012 contro la Francia, l’ala scozzese Rory Lamont si rompe una gamba: non ha ancora compiuto i 30 anni, ma la sua carriera si chiude ufficialmente lì perché non sarà più in grado di riprendersi. A marzo, intervistato dal Times, ha confidato l’altro lato della medaglia, quello più oscuro: «Il rugby è un’ottima maschera per nascondere le insicurezze. Indossi un giubbotto antiproiettile: sei parte di una squadra, tutti ti dicono che sei un grande. È una coperta e quando viene rimossa, ti ritrovi ad essere come un bambino, spaventato e solo». A gravare sullo stato d’animo le scorie dell’ultimo infortunio: due ulteriori operazioni dopo il ritiro che non sono riuscite a farlo guarire completamente. E ancora una serie di problemi allo stomaco che lo hanno costretto per mesi a nutrirsi soltanto di cibo liquido: per Lamont sono dipesi dall’uso di pastiglie e prodotti antidolorifici assunti in precedenza.
Visto però che il rugby è sì sport di collisione, ma contemporaneamente di sostegno, l’aiuto può arrivare dall’interno. John Henry Carter ha giocato per Northampton e Sale, collezionando cinque operazioni. L’addio al professionismo è giunto presto e si è così dedicato agli studi in psicologia ad Oxford, dove è divenuto uno dei capitani più famosi della squadra di rugby dell’università – merito anche della folta chioma e della lunga barba. La tesi di laurea ispirata da Peter Pan era incentrata sui passaggi traumatici dallo sport alla vita comune, dall’Isola che non c’è dove si rimane ragazzini al dover diventare adulti: accettare la realtà, la perdita di ciò che è stato e affrontare sensazioni negative è essenziale, ha raccomandato il dottor Carter, transitato a sua volta per i meandri stretti della depressione. Adesso collabora con la Professional Rugby Player Association per dare una mano agli ex colleghi. Da eroi a zero e ripartenza.