Il profilo migliore

Storie di giovani che cercano un ingaggio attraverso i social network. Facebook e LinkedIn sono le nuove frontiere delle scouting.

«Perché non metti questa, è il tuo profilo migliore, e poi accenni persino un sorriso che ti fa sembrare un po’ meno orso», e fu così che iniziarono a scambiarmi per un agente a caccia di talenti. Una foto è per sbaglio. Come quella del mio profilo Facebook, scattata durante una presentazione e appiccicata al muro virtuale della vanità. Indosso un completo grigio, una giacca scura, la cravatta quella no, il microfono sotto al naso è una minaccia tecnologica e l’aria è quella di chi si sta preparando a un intervento non senza un briciolo di imbarazzo. Ma quello che ha veramente attirato l’attenzione è stato lo sfondo. Nella messa fuoco ci sono finiti anche i cartelloni dello stadio Tardini di Parma. Se avete presente, quel grande puzzle di marchi, sponsor, scritte grandi e piccoline, disegni stampati e colorati che scorrono alle spalle dei calciatori quando fanno le interviste, o dei direttori sportivi, dei presidenti; insomma di tutti quelli che nel mondo del calcio ci lavorano e che stanno dall’altra parte della barricata. Il primo messaggio me lo ha scritto un ragazzo di Accra, un certo Wesley: «Sei un agente?». Ma ho preferito non rispondere. Forse per pigrizia, non ricordo più. Alla trentesima richiesta, però, il dovere di capire perché mai ragazzi molto giovani, che abitano in posti lontani, piccoli, sperduti, sentano l’esigenza di contattare sconosciuti con la speranza di essere scritturati per un provino in una squadra di calcio ha iniziato a spingere sotto la pelle. Così ho iniziato a rispondere: «No, non sono un agente. Però perché non mi racconti la tua storia?».

MOGALE CITY, SOUTH AFRICA - JUNE 15: Kids enjoy a game of football on June 15, 2009 in Mogale City, South Africa. Football fever is gripping South Africa as the world's seven regional champions, Italy, Spain, Brazil, Egypt, Iraq, New Zealand, and the United States, compete for the FIFA Confederations Cup. (Photo by Jasper Juinen/Getty Images)
Ragazzi giocano a calcio a Mogale City, in Sud Africa (Jasper Juinen/Getty Images)
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Storie

«Mi chiamo Papa Malick Seck, ho 18 anni. Tutti mi chiamo Petinho perché sono un giocatore molto tecnico e allora mi hanno dato questo soprannome che per me è come dire piccolo brasiliano. Come molti giovani africani ho cominciato a giocare per strada. Adesso sogno di diventare una superstar del calcio». Malick è una ragazzo molto educato, ha l’aria simpatica e un sorriso da furbetto. Per convincermi che sta facendo sul serio mi ha inviato un curriculum fatto alla buona con Word. Un curriculum come tanti, con la data di nascita, la fototessera, l’elenco delle squadre in cui ha giocato. Vive in Senegal, è nato lì. Dice che il primo approccio al calcio l’ha avuto al Navetane, un’organizzazione culturale e sportiva, «ma in effetti avevo solo 11 anni e ho chiuso la stagione come capocannoniere dei cadetti della zona 7 di Hann». Da allora, però, «ho avuto molti contatti con agenti, manager, allenatori…». Nel 2014 un amico d’infanzia lo chiama, dice che ha un contatto buono con un altro amico che fa l’agente, un tipo a posto, uno che sa muoversi, onesto e che ha un posto perfetto in una squadra marocchina. «I miei genitori mi hanno aiutato, ma sfortunatamente non ho mai incontrato l’agente. Però non mi sono arreso. I primi mesi a Casablanca sono stati durissimi. Per sopravvivere, mangiare e pagare l’affitto, il mio amico Diakhatè mi ha aiutato a lavorare in un ristorante. Ma poi ho lasciato la ristorazione perché non avevo abbastanza tempo per allenarmi. Allora ho trovato un lavoro in un call center. Presto ho lasciato anche quello perché ero riuscito a raggiungere gli under17 di un club dilettantistico dopo alcuni provini. Mi allenavo con loro senza salario né premi. Così sono stato costretto a cercare un lavoro per mantenermi. Ho cominciato a vendere cellulari da ambulante».

A handout photograph taken on January 12, 2013 and released on January 16 by the African Union-United Nations Information Support Team, shows members of the Somali Football Federation (SFF) walking across the football pitch inside Baanadir Stadium in the Abd-Aziz District of the Somali capital Mogadishu. The field that has recently been re-surfaced with a new artificial playing surface funded by FIFA, the SFF with repair work to begin on the seats, parking and facilities of the 7,500-capacity stadium. After two decades of near-constant conflict, Somalia is enjoying its longest period of peace and growing security since the Al-Qaeda-allied violent extremist group Al Shabaab was driven from Mogadishu in August 2011. Under the Shabaab's draconian rule, social pastimes and sports such as football were banned but residents of the city and elsewhere across Somalia. AFP PHOTO / AU-UN IST PHOTO / STUART PRICE /HO (Photo credit should read STUART PRICE/AFP/Getty Images)

Membri della Somali Football Federation controllano lo stato del campo all’interno del Baanadir Stadium di Mogadiscio (Stuart Price/Afp/Getty Images)

«Mi allenavo la mattina e la sera giravo i bar per vendere i telefonini. È stata dura ma il mio amore per il calcio mi ha spinto a battermi, credevo in me e nel mio talento. E un giorno la fortuna mi ha sorriso. Come tutte le sere parto parto per andare a lavorare e incontro Hanno. Lui lavora per il Raja, un club di Casablanca, come dirigente del settore giovanile. Dopo aver parlato a lungo e dopo aver visto i miei video, Hanno mi dice ok, facciamo i test d’ingresso per il Raja. E finalmente, quattro mesi dopo il mio arrivo in Marocco, approdo negli under17 del Raja. Per due volte diventiamo campioni del Marocco U17. La mia carriera comincia a prendere una buona strada. Ma nel 2016 torno nell’incubo quando la federazione marocchina decide che gli stranieri sotto i 21 anni non possono più giocare lì». Tra le altre richieste di amicizia e i messaggi (sono arrivato a più di 800), c’è anche la storia di Emmanuel, ghanese di Accra, 17 anni, che gioca nelle giovanili del Madina e ovviamente ha un sogno: «Diventare una superstar del football». Anche Emmanuel ha una storia difficile. «Ho iniziato a giocare che avevo 8 anni e ho firmato per le giovanili del Madina a 12. Mio padre è morto nel 2011 e mia madre se n’è andata a gennaio di quest’anno. Andavo a scuola, ma nessuno poteva pagare la retta. Così, per grazia di Dio, ho avuto l’opportunità di giocare nella Seedorf Soccer Academy e ho smesso di andare a scuola. Ma ho imparato a leggere e scrivere, questo sì. Adesso vivo con uno dei miei fratelli. Siamo in cinque maschi e una femmina. I miei modelli sono Ronaldinho, da cui ho imparato il dribbling, e poi Suarez e Kakà. Ho imparato molto da loro. E il mio sogno è giocare in Italia. Come Asamoah. Dio farà una strada per me».

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Barcone

Le strade del Signore, si sa, sono infinite. Ma qualcuna è più impervia di altre. Internet sembra una comoda scorciatoia. Malick Petinho ha iniziato a usare il web per cercare contatti con agenti, manager, allenatori, «e tutti gli altri che possono aiutarmi a continuare a coltivare il mio sogno». Con risultati pessimi. «L’estate scorsa mi scrive uno che si spaccia per un manager dell’Everton e poi un altro, un agente Fifa. Ti aiutiamo noi, dicono. Ho fatto una lunga trafila per fargli avere tutti i documenti che mi chiedevano. Per fortuna un agente italiano, un certo Paolo, mi mette in guardia, mi dice che sono dei pirati. Su Internet cerco soprattutto contatti con l’Europa dove il football è più sviluppato, più ricco. Vorrei approfittare dei miei contatti Facebook per mostrare il mio talento al mondo intero attraverso video fatti durante le partite». E lo stesso ha fatto Emmanuel, il giovane ghanese di Accra, che si affida al web «per trovare il contatto giusto». In Italia il flusso di calciatori stranieri negli ultimi dieci anni è aumentato progressivamente. Nel 2006, mentre gli azzurri di Lippi vincevano il Mondiale in Germania, la Serie A contava il 36% di calciatori stranieri. Due anni fa il dato è schizzato al 54%. Quest’anno siamo intorno al 45. Non c’è una correlazione diretta tra il mondo professionistico e il calcio disperato, il calcio inseguito su questi barconi virtuali, ma è evidente che il sottobosco (immenso) di tutte queste storie venga quantomeno influenzato. Il vero problema è la pericolosità di questi approcci, proprio come succede agli immigrati che tentano la fortuna in mare.

RIO DE JANEIRO, BRAZIL - JUNE 29: Kids play football at the Vila Cruzeiro favela on June 29, 2013 in Rio de Janeiro, Brazil. It was at the end of 2010 that under the stage of pacification some 300 police officers went into the Complexo do Alemao with tanks and helicopters to drive out the criminal gangs to establish a permanent police presences and to set up social services such as schools, healthcare centers, and rubbish collection. The Complexo do Alemao favela is, with a population of 100, 000 and stretching for more than 3 kilometers with a maze of narrow alleys and stairways, one of the largest favelas in Rio de Janeiro. (Photo by Jasper Juinen/Getty Images)
Due ragazzini giocano a calcio nella favela di Vila Cruzeiro a Rio de Janeiro (Jasper Juinen/Getty Images)

 

Yannis Bessaa è un calciatore già formato, che ha già avuto esperienze in alcuni club professionistici e semi-professionistici. Eppure, anche lui, utilizza internet come strumento per farsi nuovi agganci. È nato a Saint-Etienne, Francia, ma per giocare è stato un po’ dappertutto, anche in Germania e in Algeria. Proprio qui ha firmato un contratto con il Js Saoura (serie A algerina), «mi sono legato a loro il 29 giugno 2016 per due stagioni fino a luglio 2018, ma sfortunatamente l’avventura è stata molto corta perché meno di un mese dopo hanno chiesto la risoluzione del contratto, e di nuovo è saltata fuori la disillusione». È partito di nuovo alla carica, messaggi, mail, post, e qualcuno si è fatto vivo. «Un agente ha tentato di portarmi nella Serie A di Malta, un altro in Lega Pro, ma entrambi mi hanno chiesto soldi prima di firmare il contratto. Ho rifiutato. Più di 3mila euro il primo, l’altro 500 euro solo per un provino. Ma non è così che funziona». Non nel mondo reale, forse. Ma nel grande universo dove la speranza di diventare «una superstar del football» è grande, le cose vanno decisamente peggio. Lo conferma pure Mohamed Guendouz, un ragazzo di Algeri. Assicura di avere «le qualità per impormi lassù, nel calcio europeo». Ha fatto uno stage nel Nantes e in qualche altra squadra in giro per la Francia. Anche se non è stato preso, Mohamed proprio non si arrende. «Internet è un buon posto per risolvere i problemi, su Facebook si trovano gruppi di manager, gente sempre alla ricerca di nuovi talenti. Ma non è facile, ci sono agenti che chiedono anche 400 dollari per un provino».

 

Bessaa ha anche una compilation delle sue azioni migliori, con tanto di musica edm a fare da sottofondo

Qualcuno è disperato, e allora si fida e cade in trappola. D’altra parte questi ragazzi chiedono solo una possibilità,  mentre altri nel pieno rispetto degli slogan «niente è impossibile», «credi nei tuoi sogni», «non mollare mai» e via dicendo perpetuano le loro scelte di vita in funzione del calcio. Scelgono di non mollare. «Mi chiamo Cesar Aparecido Geremais da Silva, sono di Rondonia, Brasile. A 14 anni mi sono trasferito a Curitiba, per giocare nel Parana. Era il 2007». Le continue esperienze complicate, piene di intoppi, non hanno frenato l’entusiasmo di Cesar: «A Rio de Janeiro ho giocato nel Tigres do Brasil, un anno, ma non ricevetti quello che mi promisero, poi conobbi un impresario che mi portò al Cfz di Rio. La mia fidanzata rimase incinta quando avevo 17 anni, l’agente non poté aiutarmi. Non avevo un contratto con il club e quindi dovetti fare una scelta difficile: smettere di giocare. Quest’anno sono tornato in campo, ma tristemente in Brasile la maggior parte dei giocatori trova squadra appena 3 o 4 mesi all’anno. Su Internet cerco il contatto giusto. Puoi aiutarmi?». Sono queste richieste che impresari senza scrupoli sfruttano per farsi un gruzzolo. Ma poi ci sono quelli come Omar Sakr, egiziano, che ha smesso di giocare per dedicarsi allo scouting. «Prima lavoravo solo su Internet. Poi mi è stata data la possibilità di viaggiare, di incontrare club e persone, e negli ultimi due anni sono stato cinque volte in Spagna dove ho portato due giovani egiziani. Molti agenti in Egitto lavorano male, in modo sbagliato, pensano solo ai soldi e a spostare un giocatore da un club egiziano all’altro. Vedo cento giocatori all’anno e di tutte le età. Molti agenti si fanno pagare per un provino e le cifre vanno dai 200 ai 500 dollari. Ladri. Perché lo fanno? Perché i giocatori vedono una possibilità, un pertugio, un modo per realizzare i loro sogni. Internet aiuta. Pochi possono viaggiare».

César Silva e le sue migliori azioni , in sottofondo una canzone malinconica
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Fai-da-te Vs Strutture

È scontato: il mondo è cambiato, l’apertura delle frontiere ha permesso di muoversi con facilità, e il neoliberalismo ha portato maggiore accessibilità anche nel calcio, o almeno sull’idea di promozione della propria immagine. Quindi siti come LinkedIn, Facebook o Twitter sono un veicolo, un modo onesto per proporsi agli altri, più che per riuscire davvero a trovare una squadra. Un mese fa la nazionale belga, dopo il mezzo flop all’Europeo, si è affidata proprio al web per trovare un allenatore. Lo ha fatto attraverso un annuncio. Quante proposte avrà ricevuto? Migliaia, un milione? Che importa. La differenza sta nella struttura societaria. «Un club professionistico può permettersi di affidarsi a Internet perché può scremare, valutare, selezionare. Ma è chiaro che nel grande oceano dei candidati al sogno c’è un po’ di tutto, e gente senza scrupoli ne approfitta», spiega Filippo Fusco, che è stato direttore sportivo del Napoli e oggi fa il diesse del Verona. Fusco è un fine conoscitore del mondo del calcio, anche quello giovanile. Più volte l’anno viaggia in Sudamerica alla ricerca di talenti che vengono segnalati da uomini di fiducia, uomini che vivono sul posto. «Un talento lo devi vedere, annusare, sentire. Preferisco sempre andarci di persona. Anche se oggi esistono piattaforme che permetterebbero di restare a casa, comodi comodi alla scrivania». Il mondo dei calciatori fai-da-te va anche oltre tutto questo, va oltre WyScout, persino oltre LinkedIn. Scelgono di consegnare porta a porta il loro curriculum, i loro video, sperando che qualcuno accetti di dargli una possibilità.

È in questo contesto che si muovono figure delicate, gli addetti all’area scout. Metà uomini e metà fattucchieri, lungimiranti al punto da comprendere l’evoluzione di un talento ancor prima che sbocci. Sono loro a scovare ragazzi che un giorno diventeranno campioni. Tra i più apprezzati c’è Maurizio Micheli, anni di esperienza al Brescia, al Napoli con Riccardo Bigon, e oggi al Bologna. «Internet è fondamentale per il nostro lavoro» – spiega -, «altrimenti avremmo l’80 per cento in meno dei dati. Prima serviva una conoscenza diretta del giocatore, non c’erano altre possibilità. Anche perché il mercato televisivo aveva una copertura piuttosto bassa, praticamente nulla. Con l’avvento del web è cambiato tutto, ci ha dato la possibilità di ricavare dati e informazioni in qualsiasi parte del mondo. Anche la più lontana, la più sperduta. Streaming, piattaforme video, curriculum, informazioni giornalistiche, tutte queste cose sono alla base del nostro lavoro. Ma decidiamo noi cosa vale e cosa no, come struttura. C’è chi cerca di utilizzare questo grande flusso per far arrivare informazioni fai-da-te. È un mondo di mezzo, che non riguarda il calcio professionistico. È il mondo di chi pensa di fare soldi facili». Il mondo di quelli come Micheli, invece, è rigido e all’avanguardia. «Abbiamo un database di 310mila giocatori, dati grezzi, informazioni, statistiche. Ogni giorno ne valutiamo 20-30. Ma poi c’è la deriva: ci arrivano mail di ogni tipo, curriculum, giovani iracheni, palestinesi, congolesi, gente da tutto il mondo, che dice io so fare questo e io quello, compratemi, provatemi, e manda queste mail ad altre 200 squadre nel mondo con la speranza che una società non strutturata gli dia una possibilità. Anche quello è un mondo che andrebbe regolamentato».

RIO DE JANEIRO, BRAZIL - JUNE 29: Twenty-eight year old Wagner from the Complexo do Alemao favela waits for the ball while standing on goal during a game of football at the Complexo do Alemao favela on June 29, 2013 in Rio de Janeiro, Brazil. It was at the end of 2010 that under the stage of pacification some 300 police officers went into the Complexo do Alemao with tanks and helicopters to drive out the criminal gangs to establish a permanent police presences and to set up social services such as schools, healthcare centers, and rubbish collection. The Complexo do Alemao favela is, with a population of 100, 000 and stretching for more than 3 kilometers with a maze of narrow alleys and stairways, one of the largest favelas in Rio de Janeiro. (Photo by Jasper Juinen/Getty Images)
Il 28 enne Wagner dal Complexo do Alemao durante una pausa di una partita nella favela (Jasper Juinen/Getty Images)

Ma se pensate che i web-migranti del pallone abbiano una direzione sola vi sbagliate. Mauro Bertoni, 47 anni, ex grande difensore della Cremonese, oggi allenatore, è grazie a Internet che ha trovato il primo incarico all’estero. «In Italia non avevo la possibilità di lavorare. Così ho cercato su Google, ho mandato vari curriculum in spagnolo, in inglese, in francese, cose fatte ad hoc, e alla fine mi hanno risposto dagli Usa». Da noi oltre il 22 per cento dei calciatori professionisti resta a spasso, un totale di 391 calciatori. Professionisti, sì. Poi c’è il campionario dei sognatori, un mondo di ragazzi convinti di poter sfondare che sedimenta nei dilettanti. In Italia il sistema è comunque strutturato. L’estero, però, resta una meta affascinante. «Negli States ho lavorato nei camp estivi» va avanti Bertoni, «e questo mi ha permesso di conoscere gente, così sono finito in Australia, e l’anno scorso ho preso una squadra nelle isole Vanuatu. Abbiamo sfiorato la vittoria della Champions League». Il flusso di link, a quel punto, ha iniziato a sommergere anche Bertoni. «Non passa giorno in cui non riceva curriculum di ragazzi da ogni parte del mondo. Dalla Spagna, da Gibilterra, dalla Costa d’Avorio, dalla Giamaica o dal Nicaragua. Dimmi un posto e qualcuno mi ha contattato anche da lì. Taggano i video dei loro gol, mandano paginette con l’elenco delle reti che hanno fatto. Si propongono. Ma io dico sempre no. È il direttore sportivo che deve occuparsi di queste cose, attraverso i canali canonici». Beh, magari così è anche troppo. Voi, che cercate squadra sul web, assicuratevi almeno di non sbagliare persona.