Le scelte sono importanti. Ci qualificano per quello che siamo, saranno il motivo per il quale un domani si verrà ricordati in un modo o nell’altro. E non sempre, anzi diciamo pure quasi mai, ad una scelta sbagliata si può porre rimedio. Per questo quando ho letto queste dichiarazioni di Julian Draxler («Sarebbe stato bello vincere con la Juve»), alla vigilia degli Europei, mi è scappato un sorriso. Amaro. Come la presa di coscienza di un ragazzo che, alla prese con il compleanno numero 23 da passare avvolto ancora dallo status di eterna promessa, ha capito di essere la prima vittima della sua scelta di 12 mesi prima: quella di accettare i (tanti) soldi del Wolfsburg precludendosi, almeno per un po’, la possibilità del grande salto. Tanto più se i figli calcistici della Volkswagen sono ancora in grado di non battere ciglio davanti ai 75 milioni di euro offerti dal Paris Saint Germain per l’ex Schalke, in previsione della clausola rescissoria da 110 che entrerà in vigore a partire dalla prossima stagione.
Qualcuno diceva che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Ecco, si potrebbe dire che la grandezza del talento di Draxler è pari solo alla sua capacità di rifuggire dalle responsabilità che questo comporta, ritagliandosi la pericolosa etichetta di incompiuto cui manca pochissimo per entrare nella cerchia dei grandissimi. Un “pochissimo” che coincide con il saper e voler correre il rischio di provare ad affermarsi come giocatore internazionale altrove: magari con uno dei club che gli hanno fatto una corte spietata in questi anni (nell’ordine Real, Juventus, Arsenal e, appunto, PSG) e che, invece, si sono visti sempre respinti con perdite.
La prima stagione di Draxler con il Wolfsburg non ha propriamente coinciso con le aspettative di chi ha sborsato 36 milioni di euro (e 5 milioni all’anno per i successivi cinque anni) per strapparlo alla concorrenza: 36 presenze, 5 gol e altrettanti assist in campionato, che diventano, rispettivamente, 3 e 2 nelle 9 apparizioni in Champions League. Né il 2016/2017 è cominciato con i fuochi d’artificio: zero gol e zero assist nei primi 180 minuti di stagione. Il tutto unito a una discontinuità a tratti disarmante e ai cronici difetti di personalità. È come se il giocatore non nutrisse abbastanza fiducia nelle sue indubbie capacità e, quindi, tendesse a frenarsi nella singola giocata e nell’interpretazione della singole fasi all’interno di una partita. Non propriamente il massimo per chi ha debuttato tra i professionisti da ormai cinque anni, che nel calcio di oggi sono un’eternità.
Il primo gol di Draxler da pro
C’è, però, da precisare che non è del tutto colpa sua. Se, infatti, il Draxler 24enne sembra ancora la copia (più robusta) di quel ragazzino che riuscì a conquistare persino uno come Felix Magath, lo si deve a due ordini di fattori: la mancanza di un allenatore che abbia potuto seguire con continuità il percorso di crescita e il non essere ancora riusciti a capire (lui per primo) quale sia il suo ruolo ideale. Con Dieter Hecking che, se possibile, ha ingigantito ancor di più questo equivoco tattico, spostandolo dalla fascia sinistra, territorio di caccia privilegiato degli esordi, al centro del campo, utilizzandolo come trequartista e, talvolta, anche come punta centrale, senza per questo riuscire a trovare una soluzione definitiva al problema della continuità di rendimento. Qualcosa che, a cinque anni e mezzo dal suo debutto in Bundesliga, comincia ad essere l’elefante nella stanza che ci si ostina a far finta di non vedere, abbagliati dagli sprazzi di un talento che continua a manifestarsi troppo poco in relazione al potenziale fisico e tecnico a disposizione.
Anche per questo, il mancato salto in una grande potrebbe essere motivo di rimpianto. Giocare sotto pressione, in una squadra chiamata a competere per grandi obiettivi, avrebbe aiutato Julian in due modi: nel superamento degli oggettivi limiti caratteriali che hanno condizionato l’espressione completa del suo enorme potenziale; nella definizione ultima di che cosa sia davvero in campo, magari con un allenatore che, al di là degli esperimenti, ne sappia tirare fuori il meglio, dandogli un ruolo e una dimensione definitiva in cui esprimersi compiutamente. Ma in quale big europea potremmo assistere alla versione migliore di Julian Draxler?
Juventus
Nell’estate del 2015 Massimiliano Allegri si era convinto a ritornare all’amato 4-3-1-2, accantonando il 3-5-2 di Antonio Conte. Per far questo, però, nel ruolo di trequartista aveva bisogno di un giocatore, dotato di un buon tiro dalla distanza (magari ambidestro), in grado di strappare palla al piede e di creare la superiorità numerica attraverso il dribbling. Il perfetto identikit del numero 10 dello Schalke che, pur venendo da una stagione un po’ così, aveva letteralmente impressionato in una notte di Champions di metà settembre contro il Chelsea. L’unica perplessità era di natura fisica (appena 19 partite disputate tra campionato e coppe varie) ma, per il resto, l’allenatore livornese era convinto di poter fare di lui il vertice basso di un triangolo offensivo completato da Morata e Dybala, improntato al movimento e all’attacco della profondità senza punti di riferimento certi per le difese avversarie.
Lampi di classe di Draxler a Stamford Bridge
La cessione milionaria di De Bruyne al City, però, consentì al Wolfsburg di piazzare lo sgarbo last minute vanificando il lavoro di un’estate di Marotta e Paratici e costringendoli ad una soluzione di ripiego (Hernanes). A distanza di un anno, l’idea resta forte: l’arrivo del tedesco sarebbe la risposta ideale alla volontà di Allegri di avere a sua disposizione una squadra camaleontica, con giocatori intercambiabili, in grado di interpretare più ruoli. Comprare Draxler significherebbe virare decisamente sul già menzionato 4-3-1-2 o, in alternativa, sul 4-3-3, essendo difficilmente ipotizzabile l’impiego del nostro come mezzala sinistra in un centrocampo a 5, non foss’altro per la scarsa attitudine alla fase difensiva: nelle 21 partite disputate nella Bundesliga 2015/2016, le azioni in ripiegamento sono state appena 23 (15 intercetti e 8 interventi ad evitare la conclusione a rete), a fronte delle 80, per esempio, dell’ultimo Pogba juventino. Il fatto che il mercato abbia portato in dote giocatori come Pjaca e Cuadrado è esemplificativo di come Allegri intenda alternare lo sviluppo del gioco sugli esterni a quello per vie centrali, con Dybala che sta affinando sempre di più le sue capacità in fase di raccordo tra i reparti centrocampo e attacco. In un contesto simile, Draxler ci starebbe benissimo e non avrebbe nemmeno troppe difficoltà di inserimento.
Arsenal
In linea puramente teorica, Draxler sarebbe un giocatore perfetto per un 4-2-3-1, in virtù della sua capacità di giocare off the ball e di muoversi negli spazi tra seconda e terza linea di pressione. Quindi l’ideale per il gioco di Arsène Wenger. Vero, ma fino ad un certo punto. La chiave di tutto va ricercata nella posizione di Özil che, già di suo, tende a spostarsi dalla zona centrale verso l’out sinistro, ad eccezione di quanto accade sulle transizioni offensive susseguenti ad un recupero palla nella propria metà campo. Il rischio di vedere i due connazionali pestarsi i piedi (cosa che non accade in Nazionale con il 4-3-3 “spurio” di Löw che preferisce schierarli sui due lati opposti del tridente offensivo proprio per evitare perniciose invasioni nella zona di competenza), avrebbe spinto Wenger ad utilizzare Draxler sulla fascia, obbligandosi, però, ad utilizzare Coquelin ed escludendo a priori uno tra Xhaka e Cazorla (che, invece, in un sistema in cui gli esterni offensivi – siano essi Ramsey/Sanchez o Chamberlain/Walcott – corrono anche all’indietro, possono tranquillamente coesistere) a causa della scarsa attitudine difensiva di ben due giocatori di movimento su otto. In parole povere: in un sistema difensivo rivedibile già di suo e che fa fatica a tollerare un Özil “boccheggiante” in fase di non possesso, l’aggiunta di un secondo elemento che non fa del lavoro in fase di non possesso il proprio cavallo di battaglia comprometterebbe definitivamente degli equilibri già precari.
E anche con il pallone tra i piedi i dividendi non sarebbero stati poi molto alti. I Gunners sono una squadra che privilegia la ricerca spasmodica della verticalità: caratteristica che Draxler ha un po’ perso nel corso dell’ultima stagione quando il rapporto tra passaggi orizzontali e verticali ha subito un pesante appiattimento. Si renderebbe, quindi, necessario un importante lavoro di riprogrammazione delle letture offensive del giocatore, riportandolo al calcio diretto, istintivo e immediato delle origini.
Real Madrid
In Spagna ricordano ancora la gara disputata alla Volkswagen Arena lo scorso 6 aprile che stava per costare al Real Madrid l’accesso alle semifinali di Champions League. Una delle migliori di Draxler in maglia Wolfsburg: una prestazione a tutto campo sublimata dalle tre nitide occasioni da rete create (c’è il suo zampino in entrambi i gol tedeschi), dall’89% di precisione nei passaggi e dal 50% dei dribbling riusciti che hanno creato la superiorità numerica sul centro-sinistra di competenza. Uno dei rari ritorni stagionali a quel che era il suo modo di giocare degli esordi.
Abbagliante, in Wolfsburg-Real Madrid 2-0
Un Draxler utlizzato nel ruolo di James Rodriguez (mezzala sinistra sui generis in un 4-3-3 che chiede tanto sacrificio in ripiegamento ai due esterni offensivi in relazione allo scarso impegno di uno dei due interni in fase difensiva) sarebbe molto più funzionale alle idee di Zidane. Il colombiano, infatti, è progressivamente finito ai margini del progetto tecnico madridista a causa della sua tendenza ad accentrarsi, finendo con il pestarsi i piedi con un Ronaldo che veniva a prender palla ai 20 metri dalla porta, per poi rigiocarla sugli esterni e attaccare la profondità. Il fatto che Rodriguez abbia creato il 61.6% delle sue 60 occasioni da rete (8 assist e 52 key passes) negli ultimi 30 metri della trequarti offensiva centrale, dimostra la sua scarsa inclinazione a voler cercare maggiori e migliori spazi di manovra. Draxler, invece, ha propria la caratteristica di partire dall’esterno per poi aggredire la profondità venutasi a creare dopo lo scambio con l’esterno di riferimento: vedere per credere l’azione che ha portato alla rete di Hector nell’amichevole contro l’Italia del 29 marzo.
Corsa e assist per Hector
Paris Saint-Germain
Conoscendo il sentire calcistico di Unai Emery, appare difficile immaginare un suo assenso ad Al Khelaifi in relazione all’offerta di 75 milioni di euro al Wolfsburg. Perché Draxler con Emey non c’entra praticamente nulla, come tutti gli anarchici di talento senza un ruolo ben delineato. Per giocare per questo tipo di allenatore Draxler avrebbe bisogno di essere un giocatore associativo alla Di Maria: che non vuol dire provare ad imitare pedissequamente i movimenti e le letture del Fideo, ma imparare a giocare con e per gli altri, mettendo il talento al servizio di un’impiantistica di gioco in cui ognuno sa cosa fare e quando farlo.
Sarebbe necessario un lungo apprendistato fatto di dura e dolorosa panchina: impossibile per uno che si sarebbe presentato a Parigi con l’etichetta di problem solver e che, all’indomani del suo passaggio al Wolfsburg, disse di non sentirsi in grado di sopportare le pressioni e le aspettative che lo avrebbero circondato se avesse preso un’altra decisione. Il che ci riporta al punto di partenza. Arriverà mai il giorno in cui Julian Draxler capirà che essere un campione vuol dire accettare il peso delle responsabilità e delle pressioni delle grandi squadre? Per Draxler questo passaggio deve avvenire adesso che non sembra ancora pronto, affinché comprenda, lui per primo, quali sono i suoi limiti, cosa fare per superarli e prendere coscienza di quel che intende diventare da grande.