Izena duen guztia omen da. Tutto ciò che ha un nome esiste. È un proverbio basco ed è il miglior modo per iniziare a raccontare la ricomparsa sulla scena calcistica che conta di una squadra che da anni è appunto ormai quasi solamente un nome: il Deportivo Alavés. Una squadra che nella piazza della Virgen Blanca di Vitoria-Gasteiz è accolta in un tripudio di bianco e azzurro quando vince, ma che per il resto del mondo fu un baleno improvviso e sfumato, una stellina curiosa che brillò un solo anno, per poi eclissarsi chissà dove tra le onde dell’Atlantico e le colline del Paese basco. Il tutto proprio mentre – tra Barcellona, Madrid e la Roja – il fútbol spagnolo si avviava a vivere il suo apogeo storico. Oggi però quel nome ritorna. Nei mille parchi della verdissima città capoluogo di Euskal Herria, nelle tabernas, nella peña Tribuneros Albiazules: «Ciascuno è di sua madre, ma tutti siamo dell’Alavés». Ma dietro la sua piccola storia se ne nasconde un’altra, quella del rinascimento del calcio in Euskal Herria.
Ma andiamo con ordine, partendo dal gol di Ibai Gómez che sabato 10 settembre piega il Barcellona. 2-1 al Camp Nou, ci sarebbe quasi da celebrarlo con un aurresko, la danza tradizionale tutta slanci di gambe e piroette. I mostri sacri umiliati da una neo-promossa, anzi da un nome che risuona come un’eco. Perché per gli appassionati l’Alavés non è una novità, ma una madeleine proustiana. A ognuno il suo ricordo di quel 2001 in cui l’Europa scoprì i carneadi di Vitoria. Qualcuno ricorderà la finale di Coppa Uefa più spettacolare di sempre, persa 5-4 al golden gol contro il Liverpool; qualcuno ricorderà Jordi Cruyff in divisa rosa passeggiare sui resti di un’Inter incredibilmente eliminata; qualcun altro ricorderà il testone sgraziato di Javi Moreno, che quell’anno sembrava un fenomeno e al Milan si trasformò in un oggetto non identificato. Ma tutti ricordano più o meno vagamente l’Alavés.
La finale di Coppa Uefa del 2001, vinta dal Liverpool contro l’Alavés
Quel che non si sa di preciso è cosa sia poi accaduto a quella cometa, che negli ultimi 15 anni ha attraversato tutto un firmamento di passaggi di proprietà, retrocessioni e proprietari pittoreschi come il magnate ucraino-americano Dmitry Piterman, un tizio che dava degli ubriaconi grassi ai giocatori e dei minorati mentali ai tifosi e che ha lasciato il club praticamente in bancarotta. Niente che non succeda ogni anno anche in Italia, per carità. Ma qui siamo nei Paesi baschi, una terra di leggende e miti duri a morire, dove anche una parabola sportiva tutto sommato comune può diventare epica, soprattutto se si cercano i segni del destino in un inno. E quello dell’Alavés recita: «Resurges potente otra vez». Risorgi di nuovo potente.
Eppure, più del folclore e delle profezie, sono la programmazione e la passione a spiegare la resurrezione del Glorioso Alavés in Primera Division. Il destino cambia marcia nel 2011, quando la squadra finisce nell’orbita di Saski Baskonia – più conosciuta in passato come Tau Vitoria – una delle pochissime squadre di basket a spezzare il duopolio Real Madrid-Barcellona. Un sincretismo sportivo quasi inevitabile in una regione di alpinisti e surfisti e per un club che gioca al Mendizorrotza, stadio circondato da piscine che fu inaugurato con una corsa ciclistica e una podistica. Fatto sta che il matrimonio con la pallacanestro, o saskibaloi, è una salvezza. I conti vengono risanati e soprattutto viene rettificata l’identità basca del club. Nasce una polisportiva (c’è pure una squadra di videogiocatori) che di fatto diventa rappresentante dell’intera comunità dell’Alava, qualcosa di più coinvolgente e duraturo di una semplice stagione vittoriosa di Coppa Uefa: «Il grande miracolo – scrive Iñaki Angulo sul Diario de Alava – è aver fatto capire che se sei di Vitoria è più naturale tifare Alavés piuttosto che per i campioni artificiali di Barça o Real». È la genuinità degli affetti, un modello di calcio sostenibile in tempi di circo calcistico mondiale, con capitali cinesi e squadre che somigliano sempre più a marchi e filosofie globali. È la risposta basca alla distanza sempre più siderale che separa le élites del pallone dagli spalti delle piccole realtà, uno specchio fedele della repulsione generale del Paese nei confronti dell’establishment politico, economico e – perché no – calcistico.
La vittoria dell’Alavés al Camp Nou
Già, perché con la promozione degli azulblancos è successo qualcosa che non accadeva da 83 anni: quattro squadre basche nella massima serie spagnola: Athletic Bilbao, Real Sociedad, Alavés ed Eibar. L’ultima volta era accaduto nel ’32/’33, con l’Arenas Getxo al posto dell’Eibar. Ma quella era l’epoca d’oro del calcio basco, che durante la Repubblica giunse addirittura a schierare 5 club su 10 in Primera (con l’Union Irun nel 1930/’31 e ‘31/’32). Andalusia, Euskadi e Catalogna – le regioni in cui i contatti con il mondo britannico erano più frequenti per motivi imprenditoriali e commerciali – erano state le culle del calcio in Spagna e nel ricco Nord, da Irun a Vitoria passando da San Sebastián, le squadre fiorivano e prosperavano. Durò poco: il calcio sempre più professionistico, la guerra civile e poi il franchismo spezzarono il dominio. E neppure nei quattro irripetibili anni dal 1980 all’84, quando la Liga fu terreno di conquista di Real Sociedad e Athletic, accadde più di ritrovare tante squadre basche in Primera.
Edgar Mendez esulta dopo la vittoria contro l’Atlético Madrid (Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)
Statistiche, si dirà. L’Andalusia schiera anch’essa quattro squadre (Siviglia, Betis, Grenada e Malaga) e non siamo qui a decantare l’impresa. Vero, ma l’Andalusia è la comunità autonoma più popolosa di Spagna, con 7,5 milioni di abitanti, mentre Euskadi ne assomma poco più di due milioni. Volendo essere ancor più precisi e considerando l’entità culturale-territoriale di Euskal Herria (ossia le terre dove si parla euskera), anche l’Osasuna – amministrativamente parte della Navarra ma in tutto e per tutto espressione della cultura basca – le squadre sarebbero 5 per un bacino di tre milioni o poco più di persone. Cose da far impallidire Londra, che con i suoi 8,6 milioni di abitanti vanta “solo” 5 club in Premier League. Ma al di là della matematica, i numeri raccontano una realtà che va oltre la narrazione più facile del calcio basco, ovvero l’affascinante ma un po’ riduttiva favola dell’Athletic Bilbao. Il fatto che i Leones persistano nella loro autarchia calcistica tesserando solo giocatori baschi o cresciuti nei vivai di squadre autoctone ha rischiato in questi anni di oscurare un movimento sportivo capillare, una rete di canteras e osservatori, scuole calcio e oratori, che oggi arriva a dare i suoi frutti per tutta la comunità. L’Athletic – mai retrocesso, duro e puro – è la punta dell’iceberg, segna la via. Ma dietro c’è tutto un mondo. La Real Sociedad, per esempio, era di fatto fallita. Retrocessa in Segunda nel 2007 dopo 40 anni, posta in amministrazione controllata nel 2008, ha saputo rialzarsi, conquistando addirittura un posto in Champions nel 2013. Oppure l’Eibar, al momento il club basco meglio piazzato in classifica: promosso per la prima volta nella sua storia in Primera nel 2014, retrocesso sul campo e poi ripescato per le irregolarità dell’Elche, oggi impressiona e diverte. Eppure è espressione di una cittadina incastonata tra i monti: 40mila abitanti, una fiorente industria bellica e gente come Xabi Alonso e David Silva ad aver vestito la camiseta azulgrana.
A parte l’Athletic, nessuna di queste squadre si limita a ingaggiare solo giocatori baschi. Nessuna ne ha fatto una battaglia quasi politica come il Bilbao. Eppure sottotraccia il comune lavoro delle giovanili si percepisce. È una strategia darwiniana di sopravvivenza: se non puoi competere economicamente con i colossi mondiali di Castiglia e Catalogna, tanto vale cambiare strategia e magari tornare ai tempi in cui i campioni si crescevano in casa. Non è un caso che in attacco l’Alavés schieri Toquero e Ibai Gomez, due che nella loro carriera non sono mai usciti da Euskadi. Non è un caso che il capitano della Real Sociedad sia Xabi Prieto, all’Anoeta fin dalle giovanili. Non è un caso che l’intera dirigenza dell’Eibar, compreso l’allenatore Mendilibar, sia basca. Non è un caso che una delle promesse dell’Osasuna di cognome si chiami Otegi, come il leader separatista del partito Batasuna, ma di nome faccia Antonio Islam: è la modernità in salsa basca, il multiculturalismo nel senso migliore del termine. L’autarchia è l’extrema ratio, un integralismo splendido perché eroicamente anacronistico e ribelle, ma non è indispensabile. Quel che conta è l’identità, magari da ritrovare come un porto sicuro dopo anni di burrasche finanziarie. Un’identità matura, che non rinnega un dna fieramente abertzale, ma che fa i conti con una situazione politica locale ben diversa.
Anche in questo l’Alavés può essere un esempio: gli ultras più caldi fanno riferimento al gruppo Iraultza («Rivoluzione»), espongono striscioni di solidarietà a Palestina e Donbass e ricordano le cinque vittime delle violenze del 1976, uccise dalla polizia nel quartiere operaio di Zaramaga. Il radicalismo non si discute. Eppure gli ultimi sondaggi dicono che in Euskadi i separatisti sono in netta minoranza, che la pacificazione e l’amnistia per i prigionieri politici sono solo al 14esimo posto tra i problemi più sentiti dalla popolazione, che ben il 70% degli elettori si dichiara poco o per nulla interessato alla politica. Dopo il cessate il fuoco di Eta e lo spettro della crisi economica ormai alle spalle, il Paese basco non è più una polveriera come quando Real e Athletic vincevano i campionati. Non vive più di incendi, ma di braci che covano nelle urne elettorali e nelle curve degli stadi: è diventato “grande”, con un movimento calcistico maturo e un’identità consapevole. Il simbolo di questa conquista sta nello sventolare dell’ikurrina, la bandiera basca. Nel 1976 era ancora proibita quando Kortabarria e Iribar, i capitani di Real Sociedad e Ahtletic, la portarono in campo prima di un derby, rischiando l’arresto. Se oggi l’Alavés e altre tre squadre basche se la giocano con Real e Barcellona, un po’ di merito è anche loro.