Ho incontrato Andre Agassi a New York. Un venerdì pomeriggio di novembre così caldo da sembrare un giorno di fine estate. Come una di quelle giornate che fanno crescere la nostalgia per il mare e le vacanze, e che fanno sembrare l’autunno – che sta per arrivare – come un incubo. E invece l’autunno è la stagione più bella della città più città del mondo; ed è anche la stagione della vita più bella per una leggenda. Perché se l’estate di Agassi va più o meno dal 1992 al 2003, ed è il periodo dei successi e delle centinaia di milioni di dollari guadagnati, il suo autunno inizia con la pubblicazione di Open e continua. Continua. Continua.
È una stagione diversa, ma più ricca. Anche di guadagni, ma non solo. È una stagione più ricca perché viaggia in tutto il mondo e incontra persone, bambini, businessmen, manager, sponsor, e altre leggende. Li incontra e parla. Ricorda e emoziona. Insegna con le parole. E con i suoi occhi. Ecco, gli occhi di Andre Agassi andrebbero clonati e regalati ai professori di tutte le scuole del pianeta. Perché due occhi così ti prendono e non ti lasciano più. Perché aggiungono dettagli alle parole. E resti immobile. Ipnotizzato. Lo sguardo è stata una delle sue fortune da giocatore, perché gli permetteva di anticipare il gioco dell’avversario. Muoversi solo all’ultimo secondo. Agassi con i suoi occhi giocava e vinceva. Oggi con gli occhi entra nel cuore di chi ascolta. Quando sintetizza la sua infanzia in un ritornello «mi alzavo, giocavo a tennis, andavo a lavarmi i denti. E così uguale il giorno dopo». Un sacrificio continuo, obbligato da suo papà. Una storia che Agassi cita, seduto su un palco, ma che ha raccontato benissimo nelle prime pagine di Open, con quella macchina sparapalle che si era trasformata in incubo per lui e che ancora oggi cita spesso nelle sue conferenze.
Un’autobiografia che ha ridefinito i parametri della letteratura sportiva. Nel senso che sarà difficile scrivere meglio un libro di sport. Un libro che racconta un senso di obbligo. «Diventare il numero uno del tennis», ecco cosa gli ordinava papà. Il padre (e il sacrificio) sono due aspetti correlati che Agassi utilizza sempre per spiegare i successi. Per spiegare il dolore. Per spiegare anche le sconfitte. Del campo e della vita (l’utilizzo di droghe, e quanta sofferenza da quel divorzio con Brooke). Ma guardare indietro non serve. «Il parabrezza della macchina è decisamente più grande dello specchietto retrovisore, no? Così bisogna focalizzarsi nella vita! Non essere spettatore! Sii protagonista! E resta sempre fedele a te stesso».
Applausi. Applausi di tutta l’orchestra, e la platea e le gallerie. Agassi è seduto al centro di quella scatola di gioielli che è il palco del Lincoln Center. 150 metri da Central Park, 10 minuti a piedi dal palazzo più presidiato di New York, la Trump Tower. Praticamente in contemporanea al World Business Forum — organizzato da Wobi — dove è ospite Agassi, il commissario del dipartimento di polizia della città tiene una conferenza stampa per raccontare come si stia cercando di controllare la 5a strada all’altezza del palazzo del presidente, diventata il centro dell’attenzione mediatica di tutti i network del mondo. Esempio della connettività umana che ha sempre affascinato Agassi. «Abbiamo tutti vite differenti, ma viviamo la stessa giornata, non dimentichiamolo mai. Sviluppiamo i rapporti, accettiamo di rischiare, non dobbiamo sempre vincere a tutti i costi». E mentre lo racconta, gli occhi si fanno lucidi. Colpa di piccole lacrime.
Ancora una volta i suoi occhi fanno la differenza. E sottolineano concetti alla base della vita come il rispetto per il prossimo, per chi hai davanti. E per Agassi nel suo autunno il suo prossimo sono innanzitutto i figli («L’undicenne in questi giorni sta diventando un po’ pazza…», ride) e i figli dei meno fortunati. Un impegno che il tennista porta avanti insieme alla moglie Stefi Graff con la sua fondazione, con cui ha acceso un mutuo di 40 milioni di dollari per aprire una scuola a Las Vegas. Storie da vero grande uomo, da uno che ha sofferto e vinto prima, è caduto e poi si è rialzato, e che rendono un autunno di carriera più luminoso di quando batteva Pete Sampras all’Australian Open del 1995. Storie che ti fanno emozionare quando ce l’hai faccia a faccia. Incroci quegli occhi con i tuoi per pochi secondi e puoi solo raccontare il piacere di essere lì. Dirgli grazie per il tennis che ha giocato, e scattare una foto insieme. E pensi che uno come lui continua a illuminare chi ha davanti. Con efficacia e semplicità. E c’è da chiederglielo allora come si fa a restare così umili. «Facile», ti risponde, «basta sposare una donna migliore di te». Facile, leggenda.