Dortmund 04-07-06, Italia-Germania 2-0

Semifinale del Mondiale in Germania. Una vittoria inattesa, una vittoria di tutti. Anche di chi non c’era.
di Marco Bucciantini 20 Dicembre 2016 alle 17:13

C’è una torre che domina Dortmund, e accompagna la chiesa di San Rinaldo: fra poco compirà cinque secoli di vita ed è un bel compleanno in una città sostanzialmente distrutta durante la Seconda guerra mondiale. Intorno, ricostruirono basso perché la torre – sopravvissuta – svettasse. La memoria ha il posto più alto dove si riesce a ricominciare.

Nella città più densa della Ruhr i nostri operai calabresi, siciliani, pugliesi andarono a popolare le industrie che sbuffavano progresso e tiravano guadagni (per questo Dortmund fu bombardata: per indebolire l’industria riconvertita da Hitler alle esigenze belliche), e così temevano e speravano di ricominciare una vita dignitosa. Lì, l’Italia del calcio ha vissuto il suo giorno più lungo. Di solito, può nascere una Nazione, in certi momenti. In verità, nacque solo una Nazionale, e fu transitoria come lo sono le vicende del calcio, in un Paese di tifoserie. Avessero immaginato il finale, i tedeschi avrebbero fatto organizzare il Mondiale ai polacchi.

In un’afosa mattina romana del 4 luglio del 2006 arrivarono le dure richieste della giustizia sportiva sui fatti di Calciopoli: stando alle intenzioni del procuratore federale (poi mitigate dalle successive sentenze) mezza Italia giocava fra Serie B (Toni, della Fiorentina, i milanisti, i laziali) e Serie C (i numerosi juventini). I processi da una parte, con le ferite, le parole, i fatti che scavavano per allontanare le persone. La Nazionale di Lippi dall’altra: erano gli assi di un binario dove correva un treno che a tarda sera ci illuse di caricarci tutti, sullo stesso viaggio.

119 Il minuto in cui Fabio Grosso segnò l’1-0 contro la Germania. Due minuti dopo arrivò il raddoppio di Del Piero Quella partita tentò di concimare le macerie. Di sicuro, restituì agli italiani quel Mondiale, avviato fra la vergogna. Si andò – ero fra i cronisti al seguito – ma intorno si affollavano i profeti di sventura, perché il calcio italiano doveva pagare, non poteva truccarsi con le vittorie. Invece, la squadra vinceva: come da tradizione, faticando, sussultando sull’orlo della sconfitta, e la sorte era venuta incontro con l’Australia agli ottavi, l’appagata Ucraina ai quarti.

Poi fu Italiagermania: così, tutto attaccato, non è un refuso e anche se precisamente fu il contrario (noi a casa loro, dunque Germania-Italia), quella è l’unica partita che vive con un suo titolo, Italiagermania, una cosa nostra, e anche un patrimonio del calcio intero. Questo è il nome. Il cognome cambia: quattro-a-tré, il padre, Città del Messico, 1970. Tre-a-uno, il figlio, Madrid, 1982. Due-a-zero: il nipotino, nato proprio a Dortmund.

12 I gol segnati dall’Italia durante la manifestazione: Luca Toni e Marco Materazzi furono furono i migliori marcatori con due reti a testaSuccesse ai supplementari, quando in campo non c’è quasi più niente, la squadra “programmata”, allenata e tenuta insieme dall’applicazione di molti alla distanza si disperde, piano piano, ma succede. Si fanno posto altre cose: l’emotività condivisa, la solidarietà, la capacità nei duelli offerti dalla stanchezza, che impedisce i lavori di gruppo. Al minuto 119 segnò Grosso, come tutti sanno: il terzino alto, un poco sgraziato, dal sinistro però sapido. A loro restavano due minuti di disperazione, li fermò Cannavaro, poi un tocco avanti di Totti, un surplace di Gilardino, l’arrivo di Del Piero, eccolo un gol italiano, sull’asse verticale in un presente orizzontale ossessionato dalle parvenze.

Lo stopper, il trequartista, il centravanti: l’azione sviluppa così, incollata dalla logica, dalla linea più rapida per ribaltare la pressione. Un gol che era comunione nazionale: un napoletano che avvia la manovra, un romano che la sveltisce, un padano che la gestisce, e Del Piero, il giocatore più “marcato” di juventinità – e cos’era essere bianconero, quel giorno, con quelle richieste della Figc – che fa urlare il Paese intero, riunito dalla punizione che aveva finalmente scrostato l’ipocrisia che proteggeva quel mese, quella squadra.

460 Gigi Buffon rimase imbattuto per 460 minuti: nella storia dei Mondiali ha fatto meglio solo Zenga nel 1990 con 517 minutiPoi, dopo il lavacro, il gruppo che ormai era squadra, anche al lumicino delle forze, s’infiammò di luce. I tedeschi ci correvano dietro dall’infinito pomeriggio messicano. Volevano prenderci a Dortmund, e chiudere quel conto aperto per una razza «che teme solo Dio, e nient’altro al mondo», come disse Otto von Bismark, che venne prima del football, e non poteva sapere che quel popolino sotto le Alpi, appena organizzato e intimorito dai grandi imperi appollaiati sul confine, e che gli implorava protezione (dall’Austria, dalla Francia), sarebbe poi diventato il babau della gente da lui riunita.

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