È praticamente impossibile rileggere e raccontare Mario Mandžukić senza confrontarsi con la letteratura della lotta, della guerra, con la trasposizione calcistica – quindi fortemente retoricizzata – di concetti legati alla supremazia fisica. È una specie di condizione necessaria, a cui ti costringe lo stesso Mandžukić con la sua autonarrazione. Ieri mattina, per esempio, la quote scelta dal Corriere della Sera per titolare un’intervista al centravanti croato è stata «Siamo belve vincenti».
Un’altra testimonianza di questa scelta comunicativa si trova nei profili social di Mandžukić, ad esempio Twitter e Instagram. Gran parte dei post sono corredati da hashtag in inglese che significano ed automaticamente esaltano “coraggio”, “spirito di squadra”, “passione”, “combattimento”. Significati che da sempre caratterizzano il personaggio, insieme ad atteggiamenti molto restrittivi, per non dire contrari, rispetto alle intrusioni dei media. Un rapido giro su internet, un viaggio nel tempo nelle (poche) interviste concesse lungo una carriera ormai decennale, spiega che Mandžukić «non ama parlare con i giornalisti». Che non ha mai amato farlo. «Preferisco parlare sul campo, attraverso le mie prestazioni». L’ha detto anche nell’intervista di ieri al Corsera, Mario Mandžukić. Che è sempre rimasto coerente, che non è mai cambiato.
La tipica immagine sottilmente allusiva del profilo Instagram di Mandžukić.
Il suo modo di giocare, di interpretare il ruolo di centravanti, è una conseguenza diretta di tutti questi concetti, discende direttamente dai suoi esordi in Croazia. E anche questo è rimasto immutato nel tempo. In un articolo della Bild pubblicato nel 2009, si parla di un possibile interessamento del Werder Brema per Mandžukić. Il centravanti croato, allora 23enne, viene definito come «un attaccante dalle caratteristiche particolari, non classiche, con grande capacità di corsa e una strepitosa forza mentale». Su Youtube è possibile trovare una testimonianza del primo Mandžukić, la compilation di tutti i gol della stagione 2008/2009 giocata con la Dinamo Zagabria. La sensazione, vedendo scorrere le immagini, è quella dello strapotere tecnico accoppiato al predominio fisico. Ma anche, soprattutto, di una carica agonistica rara, assoluta. Mandžukić segna di tacco, con un destro a giro, di testa, rubando palla al difensore con un attacco alle spalle, in quello che poi diventerà un classico momento di pressing alla Mandžukić. Le 16 reti di quella stagione valgono il secondo di tre titoli croati consecutivi con la maglia della Dinamo e il titolo di Mvp della stagione secondo il giornale Sportske Novoski.
L’esatta definizione del primo Mario Mandžukić viene indovinata da Miroslav Ciro Blazevic, il ct della nazionale croata ai Mondiali del 1998. Blazevic lo porta 19enne nel suo Nk Zagabria e lo identifica con un soprannome particolare, Djilkos. Ovvero, “killer” in ungherese. In lingua slava, invece, il termine identifica una persona sfrontata, strafottente, quasi arrogante. Secondo Christian Giordani – autore dell’e-book Mandzukic: La bestia nel cuore -, l’utilizzo di questo termine era un complimento per la sua applicazione in campo, per il suo stile di gioco poco sofisticato ma efficace. Di certo, Blazevic non ha mai rimpianto il suo acquisto: in 52 presenze, a nemmeno vent’anni compiuti, Mandžukić segna i 14 gol che stuzzicano l’interesse della Dinamo. Nel 2014, durante i momenti di incomprensione tra Mario e Guardiola, l’ex ct croato ha definito Pep con termini gentili come «ciarlatano, incompetente e tecnico anti-talento». Tutto questo, solo per aver preferito Lewandowski al suo vecchio Djilkos.
La prima stagione di Mandžukić al Wolfsburg (2010/2011)
Le particolari caratteristiche tecniche e tattiche di Mandžukić non gli hanno impedito di arrivare in club di altissimo livello come Bayern Monaco, Atlético Madrid, Juventus. Accanto a quelli che sono poi diventati effettivamente i luoghi della sua carriera, quasi come a voler confermare un valore assoluto comunque altissimo, c’è tutta una letteratura che spinge il centravanti croato in altre grandi squadre. Anche in quelle con uno stile di gioco ricercato, elegante, quindi idealmente contrario alle sue skills. Nei primi mesi del 2014, ad esempio, il sito bleacherreport pubblica due pezzi in cui consiglia, letteralmente, Mandžukić al Borussia Dortmund e al Real Madrid. i due club in questione, al di là dei grandi fuoriclasse in rosa, rappresentano in quel momento due poli tattici per il calcio europeo: i tedeschi sono ancora allenati da Klopp, portano avanti il loro esperimento di calcio aggressivo votato al gegenpressing e dovrebbero acquistare Mandžukić proprio per la sua «capacità di aiutare la squadra in fase di non possesso». Le merengues sono invece guidate da Ancelotti, che ha scelto la formula orientata al bello, al palleggio raffinato del tridente-più-Di Maria (e Modrić), una disposizione tattica che porterà fino alla Décima di Lisbona. L’arrivo di Mandžukić, secondo bleacherreport, avrebbe garantito al Real Madrid «un’alternativa tecnicamente diversa, ma molto intrigante, per dare il cambio a Benzema». Risalgono ad agosto scorso, infine, le voci che raccontavano di un sondaggio del Barcellona per il calciatore. Ovviamente, anche per questi rumors c’è un pezzo apposito di bleacherreport.
Questa narrazione di mercato, ricca di accostamenti importanti, permette di andare oltre la retorica del guerriero Mandžukić, di ridefinire la sua collocazione nella mappa calcistica degli ultimi anni. Mario Mandžukić è un gran centravanti, un calciatore apprezzato e di grandissimo impatto tecnico. Lo leggi nei nomi di questi club, ma anche e soprattutto nei numeri della sua carriera: nelle sue due stagioni al Bayern, segna 48 gol in 88 presenze e fa registrare una shot accuracy totale del 65,5%. Nella sua unica annata all’Atlético Madrid, arriva a un’incredibile quota dell’80% di precisione del tiro in Champions League e mette insieme 67 eventi difensivi in 38 match giocati tra Liga e competizioni internazionali.
Quasi come a voler confermare l’imprevedibilità della realtà e del calcio, il matrimonio più avaro di soddisfazioni è proprio quello che sembra il meglio assortito: Mandžukić e il cholismo, il duro Mario da Slavonski Brod — città fluviale al confine tra Croazia e Bosnia — e i principi dell’agonismo e dell’abnegazione che caratterizzano l’Atlético Madrid di Simeone. Un’unione potenzialmente perfetta, mitopoietica, esplosiva, inizialmente salutata dagli applausi unanimi di tutti gli analisti del continente. Outside of the Boot pubblica un articolo dal titolo autoevidente, che confronta il centravanti croato col suo immediato predecessore colchonero: «Diego Costa who? Mario Mandzukic, your time is now». Nel pezzo, Marvyn Paul scrive di come centravanti croato si adatterà «come un guanto dalla misura perfetta» al gioco di Simeone, basato su «un centravanti a cui è richiesto un grande sforzo energetico e che possegga caratteristiche assimilabili a quelle del croato». Anche bleacherreport presenta bene questo trasferimento, definendolo «a great match». Per Aleksander Holiga, il tecnico argentino avrebbe potuto rivelarsi «l’allenatore perfetto per Mandžukić , l’uomo in grado di sfruttare le sue capacità e di metterlo nelle migliori condizioni per esplodere». Questione di «carattere ed etica del lavoro del giocatore, che potrebbe trovarsi a meraviglia nel lavorare con il Cholo. La sensazione, poi, potrebbe facilmente diventare reciproca».
Persino la presentazione di Mandžukić al Vicente Calderón sembra l’inizio di una vera e propria storia d’amore. Lo capisci dal video: Mario sorride spesso, specie quando mostra la maglia rossa e bianca con il numero nove e il suo nome, e ha una faccia che esprime gratitudine, felicità e incredulità mentre una fetta di stadio lo applaude alla prima uscita con indosso i colori rojiblancos. Non sembra nemmeno troppo infastidito dalle domande di rito dei giornalisti, alle quali risponde in croato. In un’altra intervista di benvenuto, è proprio lui ad ammettere che «il suo stile di gioco si adatterà bene con quello della squadra». Non andrà esattamente così: al termine della stagione, Simeone dichiarerà a Radio Onda Cero che Mandžukić, a differenza di Diego Costa, «deve essere costantemente rifornito di palloni». Il Cholo, in un altro intervento, ricorderà dell’ottimo impatto avuto dal croato prima dell’esplosione di Griezmann, ma pure di un down che non gli ha permesso di rendere al massimo. Mandžukić viene ceduto alla Juventus per 19 milioni di euro.
Mandžukić all’Atlético Madrid: i 12 gol realizzati nella Liga.
Lanciare su Youtube una ricerca con la chiave “Juventus Atalanta Mandžukić” vuol dire trovarsi di fronte il compimento di un’evoluzione tattica, tecnica e narrativa. Due anni in bianconero sublimati in due momenti chiave, nella stessa area di rigore: il doppio salvataggio sui tiri di Freuler e Papu Gómez e il gol di testa, su calcio d’angolo di Pjanić. Però, analizzare la prestazione dell’attaccante croato contro i bergamaschi vuol dire andare oltre queste due situazioni specifiche, perché è necessaria la visione del tutto per capire l’importanza che Mandžukić, in questo momento, riveste per la Juventus. Snoccioliamo qualche cifra: 100% di duelli aerei vinti (5 su 5), 9 tackle tentati di cui il 56% riusciti, 2 palloni rilanciati e 3 cross effettuati. Oltre, ovviamente, ai 2 tiri respinti di cui abbiamo già detto. Sembra il riassunto statistico della prestazione di un difensore, è la partita di un centravanti.
La heatmap di Mandžukić in Juventus-Atalanta. È bene chiarire che la Juventus, in questa grafica, attacca da sinistra verso destra.
Il match contro la squadra di Gasperini non è assolutamente un caso isolato. Basta guardare i dati di quello contro la Roma, giusto l’ultimo: la percentuale di successo dei duelli aerei “scende” al 75%, gli eventi difensivi totali (tackle, intercetti, palloni rilanciati e cross bloccati) sono 11 in tutto. Non c’è il gol a corollario, questa volta, ma 3 passaggi chiave.
Mandžukić, oggi, è un attaccante in grado di sostenere il peso della vicinanza di Higuaín, di farsi carico delle caratteristiche di aiuto nella fase difensiva che mancano al Pipita. È stata anche una questione di tempismo: giusto nel momento in cui Dybala è venuto a mancare per infortunio, l’ex attaccante del Bayern ha saputo tirare fuori il meglio del suo repertorio tecnico e tattico, aiutando la squadra bianconera a superare indenne l’assenza del suo uomo offensivo di raccordo. Ovviamente, il contenuto del gioco aggregativo di Mandžukić è nettamente diverso da quello della Joya: come spiegato dall’analista di Sky Sports Adam Bate, il croato è «un calciatore fisico che esprime il proprio meglio nei movimenti senza palla, quasi come se riuscisse a convogliare in se il lavoro di due giocatori e assicurando, in questo modo, un uomo extra al centrocampo».
Tratta da un video intitolato “Mandžukić = The Human Wall”.
Il Mandžukić modellato da Allegri sul prodotto grezzo è dunque un calciatore che permette a chi lo affianca di rendere al meglio. L’anno scorso fu Dybala a beneficiare della vicinanza del croato, risultando a fine stagione il miglior realizzatore dell’organico bianconero, ma anche il calciatore con il maggior numero di occasioni create (87 tra campionato e Champions). L’arrivo del Pipita sembrava aver “retrocesso” il croato a prima riserva, ma le contingenze e una forma fisica straripante – nel momento del bisogno, tra l’altro – hanno in qualche modo ribaltato la situazione, consentendo a Dybala un recupero sereno dall’infortunio e instillando nell’ambiente bianconero l’idea sotterranea del tridente. Un’opportunità tattica più volte immaginata da Allegri nelle sue dichiarazioni, una possibilità di cui tener conto per il futuro. Soprattutto se Mandžukić dovesse mantenere questa condizione, che in qualche modo trasporta nella realtà di oggi una delle quotes più famose sul suo conto. Fu Felix Magath, suo tecnico ai tempi del Wolfsburg, a pronunciarla: «Potrebbe giocare due partite consecutive senza fermarsi nemmeno per un minuto».
Il compimento dell’evoluzione narrativa di Mandžukić è un’appendice di quella tattica, e sta quindi nella sua perfetta aderenza – pure caratteriale – alla squadra e all’ambiente in cui si trova a esprimersi, a giocare. Il racconto, del resto, non potrebbe essere più circolare: Mandžukić ha segnato a Torino, nel 2013, il suo secondo gol nella fase finale di Champions League. Era il Bayern di Heynckes, che poi avrebbe vinto il torneo nella finale tutta tedesca contro il Borussia Dortmund, a Wembley. Mandžukić ha segnato anche quel giorno. Lo Stadium, in qualche modo, ha rappresentato una prima svolta nella carriera del centravanti croato, che di lì a poco avrebbe conosciuto Guardiola. Un incontro negativo, nonostante il tecnico spagnolo abbia guidato Mandžukić nella sua miglior stagione a livello realizzativo (26 gol in 48 presenze). Si sono lasciati bruscamente, colpa dell’arrivo di Lewandowski e di un amore tattico che non poteva scoppiare: Mario, con Guardiola, non andrebbe a prendere «nemmeno un caffè». Un rapporto mai nato, che ha portato Mandžukić all’Atlético, al primo momento di ristagno della sua carriera. Poi, la Juventus, una rinascita. E una rivincita non consumata, con il Bayern di Pep che elimina i bianconeri di Allegri dall’ultima Champions solo ai tempi supplementari, dopo una rimonta all’ultimo respiro. Ieri, nell’intervista al Corsera, Mandžukić ha definito il calcio come «una cosa semplice». Solo che, a volte, «qualcuno deve renderla complicata». Non c’erano nomi, ma il riferimento forse non è proprio vago. E Mario Mandžukić è un personaggio coerente, in definitiva.
Lo conferma in un’altra parte dell’intervista, quando parla di “passione”, “coraggio”, “orgoglio”: «Sono concetti essenziali e non da oggi. Rappresentano quello che provo o che voglio sentire: nel calcio ma anche nella mia vita privata». Perfetto, è Mario Mandžukić. Che non è ancora cambiato.