Urla in gioielleria. Il figlio di Tabocchini, Leonardo, smette di fare i compiti, si tappa le orecchie e comincia a dare testate contro il muro. «Ma che sei impazzito? Sono calciatori della Lazio. È Re Cecconi». Biondo, quasi albino, due presenze in Nazionale con Fulvio Bernardini, Luciano Re Cecconi si trovava a terra in una gioielleria di via Nitti a Roma, una pallottola infilata nel torace. «Ghedo non te ne andare», riuscì a dire il giocatore prima di perdere conoscenza. Si rivolgeva a Pietro Ghedin, compagno di squadra in biancoceleste e oggi allenatore di Malta dopo un passato da assistente dei ct azzurri. Con loro c’era anche l’amico profumiere Giorgio Fraticcioli, che doveva consegnare al proprietario del locale due flaconi di deodorante. Era quasi l’orario di chiusura del 18 gennaio 1977.
I fatti di quaranta anni fa, l’assurda morte di Luciano Re Cecconi e il rapido processo che ne seguì sono l’oggetto del nuovo libro di Guy Chiappaventi: Aveva un volto bianco e tirato, edizioni Tunué. Per l’inviato di La7 quella vicenda è «un’ossessione» che si trascina da quando aveva otto anni. «La vita di un ragazzino gira attorno al calcio ed è inconcepibile che una figurina possa morire. Questo libro vuole rimuovere la crosta di damnatio memoriae che quell’episodio costò a Re Cecconi, che nell’immaginario collettivo perse la vita per uno sciocco scherzo. In quella Lazio di pazzi, tra Pedro, Long John e il Padrino, lui era soprannominato il saggio. Era il più lineare di tutti».
Il carrozziere di Lainate
La biografia di Luciano Re Cecconi a tutto fa pensare tranne che al cowboy metropolitano. Era nato il 1 dicembre 1948 a Nerviano, nord-ovest di Milano. Il prefisso Re, che impreziosiva il cognome suo e quello dei tre fratelli, fu un omaggio per la sosta in paese di Vittorio Emanuele nel 1859, di ritorno dalla battaglia di Magenta. Nelle sue condizioni di vita, però, non c’era nulla di aristocratico: dopo le scuole medie Luciano era andato a fare il carrozziere a Lainate, intanto dava una mano con la mungitura delle mucche di famiglia. Dopo lo svezzamento all’Aurora Cantalupo, nel 1965 passò per 75 mila lire alla Pro Patria e da lì, in auto con una borsa di tela e due camicie, raggiunse Foggia. Lo aveva voluto l’allenatore Tommaso Maestrelli, che, approdato in seguito alla Lazio, lo preferì ad Albertino Bigon e impose l’acquisto al presidente Lenzini.
«In campo era un instancabile cursore di centrocampo, dotato di tanta quantità e discreta qualità. Non si limitava a recuperare il pallone, ma faceva ripartire l’azione, come diceva di lui Rivera. Giocava come uno del nord Europa, tanto che, anche per via dei capelli biondi, lo paragonavano spesso a Gunter Netzer. Oggi, da quanto mi dicono gli ex compagni, potrebbe somigliare a Marchisio. Era estremamente generoso e questo gli era costato numerosi infortuni in carriera, l’ultimo dei quali non ancora smaltito nel gennaio ’77. Segnava poco, ma il 30 dicembre 1973 un suo gol al Milan all’ultimo minuto fu, assieme alla clamorosa rimonta dell’Olimpico sul Verona, uno degli episodi chiave dello scudetto laziale del 1974». Quel sorprendente trionfo, che la Roma biancazzurra avrebbe riassaporato solo alle soglie del nuovo millennio, si consumò presto. Due anni dopo la squadra si salvò all’ultima giornata. Con il 1980 e lo scandalo Totonero si spalancò il baratro della B. Allora, come mister Maestrelli scomparso per un tumore, Cecconetzer non c’era più.
Una squadra a mano armata
«Negli anni Settanta Collina Fleming era uno dei feudi laziali di Roma Nord assieme ai Parioli, a Vigna Chiara e Flaminia. Lo è ancora oggi che il campo di allenamento è stato trasferito a Formello dalla vicina Tor di Quinto: Simone Inzaghi abita qua, come in passato Zeman e Zoff. A quell’epoca i giocatori avevano il loro punto di ritrovo al bar Fiocchetti in piazza Monteleone di Spoleto, molti di loro avevano comprato o affittato casa in quartiere». Nel 1977 Collina Fleming era anche un’avamposto della destra neofascista. Delinquenza comune e delinquenza politica rendevano la capitale un luogo decisamente pericoloso. In città giravano troppe armi: nel 1976 le richieste di licenza di porto d’armi erano state 15mila, un quarto in più dell’anno prima. Secondo la relazione dell’allora procuratore generale della Cassazione Ubaldo Boccia, in quell’anno nel Paese c’erano stati 1591 omicidi e oltre 9 mila rapine.
Non era un caso che, come racconta il libro di Chiappaventi, al cinema spopolasse il genere poliziottesco. Da La polizia ringrazia di Steno alle perfomance cult di Maurizio Merli e Tomas Milian, le sale si riempirono di pellicole violente e grottesche, senza possibilità di redenzione. A mano armata erano anche i giocatori della Lazio, che a loro volta parevano usciti da una sceneggiatura di Umberto Lenzi. «Felice Pulici, brianzolo molto timorato, disse di aver capito che la situazione era sfuggita di mano quando vide il suo vice Moriggi arrivare all’allenamento munito di un pistolone. Giorgio Chinaglia possedeva una 44 magnum come l’ispettore Callaghan e un fucile, che mister Maestrelli requisiva ogni volta che il bomber dormiva a casa sua. Pedrelli sparò a un compagno che leggeva il giornale in camera, Wilson esortava l’autista Recchia a uno scaramantico giro attorno al bus accompagnato da una salva di colpi. All’hotel Americana, dove la squadra andava in ritiro, era stato allestito un poligono dinamico, mentre il presidente Lenzini faceva mettere sul suo conto le lampadine che i ragazzi spegnevano a modo loro senza alzarsi dal letto».
Naif. Così Chiappaventi, già autore del libro Pistole e palloni che racconta proprio quell’epopea vincente, definisce quel collettivo. Che, come i film poliziotteschi, andava sempre incontro alla stessa accusa: quella di fascismo. Chinaglia, nato nell’anarchica Carrara, una volta aveva detto di stimare Almirante, salvo poi pentirsene. Wilson ai tempi del referendum aveva fatto campagna contro il divorzio. Martini, compagno di centrocampo e grande amico di Re Cecconi, aveva fatto il parà e sarebbe poi divenuto parlamentare di An. Lo spogliatoio era diviso in clan, i primi due da una parte e i secondi dall’altra. Nelle partitelle erano botte vere.
Un uomo carico di ansia
Può tutto ciò avere avuto un peso nel corso del processo per la morte di Luciano Re Cecconi? «I suoi ex compagni, così come la famiglia, hanno sempre sostenuto che aver giocato in una squadra piccola e politicamente scorretta, una squadra considerata violenta e fascista, guidata da un palazzinaro nato in Colorado, non ha aiutato. Di certo la dirigenza laziale non aveva gli strumenti per affrontare una simile vicenda, come dimostra la decisione di costituirsi parte civile comunicata a poche ore dalla prima udienza» spiega Chiappaventi. Il processo per direttissima si aprì il 26 gennaio 1977 a piazzale Clodio. Sul banco degli imputati c’era Bruno Tabocchini, il gioiellere di via Nitti che aveva esploso l’unico colpo che uccise il centrocampista lombardo. Era accusato di eccesso colposo di difesa, si trovava in carcere dalla sera del decesso di Re Cecconi.
Quarantenne marchigiano, Tabocchini teneva sempre una pistola nel cassetto e una nella fondina. Aveva già subito delle rapine. Una volta aveva sparato a un ladro e lo aveva colpito a un fianco, un episodio per cui viveva nella paranoia della ritorsione. Negli atti del processo è descritto come «un uomo carico di ansia nella esasperata tutela dei suoi beni avendo introiettato una gerarchia di valori nella quale il suo patrimonio veniva prima della vita altrui». A studiare le carte fu il pubblico ministero Franco Marrone, considerato una “toga rossa” vicina a Potere Operaio. La morte di un calciatore era divenuta questione politica, appare evidente dai toni del dibattito e dalle pagine dei giornali. Per tutto il mese di gennaio il Corriere, la Stampa, l’Unità e Lotta Continua accumularono editoriali sull’ordine pubblico, sulla cultura del grilletto facile, sulla giustizia fai da te e sui limiti della difesa personale. Il clima era esasperato. Si distinse per le sue posizioni Il Tempo, unica testata a ospitare la raccolta firme dei negozianti romani che chiedevano la scarcerazione di Tabocchini. La lobby dei gioiellieri, compatta nel sostenere la necessità dei commercianti di tutelare vita e proprietà, ebbe un ruolo tutt’altro che secondario.
Un volto particolarmente bianco e tirato
«Mentre il profumiere viene verso il banco, noto uno dei due, quello biondo. Ha un volto particolarmente bianco e tirato». Bruno Tabocchini pronunciò in aula il 3 febbraio le parole che hanno dato il titolo al volume di Guy Chiappaventi. Furono settimane di udienze serrate, che orbitavano attorno alle ricostruzioni di chi quel giorno era presente nel locale. Ghedin, che in seguito non ha più voluto parlare della vicenda, in un primo momento sostenne che, prima di introdursi nella gioielleria con lui, il compagno aveva espresso la volontà di fare uno scherzo. Aggiunse che, una volta dentro, avrebbe detto «Fermi tutti, questa è una rapina». Che mentre spirava pronunciò le parole «Era solo uno scherzo». Questa versione è stata confermata da un altro testimone oculare, il macellaio Mario Isidori. Successivamente, però, Ghedin smentì di aver sentito quelle frasi, mai confermate nemmeno dal profumiere Fraticcioli che era con loro. Insomma, difficile prevedere l’esito del processo. Le polemiche erano assicurate quale fosse il verdetto.
Il 4 febbraio 1977 il giudice Severino Santiapichi lesse il dispositivo: «Tabocchini Bruno è assolto dal reato ascrittogli, trattandosi di persona non punibile per aver agito in stato di legittima difesa putativa». Alcune settimane dopo furono depositate le motivazioni, da cui si apprese che il gioielliere non aveva dimestichezza con le armi e viveva in uno stato di «esposizione quotidiana alla violenza dei rapinatori» che lo portò a compiere un «incolpevole errore». La sentenza, cui insolitamente fece seguito la richiesta della procura generale di non procedere a un appello, escluse inoltre che Re Cecconi e Tabocchini si conoscessero. Erano in molti a pensare che invece fosse proprio così.
Aggiustare la memoria
A Guy Chiappaventi il dubbio rimane. «Re Cecconi era famoso, era stato campione di Italia e azzurro ai Mondiali del 1974. I capelli biondi rendevano la sua figura unica. Frequentava la Collina Fleming quotidianamente, il giorno della morte era stato visto in giro per il quartiere sia la mattina che la sera. Era amico di molti commercianti della zona: al bar si serviva il caffè da solo, il macellaio accanto all’attività di Tabocchini era stato padrino di cresima di suo figlio. Il gioielliere e il calciatore vivevano a sessanta passi di distanza. Possibile che non sapesse chi era?».
Il libro pone una serie di interrogativi, che mirano a mettere in luce gli aspetti più controversi del dibattimento. «Secondo la verità giudiziaria Tabocchini puntò per primo la pistola contro Ghedin, perché se non era considerato lui la fonte di pericolo? Se io apro il fuoco su un malvivente in un buco di due metri e mezzo, pieno di gente, posso attendermi una reazione dell’eventuale complice, dagli esiti drammatici. Il gioielliere, infine, aveva un’assicurazione superiore al valore della merce: teoricamente non aveva motivo per sparare».
Il giornalista, lo sottolinea più volte, non cerca la revisione del processo, né vuole additare colpevoli. «Escludo in ogni caso la volontarietà dell’omicidio e penso più a un colpo accidentale partito durante una sorta di contro-scherzo di Tabocchini, la prova di abilità di un uomo agitato. Finita in tragedia». Al di là di quanto accaduto, in ogni caso prescritto e attuale solo per la passione dei tifosi biancocelesti più attempati e per via dell’eterno ritorno del dibattito sul diritto dei privati cittadini di reagire alla violenza, l’obiettivo finale del cronista è un altro. «Ciò che davvero conta è che la gente smetta di pensare a Luciano Re Cecconi come a un povero scemo fascistoide ed esaltato, morto alla Collina Fleming per la propria sfrontata stupidità».
Guy Chiappaventi
Aveva un volto bianco e tirato. Il caso Re Cecconi
Tunuè, 2016
192 pp.
Foto di Marcello Geppetti©Marcello Geppetti Media Company