«Riesci a vedere il potenziale di Lahm? Hai visto come prevede il prossimo passaggio? Hai visto come riesce a girarsi sul posto e a proteggere la palla? Può giocare sia in fascia che in mezzo al campo». A pagina 59 di Herr Pep, il libro che racconta interamente la prima stagione di Guardiola da allenatore del Bayern Monaco, l’autore e giornalista Martí Perarnau descrive con dovizia di particolari quello che sarà il punto di svolta del 2013/2014 bavarese. In un’amichevole estiva apparentemente priva di significato contro il TSV Regen, l’allenatore catalano decide di schierare Philipp Lahm nella posizione di pivote: i prolungati problemi fisici di Toni Kroos e Javi Martinez e l’inesperienza del giovane Hojberg l’hanno convinto a provare il capitano della Germania nel ruolo fondamentale del suo sistema di gioco. L’idea è semplice e solo apparentemente rischiosa: in mancanza di giocatori adatti al compito, tanto vale adattare uno che, fin dal primo giorno in cui Guardiola ha messo piede in Baviera, ha dimostrato di avere «la stessa intelligenza calcistica di Iniesta» per quel che riguarda la capacità di read and react su ogni singola situazione di gioco. Novanta minuti dopo, Pep è definitivamente convinto: Lahm può giocare da pivote. E farlo a un livello mai visto prima.
In fondo, però, non avrebbe dovuto essere questa gran sorpresa: per tutta la durata della sua carriera, infatti, questo figlio di Monaco è stato la prova vivente di come, nel suo caso, il termine “tuttocampista” non sia abusato e di come si possano mantenere standard di rendimento eccellenti indipendentemente dalla posizione occupata sul terreno di gioco. Si potrebbe, addirittura, sostenere che il suo percorso di evoluzione tattica abbia avuto il suo ideale compimento proprio nel triennio guardiolano, al termine del quale, di fronte alla prospettiva di non poter ulteriormente migliorare come giocatore totale, abbia deciso di ritirarsi.
Del resto, quello di Lahm è un viaggio che parte da lontano fin da quando, entrato undicenne nelle giovanili del Bayern, viene praticamente utilizzato in tutti i ruoli di movimento prima che le caratteristiche fisiche (ad oggi non è mai andato oltre i 65 chili distribuiti sul suo metro e 70) ne impongano l’utilizzo come terzino a tutta fascia. Che, poi, è il biglietto da visita con cui si presenta allo Stoccarda (in prestito biennale) poco più che maggiorenne, per il primo turning point della carriera: l’intuizione di Magath (allenatore che poi ritroverà al Bayern nel biennio 2005-2007), al netto di qualche problema fisico di troppo che ne limita parzialmente l’utilizzo (saranno comunque 71 le presenze in due stagioni), è quello di schierarlo a sinistra, lui che è un destro naturale, per sfruttarne l’incrocio in diagonale sul piede opposto rispetto a quello dell’avversario diretto e la capacità di dettare il passaggio al centrocampista in possesso palla, muovendosi tra le linee dopo lo scambio. Un fondamentale che gli tornerà utile parecchie volte negli anni successivi, in particolare in Nazionale: nel 2006, quando realizza il primo gol dei Mondiali con uno splendido destro a giro poco dentro l’area di rigore e, soprattutto, nel 2008, quando è la sua rete allo scadere contro la Turchia a mandare la Germania in finale degli Europei.
Quello che torna al Bayern Monaco nel luglio del 2005, quindi, è un giocatore di 22 anni, ambidestro, tecnicamente molto valido, tatticamente già pronto per i grandi palcoscenici e che non teme la concorrenza di elementi come Lizarazu, Sagnol e Jansen: tutti progressivamente scalzati dalla titolarità dal primo, vero, terzino moderno della sua epoca. Con Lahm, infatti, si inizia a intravedere quella che sarà l’evoluzione del ruolo del laterale basso: un elemento dalla vocazione offensiva sempre più spiccata, chiamato ad agire su entrambi i lati del campo con la stessa efficacia, leggendo in anticipo le situazioni per poter offrire copertura preventiva ai compagni in situazioni di palla scoperta e scegliendo con attenzione i momenti in cui proporsi per la sovrapposizione e provocare la superiorità numerica sulla fascia di riferimento. Niente più posizioni fisse e statiche, ma un’interpretazione del tutto nuova dell’essere terzino, in cui si fondano fase offensiva e difensiva in un connubio impensabile solo dieci anni prima e che aveva nei brasiliani Cafù e Roberto Carlos le eccezioni.
Da questo punto di vista, Lahm è uno dei primi della “nuova razza” o, se preferite, l’evoluzione della specie. La sua crescita è continua ed esponenziale e non si arresta nemmeno di fronte ad un allenatore di tipo “liberista” come Jürgen Klinsmann, accusato, in un’autobiografia del 2011, di curare esclusivamente la parte atletica dell’allenamento, lasciando ai giocatori il compito di organizzarsi da soli una volta messo piede sul terreno di gioco. Eppure, anche in un contesto di simile anarchia tattica, Lahm affina le sue doti di calciatore intuitivo a tutto campo, affrancandosi sempre più dalla vocazione statica del suo ruolo e parametrando ogni singola giocata al momento della partita in cui quella giocata viene effettuata: né scolastico, né superfluo, semplicemente essenziale ed utile in ogni cosa che fa, a prescindere dalla posizione che occupa. E se la sue doti offensive crescono di pari passo con la sua capacità di essere sempre due passaggi avanti agli altri 21 tra compagni e avversari, è difensivamente che il numero 21 dà il meglio di sé: tempista nell’anticipo, mai scomposto nelle entrate in scivolata, sapiente nelle diagonali in chiusura in situazioni di transizione in parità/inferiorità numerica, perfetto nella comprensione di limiti e possibilità (proprie e altrui) rispetto al giocatore che agisce dal suo lato.
Con uno come Louis Van Gaal (cui, anni dopo, riconoscerà il merito di essere «il padre putativo della nuova filosofia di gioco del Bayern») non può che essere amore a prima vista. Riportato stabilmente a destra, nel 2009/2010 Lahm disputa la sua stagione più continua: salta solo una partita (il primo turno di Coppa di Germania), manda a referto ben 12 assist e getta le basi di quell’asse con Robben che costituirà l’architrave principale del trittico Bundesliga-Champions League-DFB Pokal targato Heynckes nel 2012/2013.
Così, quando Pep Guardiola varca per la prima volta i cancelli del centro sportivo di Säbener Straße, si trova davanti un giocatore già pronto per l’idea di calcio che ha in mente, che non necessita di un lungo apprendistato per entrare nei meccanismi del nuovo sistema di gioco, che condivide con lui la modernità dell’interpretazione dei ruoli e che, soprattutto, è alla stessa pagina del libro del suo allenatore: Lahm non ha bisogno che gli si spieghi cosa fare, Lahm sa già cosa fare e quando farlo, al massimo livello e alla più alta velocità (di piede e di pensiero) possibile. Da laterale è in grado di implementare senza problemi il canone guardiolano degli esterni bassi che si portano verso l’interno del campo, sfruttando il movimento delle ali ad allargare il fronte del gioco: e se già un terzino normale in questo sistema è in grado di passare da giocatore unidirezionale (in verticale lungo la fascia di competenza) ad elemento multidimensionale in grado di creare la superiorità numerica in mezzo al campo (con l’esterno alto avversario che non riesce a seguire il taglio in diagonale), figuriamoci uno come Lahm che fa della combinazione tra orizzontalità e verticalità della corsa uno dei suoi punti di forza. Da centrocampista atipico, poi, la sua superiore capacità di lettura delle situazioni e la sua versatilità lo rende il candidato ideale al ruolo di pivote in situazioni particolari, non necessariamente d’emergenza.
La dimostrazione pratica di quel che Guardiola e Torrent avevano intuito dopo quell’amichevole contro il TSV Regen arriva in occasione della finale di Supercoppa Europea contro il Chelsea di Mourinho, in quella che il giornalista Ryan Cowper definirà come «la prova del potere e della variabilità tattica del nuovo Bayern Monaco»: partito con il canonico 4-1-4-1 con Toni Kroos davanti alla difesa e messo costantemente in difficoltà dalla contemporanea presenza in zona di Lampard e Ramires, Guardiola trova la soluzione a tutti i suoi problemi spostando Lahm nel ruolo di pivote e avanzando lo stesso Kroos di 15 metri in diagonale. Di colpo, il 4-2-3-1 di Mourinho perde progressivamente fluidità e il Bayern riprende il controllo del possesso palla anche dopo l’ingresso di Javi Martinez, con Lahm riportato nella sua posizione originaria di terzino. La vittoria finale dei bavaresi arriverà soltanto ai rigori, ma la sensazione è quella di una squadra (e di un allenatore) che ha trovato il suo giocatore guida.
Il 2013/2014 di Lahm è un manifesto del guardiolismo pure e semplice incarnato da un singolo giocatore: 92% di pass accuracy in relazione ad una media di almeno 85 tocchi a partita, tre azioni difensive di media (senza nessun errore), 34 occasioni create (4 assist e 30 passaggi chiave), il 50% di duelli vinti grazie alla sua capacità di farsi trovare sulle altrui linee di passaggio. È lui la chiave ed il fulcro del gioco del Bayern, anche dopo l’arrivo di Xabi Alonso che lo riporta stabilmente in fascia: gestisce ugualmente i flussi e i tempi di gioco e trova il più delle volte il corridoio risolutivo per la giocata decisiva, nonostante nel 2014/2015 tocchi molti meno palloni rispetto alla stagione precedente (poco più di 70 ogni 90 minuti, con una pass accuracy dell’89%), nel perfetto connubio tra il gioco di posizione alla catalana e la fisicità, verticalità ed efficacia tedesca.
Numeri impressionanti ma che sembrano impallidire rispetto a quelli del “Mondiale perfetto” del 2014. Löw si ritrova tra le mani un giocatore completo, al massimo del suo sviluppo psicofisico, pienamente calato in una multidimensionalità unica nel suo genere, perfettamente in grado di rispondere alle nuove esigenze di un calcio tedesco (meno fisicità e maggior controllo del gioco attraverso il possesso palla) che anche lui aveva contribuito a cambiare. Il risultato sono sette partite di una continuità e di un’eccellenza imbarazzante: 73% di duelli vinti, 60% dei tackles andati a bersaglio, 91% di precisione nel tocco, due assist, sei key passes, 100% di successo nell’uno contro uno in fase offensiva e nei duelli aerei. La sua prova contro il Brazile, nel 7-1 del Mineirao di Belo Horizonte, è la migliore rappresentazione possibile del dominio esercitato dalla Mannschaft: Marcelo, uno dei migliori esterni sinistri di ruolo, contro di lui non tocca praticamente palla.
Si può dire, quindi, che Lahm sia stato il migliore terzino destro della sua generazione? Un’analisi in tal senso rischia di essere notevolmente sottostimante dell’impatto effettivo sul gioco e del lascito alle future generazioni di un giocatore del genere. Uno che ha saputo coniugare come nessuno l’antico e il moderno di un ruolo che magari avrà avuto interpreti più forti di lui nel singolo fondamentale, ma non ugualmente completi, intuitivi e intelligenti sui due lati del campo. Viene a crearsi una sorta di paradosso per il quale Lahm è offensivamente meno forte di Dani Alves o Marcelo e difensivamente meno adatto di Zanetti o del primo Maldini: ma è l’unico, tra tutti, a saper essere ugualmente forte in entrambe le fasi. La sua unicità, il suo aver saputo cambiare la concezione del right back si è sostanziata nell’essere stato un perfetto figlio dei suoi tempi, adatto come nessuno a un calcio in cui i ruoli fissi appartengono ad una concezione superata del gioco e in cui tutti devono essere in grado di fare tutto al meglio, pensando velocemente e agendo altrettanto. Ma, forse, per chi ha avuto «la stessa intelligenza calcistica di Iniesta» è stato tutto molto più facile. Anche prendere la decisione di ritirarsi una volta capito che meglio di così proprio non si poteva fare.