Qual è il gesto tecnico più rappresentativo e caratterizzante la carriera di un cestista? Un appassionato di basket potrebbe rispondere con il passaggio no look di Magic Johnson, la schiacciata tomahawk di LeBron James o una delle tante movenze antigravitazionali di Michael Jordan. Potrebbe, certo, ma è molto più probabile che un appassionato con la memoria sufficientemente lunga da andare indietro almeno fino agli anni Ottanta risponda il gancio cielo di Kareem Abdul-Jabbar. Inventato da George Mikan e da Cliff Hagan, ma perfezionato e reso immortale da Jabbar, è un gancio giocato da un’altezza considerevole, anche a distanza dal canestro, con una parabola imprendibile. Replicabile all’infinito, il gancio cielo è un tale colpo da ko, immarcabile e instoppabile – soprattutto perché giocato da un pivot con un’incredibile apertura alare – che ha regalato a Jabbar un primato che dura da quasi trent’anni, quello di miglior marcatore della storia della Nba. Con 38.387 punti è lontano da tutti gli altri, in una top five da sogno che vede al secondo posto Karl Malone con 36.928 punti e di seguito, più distanziati, Kobe Bryant, Michael Jordan e Wilt Chamberlain.
Cos’è il gancio cielo
Il gancio cielo, più della straordinaria altezza (218 cm), delle eccezionali doti di rimbalzista e stoppatore, dei campioni con cui ha diviso lo spogliatoio (Magic Johnson, Oscar Robertson), è il motivo principale che ha prodotto gli incredibili numeri di Jabbar: tre titoli consecutivi del campionato Ncaa con UCLA (1967, 1968, 1969), ragione per cui è considerato il miglior giocatore universitario di tutti i tempi; sei titoli Nba (uno con i Milwaukee Bucks, cinque con i Los Angeles Lakers); sei volte Mvp della regular season (1971, 1972, 1974, 1976, 1977, 1980), record assoluto; due volte Mv delle Finals (1971, 1985), l’ultima a 38 anni, altro record. Una sorta di abito di scena, come la fascetta tergisudore di Bjorn Borg o i calzini scesi di Omar Sivori: Jabbar entrava sul parquet, si piazzava in post basso, riceveva il pallone e giocava un gancio cielo. Due punti. La felicità di qualsiasi coach.
E pensare che «la singola arma più devastante della storia del basket», come l’ha definito Pat Riley, ha dovuto attraversare una curiosa sliding door. Il gancio cielo di Jabbar non sarebbe probabilmente esistito, cioè, se l’Ncaa, con una decisione a dir poco folle, nel 1967 non avesse proibito di concludere a canestro con una schiacciata, con il preciso intento di limitare lo strapotere di Jabbar, che rischiava di minare l’interesse per un campionato dall’esito già scritto in partenza. Solo un talento come quello del cestista di Harlem poteva uscire rafforzato da una simile decisione. Jabbar perfezionò conclusioni sempre più lontane dal canestro fino a creare quell’arma che lo consegnò già da giovanissimo alla mitologia sportiva.
Il 16 aprile Jabbar ha compiuto 70 anni. Se sembrano tanti è perché il suo ritiro non appare così remoto nel tempo. Il campione americano ha giocato infatti fino all’età di quarantadue anni. L’uscita di scena è arrivata dopo le Finals del 1989, al termine di un indimenticabile ventennio di carriera professionistica. Dopo essere stato prima scelta assoluta nel Draft Nba del 1969 (e dopo aver ricevuto e rifiutato un’offerta di un milione di dollari per girare il mondo con gli Harlem Globetrotters), ha giocato con due sole squadre, facendo la storia di entrambe. Il primo titolo Nba, vinto con i Milwaukee Bucks nel 1971, oltre ad essere ad oggi l’unico titolo nella bacheca dei biancoverdi, porta con sé un altro record. La franchigia del Winsconsin era stata fondata nel 1968 e la vittoria del 1971, ottenuta dopo soli tre campionati disputati, rimane il trionfo più precoce della storia. Nel 1975 Jabbar passò ai Los Angeles Lakers, desiderosi di iniziare una nuova era di vittorie dopo il ritiro di Wilt Chamberlain e Jerry West. Nonostante Jabbar, però, i gialloviola dovettero attendere gli anni Ottanta e l’arrivo di un certo Magic Johnson per trasformarsi nella squadra dello showtime. Dal campionato 1979/80, per tutto il decennio, i Lakers giocarono la pallacanestro più hollywoodiana di sempre, non per le stelle del cinema che sgomitavano nelle prime file del Forum di Inglewood, ma per lo spettacolo che veniva messo in scena sul parquet. Magic Johnson era il maestro di cerimonie, regista impareggiabile per carisma e stile, Kareem Abdul-Jabbar l’indomito rimbalzista e finalizzatore. Al loro fianco un’altra star, James Worthy, che se oggi non viene ricordata come merita è soltanto per via dell’ingombrante ombra degli altri due mostri.
I Lakers vinsero due titoli (1980, 1982) sconfiggendo in finale i Philadelphia 76ers di Julius Erving e altri due (1985, 1987) battendo i Boston Celtics di Larry Bird: la rivalità tra Los Angeles e Boston segnò in modo indelebile l’immaginario collettivo e di conseguenza la storia della pallacanestro. Sul finire del decennio, però, con la parabola dei Celtics che aveva intrapreso la sua fase discendente e quella dei Chicago Bulls di Michael Jordan che era ancora lontana dal suo apice, i Lakers trovarono altri avversari con cui confrontarsi per il titolo per due anni consecutivi: i Detroit Pistons, una squadra di ragazzacci che aveva nell’agonismo e nell’aggressività le proprie armi più affilate. Nel 1988 Jabbar e Johnson ebbero la meglio sui bad boys Bill Laimbeer, Dennis Rodman e Isiah Thomas, aggiudicandosi il titolo dopo una memorabile gara 7, con Kareem ormai quarantunenne che continuava a distillare lampi di classe. L’anno successivo i Pistons si presero la rivincita e si aggiudicarono le Finals per 4-0. Gara 4, giocata il 13 giugno 1989, fu l’ultima partita di Kareem Abdul-Jabbar. Al momento della sua sostituzione, a pochi secondi dalla sirena, compagni, avversari, spettatori e idealmente l’intero mondo dello sport gli tributarono una di quelle standing ovation che mettono ancora i brividi, dopo quasi trent’anni.
L’uscita di scena
Certo, la carriera di Jabbar non fu tutta in discesa come potrebbe sembrare. Negli anni Settanta, anzi, il campione attraversò un periodo molto buio, soprattutto a causa della vicinanza al leader religioso Hamaas Abdul-Khaalis, che fu protagonista di una sanguinosa faida all’interno della Nation Of Islam. Nel 1973, l’abitazione di Hamaas a Washignton DC (di proprietà del cestista) fu teatro di un bagno di sangue in cui morirono sei bambini. In seguito ai dissidi con Hamaas, Jabbar divorziò dalla moglie Habiba e si riavvicinò ai suoi genitori, la prima sposata e i secondi allontanati dalla sua vita, pare, su indicazione dello stesso leader islamico. Perché ricordare Jabbar vuol dire anche raccontare di un uomo nato Lewis Alcindor, da una famiglia cattolica di New York, e poi, dopo la fascinazione per la carismatica figura di Malcolm X e la conversione all’Islam, divenuto Kareem Abdul-Jabbar nel 1971, il giorno successivo alla conquista dell’anello con i Bucks.
Attraverso il suo corpo, le sue gesta sportive e, non ultimo, il suo nome, Jabbar ha voluto essere una testimonianza vivente di come il razzismo negli Usa non fosse affatto un mito ma una triste realtà. La sua conversione è stata un pugno nello stomaco di chi voleva fare di lui l’incarnazione del sogno americano, un ragazzo di colore che riusciva a realizzarsi nella sedicente patria della libertà: «Io sapevo che erano i miei 218 cm di altezza e il mio fisico atletico che mi avevano portato lì dov’ero», ha spiegato Kareem nel 2015 in un pezzo pubblicato sul sito americano di Al Jazeera, «non certo le pari opportunità». Con il nuovo nome ottenne in un colpo solo altri due risultati. Tolse di mezzo quel cognome, Alcindor, che apparteneva alla sua famiglia soltanto per via dei coltivatori francesi che avevano schiavizzato i suoi antenati, e la religione cattolica, alla quale imputava il colpevole ritardo con cui si era battuta contro la barbarie della schiavitù. Una scelta controversa che non fu accettata dai suoi genitori e che spiazzò molti fan, che, ha ricordato Kareem, «la presero sul personale, come se con la mia conversione avessi bombardato la loro chiesa o avessi strappato la bandiera americana».
D’altra parte Jabbar era lo stesso campione che nel 1968, per protestare contro le disparità razziali presenti negli Stati Uniti, rifiutò di partecipare alle Olimpiadi di Città del Messico, rinunciando di fatto all’unico titolo che manca nella sua bacheca, la medaglia d’oro con i cinque cerchi: un gesto poco ricordato ma che, a ben vedere, è parente molto stretto del pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri delle stesse Olimpiadi messicane.