Il modello Tottenham

Da Dier ad Alli, passando per Kane: come e perché gli Spurs sono diventati cuore e anima dell'Inghilterra.

Se volessimo ripassare i luoghi comuni che infestano l’universo calcistico, un buon punto di partenza potrebbe essere quello delle Nazionali. Le leggi generali in gioco quando si parla dei Paesi storicamente più noti, infatti, subiscono mutamenti ai limiti dell’impercettibile: l’Italia vince se e quando mette in campo il binomio cuore-catenaccio, nel Brasile giocano quelli che pensano con la testa di chi deve vendere uno spettacolo prima ancora che al risultato, la Germania è quella che sta antipatica un po’ a tutti per via dei corsi e ricorsi storici, e così via. Poi c’è l’Inghilterra, che è etichettata da tempo immemore come quella che non vince mai, pur avendo a disposizione la materia prima per farlo. Come accaduto, tanto per portare un esempio, in occasione dello scorso Europeo. Quella che un tempo era l’Inghilterra di Liverpool, Arsenal e United, e che oggi è nettamente l’Inghilterra del Tottenham. Ovvero, attinge dal Tottenham più che dalle squadre che in passato sono state fonti storiche per i ct britannici.

Nazionalismo Spurs

C’è un aspetto su tutti, prendendo in analisi le realtà di Tottenham e Juventus, che le rende straordinariamente simili. È un aspetto che va oltre l’indice qualitativo della rosa, così come non si limita alla effettiva bontà del progetto dei club in termini di risultati, in linea con le rispettive ambizioni. Si riferisce piuttosto alla tendenza comune nel presentare all’interno del proprio undici-tipo un numero consistente di giocatori che fanno parte della Nazionale del rispettivo paese, e che al contempo sono determinanti nelle dinamiche della propria squadra. Buffon, Bonucci e Chiellini da una parte, Dier, Alli e Kane dall’altra, solo per menzionare quelli più in auge. Per quanto i due modelli siano simili da questo punto di vista, è bene tuttavia porre il primo paletto, ovvero: se il fatto che la spina dorsale dei bianconeri sia italiana stupisce fino ad un certo punto, tutto il contrario si potrebbe dire per il caso degli Spurs, che soltanto recentemente hanno potuto cogliere i frutti della linea nazionalista (dove l’aggettivo nazionalista ha valenza esclusivamente positiva) impostata negli ultimi anni. L’interrogativo è spontaneo: per quale motivo oggi le prime file del team di Pochettino sono tanto piene di giocatori inglesi?

Tottenham Hotspur v Watford - Premier League

Mater artium necessitas, dicevano gli antichi romani: la necessità è la madre delle abilità. O, per attualizzare e contestualizzare, la necessità aguzza l’ingegno. È un concetto, quello espresso dal proverbio latino, che nella realtà del Tottenham trova una eccezionale dimostrazione pratica, e che risponde chiaramente alla domanda che ci siamo posti. La necessità del caso specifico consiste nel trovare un’alternativa per mantenere soddisfacente il proprio grado di competitività, ed è conseguenza della forbice incolmabile (almeno nel breve) tra i primi cinque club di Premier e i restanti quindici in termini di fatturato. A tal proposito, le cifre pubblicate da Swiss Ramble poche settimane fa sono piuttosto eloquenti: il Tottenham sesto, con i suoi 210 milioni, rappresenta in solitaria l’emblema della classe media della Premier League, ed è lontano anni luce dai numeri dei primi cinque club. Dunque acquisisce una posizione centrale l’ingegno, che si traduce nella capacità di trovare la soluzione laddove nessuno ha pensato di cercarla. Soluzione che, nella sua attuazione comunque non sfrenata, ha dato una parziale svolta alla politica gestionale del club e fatto al contempo gli interessi della Nazionale inglese.

Proprio dalla stretta relazione tra necessità ed ingegno (con un pizzico di caso che non guasta mai) ha infatti preso forma la linea made in England che costituisce ad oggi il gioiello più prezioso per Mauricio Pochettino, e che fa ragionevolmente sorridere Gary Southgate tanto quanto aveva fatto sorridere Roy Hodgson alla vigilia di Francia 2016. Già durante l’Europeo della scorsa estate la percentuale degli Spurs tra i 23 convocati era la più alta fra tutte (furono selezionati Walker, Rose, Dier, Alli e Kane), e in ben tre delle quattro gare giocate dall’Inghilterra nel corso della manifestazione Hodgson li schierò tutti e cinque. Oggi il peso del blocco Spurs all’interno della Nazionale è ancora maggiore, e riflette l’influenza che esercita quotidianamente nello spogliatoio di White Hart Lane. Ad affiancare inoltre i cinque sopracitati, all’incirca dall’inizio di questa stagione, è un gruppetto contenuto di youngster che stanno muovendo con acume i primi passi tra i grandi: Harry Winks (classe ’96) e Joshua Onomah (’97) sono i due che hanno convinto maggiormente Pochettino in una stagione in cui – per la sesta volta negli ultimi sei anni – la molteplicità dei fronti su cui competere ha garantito anche ai più giovani una cospicua dose di spazio. A rendere merito al Tottenham e alla sua linea, infine, è anche la classifica dei premi al miglior youngster dell’anno (PFA Young Player of the Year): delle ultime cinque edizioni ben quattro sono state vinte da un giocatore degli Spurs (Walker nel 2011/12, Bale nel 2012/13, Kane nel 2014/15 e Alli la scorsa stagione).

Tottenham Hotspur v Watford - Premier League

La ricetta di Mauricio

La stagione chiave è la 2013/14: alla guida del Tottenham reduce dal record di punti (72) dell’annata precedente c’è André Villas Boas, e una buona metà dell’attuale ossatura british degli Spurs fa già parte della rosa. Ci sono Kane e Rose – alla prima stagione vera e propria dopo i rispettivi anni di gavetta – insieme a Kyle Walker, che a ventitré anni aveva già ampiamente superato i cento gettoni in Premier. Arrivarono nel corso di quell’estate anche Eriksen e Lamela, altri due punti fermi dello scacchiere odierno di Pochettino, mentre il vento del giugno successivo portò in dote Alli e Dier; il primo prelevato dall’MK Dons per poco più di sei milioni di sterline, il secondo pescato dallo Sporting Lisbona per circa cinque. Dopodiché, spinto dall’ambizione del manager che lui stesso aveva scelto e convinto dai risultati in crescendo della squadra, Sir Daniel Levy è tornato ad investire su nomi tanto altisonanti quanto (solitamente) poco soddisfacenti nel loro rendimento. L’esempio più banale è quello di Moussa Sissoko, acquistato per trenta milioni di euro (!) dal Newcastle dopo qualche match incoraggiante disputato ad Euro 2016. È così che la focalizzazione interna degli scout è stata soffocata in favore di spese medio-grandi, non sempre supportate da cessioni che lo fossero altrettanto: eccezion fatta per i casi di Son, Alderweireld e Wanyama, infatti, i recenti investimenti del Tottenham hanno lasciato alquanto a desiderare, e il lato positivo delle ultime due sessioni estive di mercato è stato rappresentato perlopiù dagli sfoltimenti.

Nella crisi di mediocrità hanno quindi continuato a imporsi gli inglesi già presenti in rosa, aumentando i giri del proprio motore e inserendosi con violenza ancora maggiore ai vertici delle gerarchie di Pochettino. Accanto a loro hanno ragionevolmente trovato spazio i più meritevoli: l’intoccabile Lloris tra i pali; la coppia belga Alderweireld-Vertonghen in sua protezione; il trio costituito da Dembelé, Eriksen e Lamela sulla trequarti, con in aggiunta i più recenti innesti di Son e Wanyama. È in questo aspetto, forse addirittura di più che nella sua proposta di calcio, che risalta maggiormente la mano di Pochettino: decisa, pungente al punto giusto, forgiante. Dei 27 membri della rosa con cui Sherwood concluse la stagione 2013/14 l’argentino ha finito per tenere solo gli otto migliori, contribuendo (involontariamente, è tanto lecito quanto probabile) alla costituzione di quello che oggi è uno dei mix tra inglesi e non-inglesi più amalgamato dell’intera Premier. La prerogativa fondante non è mai mutata: costruire una squadra competitiva viene gerarchicamente prima di farlo attraverso una politica nazionalista; eppure le pianticelle più rigogliose dell’Inghilterra se le è trovate lì, sotto il naso, e ha pensato bene di coltivare sia loro che il terreno. Ed è grazie a questa doppia intuizione se oggi, dietro ai simboli del club – che già sono giovani – crescono anche gli Winks e gli Onomah.

West Ham United v Tottenham Hotspur - Premier League

Rapporti di forza e identità

Che in Inghilterra siano le cinque regine a dettare legge è cosa risaputa: i due Manchester, Chelsea, Arsenal e Liverpool hanno tracciato un solco che difficilmente potrà essere colmato nel giro dei prossimi cinque-sei anni, e chi vi sta dietro è costretto ad escogitare metodi per eluderlo stagione dopo stagione. Il fatto che il Tottenham possa vantare sulla propria panchina un tecnico che per la media è indubbiamente uno dei più realistici (a parole e con i fatti) è in questo senso un’arma a doppio taglio: da un lato c’è il rischio che la sua freddezza nel dire, ad esempio, che il Tottenham non può vincere trofei allo stato attuale, influenzi negativamente i giocatori; dall’altro che succeda quello che vediamo in campo ogni settimana. Ovvero che la consapevolezza di competere con avversari di grado superiore porti quegli stessi giocatori a stare sempre sul pezzo, e che li convinca strumentalmente di essere inferiori anche sul campo. Questo gioco psicologico vede alla propria base una sincera umiltà, ma non può comunque prescindere dall’arguzia che Pochettino sembra decisamente avere.

Un fattore determinante da questo punto di vista – per tornare alla questione – non può che essere quello dell’identità: il Tottenham di oggi è una squadra colma di giocatori che, se non sono inglesi, vivono comunque la Premier League da anni. Ne deriva che le due linee culturali (quella degli Spurs inglesi e quella degli Spurs inglesizzati) sono oggi più vicine che mai, e nessun’altra squadra può vantare una simile identità nazionale. Il Chelsea primo in classifica ha il solo Cahill, il City terzo non va oltre il duo Stones-Sterling, Arsenal e Manchester campano ancora sugli stessi 4/5 di altrettanti anni fa, se non oltre. Gli unici club (tra quelli unanimemente riconosciuti come top) che danno ancora spazio e centralità agli inglesi sono Liverpool ed Everton, ma con una differenza sostanziale rispetto al Tottenham: l’età media degli Spurs è di 22,7 anni, mentre tra Reds e Toffees si stanzia rispettivamente su 27 e 27,4. Segno di una tendenza nazionalista in discesa e pertanto lontana dal modello del club londinese, che viceversa la sta sperimentando proprio in questo periodo.

Tottenham Hotspur v West Bromwich Albion - Premier League

Il rendimento dello scouting

Per quanto l’ultimo biennio abbia decisamente sorriso al Tottenham e ai suoi supporters in termini di piazzamenti, le imperfezioni radicate nella struttura del club hanno ugualmente fatto storcere il naso a più di qualcuno. Delle recenti campagne acquisti ricche di interrogativi abbiamo già parlato precedentemente, mentre è rimasto in stand-by il problema dei settori giovanili: è da questo tema, apparentemente sorvolabile, che passano i difetti di un sistema non ancora pronto ad abbracciare in tutto e per tutto il nazionalismo british. Gli scout del Tottenham sono stati spesso oggetto di critica e non hanno mai trovato la chiave per rendere produttivo in maniera continua il loro rendimento, seguendo l’usanza inglese per cui pescare dall’estero è solitamente più conveniente che crescere in casa – o tra le leghe inferiori – i propri talenti. Dovremmo farci più di qualche domanda, a tal proposito, dopo aver considerato che i nazionali inglesi giocano solo e soltanto in Inghilterra.

La situazione degli Spurs, se vogliamo, è anche più particolare: da un lato la prima squadra, costruita sull’ossatura british, che è seconda in classifica e in ascesa rispetto alle due stagioni precedenti; dall’altro le formazioni giovanili, che nei rispettivi campionati occupano posizioni decisamente anonime. Per la precisione: gli U-23 sono ottavi su dodici nel primo dei due gironi nazionali, mentre gli U-18 stanziano attorno al settimo posto sin dall’inizio della stagione. È anche in quest’ottica che Pochettino ha fatto pressione sul club per il ritorno di Steve Hitchen alla guida dello scouting, dopo che a metà dello scorso agosto Paul Mitchell – uno degli uomini di fiducia che lo seguirono nell’estate 2014, quando si trasferì dal Southampton a White Hart Lane – aveva rassegnato le dimissioni. Nel caso in cui i risultati dovessero arrivare, il modello Tottenham sarebbe un vero e proprio unicum per la Premier League.