Il peso della storia

Riflessioni dopo la finale di Cardiff: cosa è mancato alla Juve, quale la chiave tattica vincente del Real, e poi sempre lui, Ronaldo.

Partiamo dalla fine. Esistono due categorie di sconfitte: quella in cui sono compresi i fallimenti, i rovesci crudeli, che impongono rivoluzioni; e quella delle sconfitte che non inficiano il valore di un percorso, di un progetto, di una squadra. È a questa, evidentemente, che appartiene la finale di Cardiff. La Juventus torna dal Galles con una delusione incalcolabile, perché non è un mistero che quella vista in campo, per metà della gara, non sia stata la squadra solida, concentrata, resiliente che abbiamo imparato a conoscere. La Juventus non è riuscita ad esprimersi come avrebbe non solo voluto e dovuto, ma come avrebbe potuto. Anche i bianconeri hanno avuto i loro incidenti di percorso, come le sconfitte di Genova e Firenze quest’anno in campionato: sconfitte che hanno, e non è eresia dirlo, migliorato la squadra, perché il materiale è vasto, ricco e malleabile, e le competenze di chi regola i destini juventini smisurate. Certo, è un peccato mortale che il terzo grande incidente di percorso dell’anno sia arrivato nella partita più importante della stagione, una sconfitta su cui permangono — e continueranno a permanere almeno per tutta l’estate — preoccupanti zone d’ombra. Ma neppure il dubbio più lancinante può inficiare il percorso compiuto dalla Juventus: un percorso lineare, di costante crescita, coerente. Dicevamo, qualche settimana fa, di come i bianconeri abbiano raggiunto un livello di eccellenza assoluta in Europa, un livello che li accomuna a squadre come Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco. Raggiungere due finali negli ultimi tre anni è un traguardo straordinario: Berlino ha migliorato la Juve, Cardiff, perché non sia solamente motivo di rimpianti, dovrebbe servire allo stesso obiettivo.

FBL-EUR-C1-JUVENTUS-REAL MADRID

Il momento chiave

Se Berlino è stata una finale dove ha vinto la squadra più forte, il Barcellona, Cardiff è un punto interrogativo: un’ottima Juventus per i primi 45 minuti, una squadra sprofondata mentalmente nel secondo tempo. Sin dai primissimi minuti della ripresa, la Juventus si è abbassata pericolosamente, facendosi schiacciare dal Real e non riuscendo più a ripartire. Non era mai successo nel primo tempo, ed è difficile pensare a un piano per provare poi a controbattere nell’ultima parte di gara. Però è anche vero che in stagione è successo spesso che la Juventus si sia presa delle pause all’interno delle partite: non solo in campionato, dove la superiorità dei bianconeri rendesse sufficienti alcune folate rabbiose per sbloccare la gara e poi controllarla, ma anche in Champions, dove non sono mancati momenti di pura apnea. A questo si aggiunga quanto detto da Allegri nel post partita, ovvero che le energie fisiche e nervose spese nel primo tempo siano state maggiori rispetto a quanto messo in preventivo.

Evidentemente, nella testa dei giocatori è subentrata la convinzione di risparmiarsi almeno a inizio secondo tempo, per non dover arrivare in difficoltà a fine gara ed eventualmente ai supplementari. Un istinto di sopravvivenza che non ha fatto i conti con la beffarda traiettoria del tiro di Casemiro. Quando Buffon, distrutto, se la prende con gli episodi, non può che riferirsi a questo: perché, anche se la Juve per un quarto d’ora non era riuscita a mettere il naso fuori dalla sua metà campo, non aveva mai corso reali pericoli. La vera resa della Juventus è arrivata dopo il gol del 2-1: la squadra è crollata completamente, incapace di organizzare una reazione adeguata. Ancora più inspiegabile se si pensa che il primo gol di Ronaldo aveva rinvigorito i bianconeri, anziché affossarli.

Juventus v Real Madrid - UEFA Champions League Final

Dove è cambiata la partita

L’infortunio di Bale ha, in qualche modo, reso più difficile il compito per la Juventus. Tanto i bianconeri quanto il Real sono due squadre che fanno della ricerca dell’ampiezza un tratto distintivo. È qualcosa immediatamente riconoscibile se si pensa che quattro dei cinque gol della partita sono arrivati con contributo dalle fasce: la sovrapposizione di Carvajal che libera lo spazio per Ronaldo; il cambio di gioco di Bonucci con immediato cross di Alex Sandro, da cui scaturisce la rete di Mandzukic; l’asse sulla fascia destra Carvajal-Modric che confeziona l’assist per Ronaldo; la discesa di Marcelo per il 4-1 di Asensio. Alex Sandro, autore di una buona prestazione offensiva nel primo tempo, è stato negativo nella fase difensiva; quando, nel secondo tempo, Marcelo ha definitivamente preso il sopravvento sull’amico Dani Alves, il Real Madrid ha rotto gli argini.

Ma è stato a centrocampo che il Real Madrid ha vinto la partita, dove è stato sempre in superiorità numerica: Pjanic e Khedira regolarmente presi in mezzo, inefficaci i timidi aiuti di Dybala, Mandzukic e Alves sempre troppo preoccupati degli avversari diretti sulle fasce per poter ricucire centralmente. Il palleggio dei blancos è stato a tratti celestiale, favorito dall’incapacità dei giocatori juventini di interromperlo: così, mentre questi correvano a vuoto, il Real faceva girare palla a piacimento, aprendo improvvisamente sull’esterno quando si veniva a creare una situazione di uno contro uno. Ecco perché l’assenza di Bale, che alla vigilia della partita ha di fatto “liberato” Zidane dall’obbligo di metterlo in campo, è stata un vantaggio per gli spagnoli: la sistematica ricerca della profondità sulle fasce avrebbe avuto l’effetto di farli sbattere contro il muro bianconero, mentre un sistema offensivo più fluido, con la presenza di un meraviglioso Isco libero di muoversi tra le linee, ha consentito al Real di trovare sempre un uomo ben piazzato nella manovra.

Un esempio: la circolazione palla del Real Madrid è agevole e i giocatori della Juventus non riescono a interromperla. Benzema apre sull’esterno quando Carvajal ha campo libero per andare all’uno contro uno e mettere una palla pericolosa nel mezzo. Sul proseguimento dell’azione, ancora una volta l’eccessiva facilità, in pochi tocchi, di eludere il pressing bianconero e arrivare in area di rigore

Il vincitore

I numeri: 19 gol tra campionato e Champions fino a marzo, 16 gol dal 12 aprile a Cardiff. Cioè in meno di due mesi, cioè nelle partite che contano di più: Cristiano Ronaldo ha riscritto il manuale dell’essere decisivo. Ha chiuso l’annata con 42 reti tra tutte le competizioni: un’enormità, eppure è il suo numero più basso di gol dalla stagione 2009/10, la prima a Madrid. Ha fatto prevalere l’importanza delle reti alla quantità: in Champions ha segnato 10 dei 16 gol del Real tra quarti e finale, mentre nella Liga ne ha realizzati cinque nelle ultime tre giornate.

 

È una questione di testa, ancor prima che di (infinito) talento: Ronaldo ha accettato il fatto di essere entrato in una fase diversa della sua carriera. Dover dosare le energie, a 32 anni, è obbligatorio, e il fatto di essere arrivato in precarie condizioni fisiche alla finale di Milano, lo scorso anno, è stato determinante nel plasmare la nuova forma mentis del portoghese. Meno partite giocate (non convocato in quattro delle ultime dieci gare di Liga), avvicinamento all’area di rigore per centellinare le forze nell’arco del match (poco male, ha straordinarie capacità da numero nove come sottolineato anche a Cardiff), persino una diversa visione del suo ruolo, non più come totalizzatore feroce ma come ingranaggio, anche se il più prezioso, di un meccanismo. Paradossalmente, quando Ronaldo ha capito le contraddizioni del volersi mettere sulle spalle il peso di un’intera squadra, è diventato più decisivo: l’onnipotenza di CR7, al giorno d’oggi, non ha eguali.