Quando, ad inizio stagione, Francesco Arrighi scriveva che i Golden State Warriors sarebbero stati «una squadra in missione, con tanta pressione addosso e tanti haters pronti a ribellarsi se qualcosa dovesse andare storto», ribadiva la curiosità di vedere la nuova squadra di Kevin Durant all’opera contro «formazioni fisiche e forti a rimbalzo, consapevoli di avere di fronte una squadra che farà epoca». A distanza di otto mesi e al termine della serie finale che tutti volevano e tutti si aspettavano, quella contro i Cavaliers di LeBron James, gli Warriors hanno legittimato quella supremazia allora soltanto immaginata, gestendosi durante la regular season ed esprimendosi al massimo del proprio devastante potenziale solo da metà aprile in poi. Con le Finals 2017 che sono state il perfetto specchio del rapporto di forza attualmente esistente tra i californiani e il resto della Nba, esplicitato in cinque punti chiave: cinque, come le partite che sono state necessarie per consegnare agli Warriors il secondo titolo in tre anni.
Il concetto di “superteam” e gli equilibri della lega
Probabilmente è ancora presto per dire in che misura la stagione 2016/2017 abbia effettivamente minato gli equilibri interni della Nba. Di certo non si può non parlare di un’inversione di tendenza in relazione al recente passato, soprattutto per quanto riguarda i playoff: a un certo punto tutto sembrava ridotto ad una lunghissima marcia di avvicinamento alle Finali più scontate di sempre, tra una squadra che poteva contare su uno dei giocatori più forti di sempre (il quale non perde una gara al primo turno a Est da tempo immemore) e un’altra che, nel momento decisivo, si è dimostrata sostanzialmente ingiocabile per chiunque (come dimostra il 12-0 d’entrata alle Finals, meglio dell’11-0 dei Lakers del 2001 quando, però, il primo turno di disputava al meglio delle cinque partite). E se da un lato si deve necessariamente concordare con Kevin Durant quando dice che «tanti superteam hanno perso, noi no», dall’altro non si può fare a meno di constatare come il dislivello tra le prime due della classe e il resto della lega sia molto più marcato rispetto al recente passato, penalizzando la vendibilità di un prodotto che costruisce le proprie fortune su serie tiratissime giocate punto a punto. Dettagli su cui il commissioner Adam Silver dovrà riflettere per salvaguardare una competitività che, a breve termine, non appare più così scontata.
La scelta giusta
Dopo aver messo il tiro che ha deciso gara 3 e indirizzato la serie, Kevin Durant ha dichiarato: «Ho lavorato tutta la vita per momenti come questo. Quando quel pallone è entrato mi sono sentito liberato da un peso». Quello derivante dalla decisione di sfruttare la free agency e unirsi ai Golden State Warriors per vincere quel titolo che ad Oklahoma City difficilmente sarebbe arrivato: una scelta professionalmente ineccepibile ma che gli ha procurato critiche feroci, da parte di tifosi e addetti ai lavori, sul suo essere soft e sull’aver scelto la via più facile verso la gloria e la legittimazione del suo status di campione assoluto. Eppure, a questi livelli, vincere non è mai scontato, così come non lo era il fatto che KD35 riuscisse a ritagliarsi il suo spazio nella squadra degli Splash Brothers, senza minarne gli equilibri in campo e fuori: è andata anche meglio rispetto alle attese, con una serie dominata senza forzare e senza sforzarsi nonostante numeri mostruosi (35.2 punti di media, 55% dal campo, 47.4% da tre, 92% ai liberi, decisivo anche nella metà campo difensiva nei minuti in cui ha giocato da centro) e legittimata dal meritato titolo di Mvp delle Finali. Per dirla alla Steve Kerr, «tutti sapevano quanto fosse forte dopo averlo visto giocare per oltre dieci anni, ma in Nba finché non vinci un titolo c’è sempre qualcuno che potrebbe avere qualcosa da ridire. Lui non solo ha vinto ma è anche stato decisivo nel momento più importante». A un anno di distanza, le discussioni su una scelta rivelatasi giusta possono finalmente avere termine.
Il canestro decisivo di Durant in gara 3
Leggendario nella sconfitta
Qualcuno lo definirebbe «il più forte perdente di tutti i tempi». E, in effetti, le cinque finali perse (su otto partecipazioni, di cui sette consecutive) sembrerebbero giustificare l’assunto: nessun Mvp, infatti, è mai stato sconfitto così tanto. Eppure di LeBron James non si può non riconoscere la grandezza anche nel momento in cui è stato costretto a chinare la testa al cospetto di un avversario che si è dimostrato più forte. Non è tanto la tripla doppia di media (unico giocatore della storia a riuscirci alle Finals) o una gara 5 in cui ha lasciato sul campo tutto quello che aveva (41 punti, 13 rimbalzi, 8 assist, 2 recuperi, 1 stoppata) quanto, piuttosto, il suo essere il giocatore più determinante e decisivo della Nba contemporanea. Lo dimostra il fatto che i Cavs abbiano subito i parziali che sono costati la sconfitta nelle prime tre partite nei pochi momenti di riposo in panchina concessi al Re: nei 212 minuti con lui in campo, invece, Cleveland è stata alla pari di una delle squadre più forti di sempre, con il picco prestazionale di gara 4 in cui James ha giocato ad un livello tale da riuscire a tirar fuori il meglio da compagni mai più entrati realmente in ritmo (il 52.9% dal campo e il 24/45 dall’arco sono numeri che i Cavs non sono riusciti nemmeno ad avvicinare nel resto della serie). La vittoria del titolo lo scorso anno ci ha consegnato un LeBron più forte, più maturo, più continuo, più consapevole dei propri spaventosi mezzi, più attento nella gestione delle forze, più leader in campo e fuori, al suo meglio in carriera. Il fatto che non sia bastato contro questi Warriors («Loro sono un superteam, noi non ancora») è un dettaglio che non sposta nulla nel giudizio su un giocatore che sta riscrivendo la storia del gioco ben più di quanto raccontino i primati personali. Come ha scritto Jeff Zillgit su Usa Today, «la legacy di LBJ è al sicuro nonostante la sconfitta».
La spettacolare giocata di LeBron in gara 4 (in cui ha messo a referto 31 punti, 10 rimbalzi, 11 assist)
Gregari di lusso vs “panchina corta”
In una visione molto americana dello sport che riconduce tutto al confronto dei due pesi massimi al centro del quadrato (nel caso di specie, James contro Durant), capita che nelle pieghe di una partita e di una serie la differenza la facciano i gregari, gli attori non propriamente protagonisti. Se, poi, questi rispondono al nome di Stephen Curry (26.8 punti, 9.4 assist e 8 rimbalzi di media quasi nel silenzio generale) e Klay Thompson (la sua difesa su Irving è stata di un livello qualitativo talmente elevato da far passare in secondo piano il 42.5% dall’arco, con il picco del 57.1 di gara 2), il termine assume una nuova valenza storica: quando due così hanno l’umiltà di rimodulare il proprio gioco in funzione di un’economia di squadra che prevede una diversa configurazione del numero di possessi offensivi, le cose, come direbbe Steve Kerr, «non possono che andare per il verso giusto». Tanto più se, oltre ai Big Three, si può fare affidamento sulla multidimensionalità di Draymond Green, la fisicità di Iguodala e Pachulia, la capacità dei McCaw, dei Livingston, dei West di farsi trovare pronti entrando dalla panchina. Tutte cose che, dall’altra parte, sono venute meno nel momento decisivo: Deron Williams, il playmaker a lungo invocato da James in sede di mercato, ha trovato il primo canestro dal campo solo alla quarta partita, Tristan Thompson non è riuscito a fare la differenza a rimbalzo, J.R. Smith è andato a corrente alternata molto più del solito, Jefferson è riuscito a sgravare difensivamente LBJ su Durant solo in occasione dell’unica vittoria a Cleveland, Irving, ad eccezione degli acuti di gara 4, non è riuscito ad essere un fattore come nel 2016, Korver è stato agevolmente depotenziato in uscita dai blocchi, Love ha faticato costantemente a trovare il ritmo. Dettagli che, sommati, hanno fatto tutta la differenza del mondo.
34 punti, 6 rimbalzi e 10 assist per Curry in gara 5 contro i Cavs
On the hardwood
Quando Andre Iguodala dice «coach Kerr ha un cervello pazzesco perché è bravissimo a comunicare con ciascuno di noi, arrivando al cuore delle cose», non fa altro che fotografare al meglio l’incidenza dei due allenatori non tanto sulla costruzione di un sistema di gioco quanto, piuttosto, nella capacità di adottare le giuste contromisure in relazione a quanto proposto dagli avversari. Memore dei problemi della scorsa stagione, Steve Kerr (tenuto a lungo a riposo a causa dei soliti problemi alla schiena ed egregiamente sostituito da Mike Brown) oltre ad aver ricollocato Durant in un’ottica di squadra equilibrata su entrambi i lati del campo, ha predisposto un sistema di aiuti difensivi sul pick ‘n roll centrale (le difficoltà di Love e Tristan Thompson si spiegano anche così) che ha demineralizzato la fase offensiva dei Cavs, costretti ripetutamente a forzare la conclusione dalla media/lunga distanza. Di contro, Tyronn Lue, oltre a non aver trovato la soluzione a quel cubo di Rubik che sono stati i minuti che KD ha disputato da centro atipico (allargando ulteriormente il campo e favorendo le alte percentuali dall’arco, soprattutto in gara 3), ha scelto di raddoppiare sistematicamente Curry, ottenendo come unico risultato quello di aumentare il numero di tiri ad alta percentuale degli altri Warriors (i quasi 10 assist di media – contro i 6.6 della regular season – del numero 30 sono la diretta conseguenza di tutto questo) e lasciare troppo solo James nella marcatura su Durant (in gara 2 sono stati 23 i punti in 23 possessi in cui il 35 è stato preso in consegna dal 23). Poi sarà vero che «quando ti ritrovi giocatori di talento che sanno segnare, passare e palleggiare e sono estremamente altruisti non è difficile assemblare una squadra vincente», ma è altrettanto vero come serva un allenatore in grado di farlo nel modo giusto e al momento giusto. E, oggi, Steve Kerr è il migliore nel farlo.