La Nazionale di Gigi Di Biagio

La sua è una missione delicata, valorizzare i giovani: nel frattempo, però, c'è un Europeo da vincere. L'abbiamo incontrato per farci spiegare la sua Italia.

Quando attraversi corridoi e stanze della Figc trovi teche con trofei vari anche dove meno te le aspetti e molte foto storiche incorniciate. Tutti i momenti di gioia sono tenuti fermi, esposti in qualche modo. Nella stanza in cui siamo ci sono, tra le altre, due foto della Nazionale in cui c’è Gigi Di Biagio. In una è abbracciato ai compagni a centrocampo e ha il volto teso: sta seguendo i rigori di Italia-Olanda dell’Europeo del 2000, quelli in cui Totti gli disse che avrebbe fatto il cucchiaio. Nell’altra corre felice verso Toldo, che ne ha appena parato un altro e ha deciso che sì, l’Italia si può giocare quella finale (e peccato per come finirà).

Di Biagio e i rigori, quelli belli. Non quel momento lì che invece viene in mente: il destro sulla traversa a Francia ’98 contro i padroni di casa, ai quarti, le mani sul viso e il crollo sull’erba mentre Barthez esulta perché era il tiro decisivo, la terza eliminazione consecutiva per gli azzurri dagli undici metri, praticamente una maledizione. Con quel momento Gigi Di Biagio ha fatto pace: «Mi prendono ancora un po’ in giro, ma fa parte della mia vita, non posso cancellarlo». Sorride.

Alberto Blasetti / www.albertoblasetti.com

Il passato è una parentesi veloce perché le fotografie sono lì, sui muri intorno. Il presente, invece, è un tempo bellissimo: Di Biagio allena l’Under 21 azzurra, talenti con la miccia che poi lui deve far esplodere. «Il nostro compito è cercare i giovani bravi, prepararli perché nel medio-breve periodo possano arrivare nella Nazionale dei grandi, abituarli al calcio internazionale. Un lavoro iniziato otto anni fa, un cambio di mentalità voluto da Sacchi e Viscidi prima di tutti, che ora permette di avere un buon raccolto». L’Italia del calcio è di nuovo giovane, può mettersi in competizione con quelli che ora sono modelli e anni fa ci dovevano inseguire. Si tratta di riportare le gerarchie a ciò che era qualche tempo fa, sembra possibile. Perché negli ultimi anni è cambiato molto: «I giovani adesso giocano di più, giocano anche nelle grandi squadre. Quando ho visto il derby tra Inter e Milan con in campo cinque giocatori in età da Under 21 mi è sembrato di vedere qualcosa di impensabile solo qualche anno fa. Questo ci aiuta, ma nel cambio di mentalità c’è anche il nostro lavoro».

Anni in silenzio a rimettere su un movimento, fatica e occhio per andare a trovare giocatori giovani e bravi, vestirli d’azzurro, e far capire che giocatori giovani e bravi ce ne sono. Non avevamo smesso di creare calciatori, ma di cercarli e investire («Pescavamo molto in B, ma anche più in basso: Belotti, quando l’ho convocato nell’Under 20, giocava in Lega Pro, nell’Albinoleffe»). Poi siamo stati costretti a richiamarli al fronte: «Le difficoltà economiche hanno convinto i club a guardare in casa propria. La crisi è diventata opportunità e aver visto che c’erano giovani in grado di far bene ha dato poi la spinta per crederci sempre di più, anche a prescindere da questioni di bilancio. Ora diamo fiducia alle nuove generazioni, ma le nuove generazioni ci sono sempre state: si trattava di capire come utilizzarle realmente senza disperdere forze. Era comprensibile: gli allenatori non avevano molto tempo a disposizione per rischiare con i giovani, ma adesso i club sono più pazienti e si può osare».

«Il nostro compito è cercare i giovani bravi, prepararli perché nel medio-breve periodo possano arrivare nella Nazionale dei grandi, abituarli al calcio internazionale»

Di Biagio ha un’idea lucida del calcio e una sincera fascinazione per i giovani. Li chiama per anno di nascita: i “2000”, i “98”. Li immagina nel grande calcio e lo capisci che è un bel pensiero, il suo. Lavora in un ambiente fertile, adesso. C’è Ventura, sopra tutti i tecnici, che sta portando “ragazzi” in Nazionale. Per le partite o per gli stage. «Tutto completa il nostro lavoro. Otto anni, da Sacchi e Viscidi in poi, non sono passati invano. Ventura gratifica il nostro lavoro. Gli stage ci mostrano che la strada è giusta, soprattutto perché non dobbiamo dimenticare da dove siamo partiti». Ecco, da dove siamo partiti: «Quando abbiamo iniziato era un momento in cui il calcio italiano aveva problemi in campo internazionale contro squadre come Francia, Germania, Spagna. Partivamo sconfitti. Ora ce la giochiamo con tutti. Il coronamento sarebbe vincere il prossimo Europeo, secondo me il più bello degli ultimi vent’anni, ma non dimentichiamoci, mentre si parla di vincere o non vincere un Europeo, che l’obiettivo era tornare a questi livelli e non ci nascondiamo: lo abbiamo raggiunto. E siamo stati bravi tutti, lo dico con un po’ di presunzione. Tutti quelli che abbiamo lavorato a questo: quando hai 30-40 giocatori pronti per la Nazionale A, tra quelli che sono arrivati e quelli che stanno arrivando, abbiamo vinto noi».

Alberto Blasetti / www.albertoblasetti.com

Prima eravamo noi la Germania, la Spagna, la Francia. Poi ognuna di queste ha costruito il suo ciclo. Adesso l’Italia crede che sia di nuovo il suo turno. Di Biagio ha creato una Under 21 di qualità dando ai giovani una dimensione internazionale: «La nostra scuola è la migliore sulla tattica, ma poi all’estero serve la qualità individuale. Bisogna sempre puntare su quella». Avrebbe due correttivi in mente, per crescere ancora: «Le squadre B sarebbero utilissime: aiuterebbero i giovani a colmare il gap tra Primavera e prima squadra. Ora la forbice è troppo ampia. E poi abbasserei i limiti di età di tutti i campionati di un anno: non capirò mai un ventenne nel campionato Primavera. Tenerli fino a quell’età lì per vincere i campionati è troppo. Poi ci troviamo a dire che sta entrando un giovane e magari ha già ventiquattro anni, che è un paradosso. Invece un giocatore deve scegliere prima, altrimenti arriva tardi in prima squadra, ha bisogno dell’assestamento e finisce per essere pronto quando non è più giovane. È uno dei motivi perché facciamo fatica con l’Under 19, ad esempio: i nostri giocano ancora nelle giovanili e le altre Nazionali hanno gente che ha già decine di partite in Champions».

È la premessa per un consiglio ai giovani: «Non aspettate a vita in una grande squadra solo per dire che siete in una grande squadra. Meglio trenta partite in B che un’attesa tanto lunga: è il modo per poi arrivare in Serie A dalla porta principale. Si migliora se si gioca. Aspettare ha senso se c’è un progetto per il giocatore, ma non si resta in Serie A a dispetto dei santi. Con un esempio: allenarsi con il Barcellona può essere bello, ma se non giochi è meglio farsi 30 partite con l’Alavés. Così si diventa competitivi». Non sorride, in questo momento. Ha il tono del fratello maggiore. Che ne sta vedendo tanti crescere ed è felice. Come nelle foto appese in questa stanza così grande, in cui lui esulta con una bella Italia, ora che “una bella Italia” è l’obiettivo. Raggiungibile, addirittura.

 

 

Ritratti di Alberto Blasetti