Un affare di famiglia

La rivalità tra Milan e Inter ha una particolarità che la rende unica: è paritaria. Il racconto di una passione tra antipatia e affetto, dal punto di vista rossonero.

Nel piccolo ostello di via Medici – tra le vie di Milano più centrali e silenziose e aristocratiche – eravamo soltanto in cinque. La televisione aveva dei problemi al sistema di audio, per cui la partita scorreva silenziosa. Era il primo derby giocato a un orario strano, le dodici e trenta del mattino, e mi sembrava che, oltre che strano, fosse un derby meno importante, mutilato, annacquato. I primi dieci, venti, trenta minuti erano passati senza che riuscissi a essere coinvolto. Mi alzai per ordinare una seconda birra, tornai a sedermi, ma mi misi a guardare Instagram. Mi persi il momento in cui Mattia De Sciglio a sua volta perdeva il contatto con la marcatura di Antonio Candreva, che al minuto 36 segnava l’uno a zero con un tiro centrale, mediocre e tuttavia efficace. Cambiò il risultato, e si inclinò, finalmente, anche il piano della mia apatia.

Da anni la mia passione per il Milan si è intiepidita, e la cosa non mi dispiace: mi permette di non sprecare due ore ogni fine settimana, ad esempio, e di non dover rinunciare a pranzi, cene, viaggi, mostre, inviti di amici, amiche e familiari. Tranne, naturalmente, per quelle due partite in particolare. Il gol di Candreva mi diede una scossa: si giocava pur sempre a mezzogiorno, Milano era pur sempre deserta per le vacanze di Pasqua, ed entrambe le squadre non erano più in mano alle famiglie che le avevano dirette per gli ultimi trent’anni. Ma mi ricordai che nessun successo, in vent’anni di tifo, mi aveva mai entusiasmato come quelli contro l’Inter, né nessuna sconfitta mi aveva mai procurato simili fiammate di rancore.

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Mi ero avvicinato al calcio tardi, per essere un bambino cresciuto a Milano. Soltanto a dieci anni avevo deciso di concentrarmi per farmi piacere quel gioco lento e noioso, e ci riuscii davanti a uno dei momenti più tragici per la squadra: nell’aprile del 1997, quando a San Siro la Juventus batté i rossoneri per 1-6. Come se l’energia catartica sviluppatasi da quel baratro di umiliazione – per una squadra che soltanto tre anni prima era campione d’Europa – fosse stata in grado di imprigionarmi e trascinarmi a fondo. Curiosamente, la prima partita cui avevo avuto occasione di assistere, a San Siro, era stata una brutta Inter-Piacenza terminata 1 a 0 nel settembre del 1998. Segnò Ronaldo, se non sbaglio su rigore – ma non intendo, mentre scrivo, perdere tempo a cercare su Google. Ero un tifoso inesperto, e pur avendo deciso di dedicare il mio cuore al Milan, non vedevo nessun problema nel simpatizzare anche per quell’altra squadra: in fondo era comunque di Milano. C’è da dire che l’Inter di quegli anni, in più, non rappresentava un grande problema per un tifoso milanista: nel 1999, mentre il Milan completava una storica rimonta per vincere il suo scudetto più insperato di sempre, Simoni e Ronaldo finivano fuori da tutte le competizioni, all’ottavo posto. Provavo allora, per la prima volta, un sentimento che avrebbe caratterizzato tutto il mio approccio al tifo, calcistico e non solo: in assenza di un duello diretto per una posizione comune, il mio fervore scemava, fino a diventare il sintomo appena accennato di una blanda rivalità.

Le cose cambiarono la stagione successiva – lo scudetto andò alla Lazio, ma Milan e Inter lottarono per il secondo posto a lungo – e da qualche parte nell’archivio mentale delle emozioni conservo ancora l’impatto emotivo del mio primo derby a San Siro, terminato 2 a 1 per il Milan, con un gol a tempo quasi scaduto di Shevchenko ancora giovane. L’Inter era ormai diventata il nemico numero uno, e batterla così fu la scoperta di una sfumatura nuova del prisma della gioia. Tuttavia, mi sono spesso interrogato – lo faccio tuttora – sulla diversità tra il tifo milanese e i campanilismi delle altre città. La rivalità romana e quella genovese si basano, in un certo senso, sulla negazione del soggetto odiato: la Lazio, nello sfottò romanista, è la squadra dei non romani, quella della provincia, delle campagne incolte, o dei ricchi, quasi per definizione “nuovi”; la Sampdoria, per i genoani, semplicemente non è una squadra di Genova. Per ogni città italiana si possono, laicamente, individuare una “prima” e una “seconda” squadra: per Roma è la Roma – almeno così volle il governo fascista; a Genova e Torino parlano i trofei vinti; per quanto riguarda Verona, infine, basta il numero delle partecipazioni alla massima serie. A Milano, nonostante entrambi i tifosi amino pensare “Milano siamo noi”, le cose sono più complicate. Pacificamente complicate. Come se le squadre fossero una coppia che si è lasciata ma che, dopo il giusto periodo di rancore, oggi si vuole bene, si sente ancora, e si manda i Whatsapp e i meme su Facebook. «Le categorie delle altre città qui non si applicano», mi scrive Matteo, cinquantenne, traduttore di cuore genoano ma da anni a Milano, quando gli chiedo come percepisce, con lo sguardo dell’antropologo dell’altro emisfero, la rivalità cittadina tra rossoneri e nerazzurri, «soprattutto vi manca il disprezzo».

Milanisti e interisti riconoscono la propria esistenza reciproca: questa esistenza fa parte di una dicotomia paritaria, che è anche unica in Italia. Quando mi scambio questi messaggi con Matteo sono i giorni intorno al 25 aprile, la città è piena di pollini abbandonati dai pioppi della Pianura padana, e penso automaticamente a Novecento di Bernardo Bertolucci. Mi sembra che il paragone tra le squadre e i protagonisti del film possa reggere, anche politicamente, per cui lo provo: il Milan – e questa è storia nota – per lunghi anni della sua vita ha rappresentato la parte proletaria, come dimostra il vecchio soprannome – ormai in disuso, fuori bersaglio – di “casciavit”. Per contro, l’Inter era la squadra borghese, in un’epoca in cui essere borghese significava, in qualche modo, non essere di sinistra – o non esserlo abbastanza. In Novecento Olmo e Alfredo nascono lo stesso giorno (anzi, Olmo appena prima), e vivono, con ruoli diversi, sulla stessa terra, nella stessa proprietà. Sono diversi e si bersagliano di sfide e accuse, fin da bambini: Olmo accusa Alfredo di essere un codardo, salvo poi ricominciare, ogni giorno, a giocare insieme a lui. Crescendo, i caratteri si inaspriscono, c’è di mezzo la guerra, Alfredo diventa padrone, naturalmente servile con il regime, Olmo è prima soldato e poi partigiano. La guerra termina, Olmo torna a casa, trova Alfredo imputato in un processo popolare e gli salva la vita: non c’è bisogno di uccidere il padrone, dice, non vedete?, il padrone è già morto. Il messaggio di Bertolucci è politico, ma l’affetto tra i due nemici un tempo amici ha un peso decisivo nella scelta del finale.

Un pomeriggio – mancano poche giornate alla fine del campionato e Milan e Inter lottano goffamente per una posizione in Europa League – parlo con Andrea, interista e amico di lunga data, oggi avvocato in uno studio internazionale in via dell’Orso. Conosco Andrea da molti anni, e so quante ore ha passato, in piedi, in curva nord. Gli scrivo un Whatsapp, è un inizio di conversazione strano, del tipo: ti devo fare chiedere delle cose, sono legate al calcio, cerca di capire. La sua prima risposta, dopo alcune domande banali, è: «Il tifoso milanista ai miei occhi ha un passato e una storia comuni ai miei. Condividiamo una storia, e gli stessi luoghi del cuore». Mi fa pensare per la prima volta al fatto che Milan e Inter non possiedono mausolei del tifo: i festeggiamenti sono sempre stati fatti nella stessa piazza, condivisa, e anche il bar in cui si ritrovano le curve prima delle partite – “il baretto” – è lo stesso per entrambe le squadre: come se sapessimo, reciprocamente e istintivamente, quando è il caso di farci da parte. Dividersi gli spazi con discrezione ed educazione. Mi torna in mente il maggio 2010, forse il momento più basso per un milanese e milanista nato negli anni Ottanta: la Champions League vinta dall’Inter. Ricordo che quella sera guardai, con poche speranze, il primo tempo della finale contro il Bayern Monaco, nel salotto della casa da universitario che abitavo allora, a pochi passi da piazza Duomo. Ricordo di aver abbassato le tapparelle e chiuso le imposte a pochi minuti dalla fine, e ricordo che l’operazione fu inutile: trombe e urla riuscirono a penetrare ogni spazio privato. Passarono alcuni minuti, e di comune accordo con l’amico di allora, anch’egli milanista, ci decidemmo: indossammo vestiti neutri e scendemmo di casa. Dopo pochi passi ci ritrovammo nel cuore di festeggiamenti attesi – da loro – da un’intera generazione. Bevemmo alcune birre. Ci tenemmo in disparte. Ci abbracciammo, ci facemmo forza forse scherzando, scimmiottando i sentimenti veri in una specie di recita, risalimmo la corrente e tornammo a casa.

Nei momenti più delicati della formazione del carattere di una persona – le scuole elementari, le medie inferiori e il liceo – ho beneficiato di una fortuna calcistica rara: eccetto pochi e isolati bassi – come l’annata di quel Milan-Juventus 1-6 – la squadra che mi ero scelto è riuscita a vincere, secondo un veloce calcolo mentale, cinque campionati, quattro Supercoppe, due Champions League (più una terza nei primi anni universitari). Stare dalla parte dei vincenti calcistici, nel delicato gioco di equilibri delle scuole dell’obbligo, è spesso un requisito fondamentale per non finire in fondo a una catena alimentare che, in quelle età, sa essere spietata. Anche negli anni più bui del milanismo – i trionfi dell’Inter post-Calciopoli – ci si poteva facilmente aggrappare a quello che non è uno slogan ma un’intima convinzione, un sentimento di predestinazione sì borioso che ci fa pensare di essere una sorta di squadra eletta, destinata alle imprese internazionali (“preferisco la Coppa”) anziché a quelle (più meschine) legate ai confini nazionali. Come ha fatto una squadra proletaria a trasformarsi nella squadra che per anni si è cucita sulle maglie la frase “Il club più titolato del mondo”? Quanto c’entrano con questo cambio di paradigma i 30 anni di Silvio Berlusconi?

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«L’arroganza dello strapotere ha un po’ accecato i milanisti, che per me restano una stirpe molto ma molto nobile, appassionata e per la quale non provo astio», mi dice Michele, editore, molto interista. La verità è che i tifosi più progressisti e democratici – quelli che hanno sempre risposto, fingendo saggezza e superiorità: “Politica e calcio sono due cose separate”, alla domanda: “Ma come fate a tifare una squadra con quel presidente?” – sono, da qualche parte nel cuore, felici che sia finito quel trentennio. Del Milan berlusconiano un milanista di oggi ha di certo preso molti tic caratteriali, forse la generazione dei nati negli anni Settanta e Ottanta più di ogni altra. L’abitudine alla grandezza, un certo snobismo nei confronti delle rivali – sia italiane o internazionali –, soprattutto una fiducia nella predestinazione che si lega, da un lato, alla convinzione di essere una sorta di squadra eletta tra le squadre, dall’altro allo stoicismo, per cui una stagione sbagliata può capitare, ma sarà riscattata, inevitabilmente, da un trionfo nel futuro più prossimo. È una convinzione che è servita per trovare serenità nelle sconfitte, eppure anche la serenità può essere messa alla prova: non c’era mai stato, negli ultimi trent’anni di Milan, un periodo così lungo senza vittorie di spicco, ovvero campionati o coppe internazionali, ma più in generale senza la rilevanza a cui avevamo fatto l’abitudine. Quell’arroganza dell’eccesso si è trasformata in paura, ancora prima che in rabbia: di non essere davvero predestinati, di non essere davvero eletti.

È anche per questo motivo che, in questi ultimi anni di sconfitte e, allo stesso tempo, corteggiamenti thailandesi, messicani e cinesi, mi sono ritrovato a confrontarmi con vecchi compagni di stadio, preoccupati forse più per la salvaguardia della natura della squadra che per una striscia di risultati utili da non interrompere. La domanda si ripropone anche oggi, quotidianamente: la nuova proprietà riuscirà a capire cos’è il Milan, cosa significa il Milan, cosa significa farne parte e tifarlo, sia pure con discrezione? Riuscirà a capire quanto, con questo carattere, c’entri Milano, e il suo carattere di città? Riusciranno, le proprietà pur cinesi di entrambe le squadre, a riuscire a interpretare quel valzer di affetto e rivalità, sfottò e amicizia che rende la nostra convivenza diversa da quasi tutte le altre? Dipende da quanto si fermeranno in città, probabilmente, da quanto frequenteranno i luoghi comuni delle partite e delle vittorie, ma anche le tribune dei derby, da quanto si faranno spiegare le coreografie che sono sempre un gioco, una cosa tra fratelli più che tra cugini, tra nemici giurati solo per gioco. Una questione privata, tutto sommato, e alla fine neanche così seria.

Articolo originariamente pubblicato sul numero 16 di Undici, acquistabile qui