Nell’agosto del 1969 la finale del singolare maschile dello Us Open tra Rod Laver e Tony Roche rischia di slittare a causa della pioggia caduta poco prima, con l’erba del campo ancora umida e troppo scivolosa per poter giocare. Per ovviare all’inconveniente viene noleggiato un elicottero, che prima dell’inizio dell’incontro plana sul campo per spazzare via con le sue grandi pale l’acqua intrappolata nell’erba. Un filmato dell’epoca mostra la singolare scena del campo centrale di Forest Hills a New York, la sede di allora della tappa americana del Grande Slam, sovrastato dal velivolo che levita a pochi metri dall’erba agitata dal vento, mentre un cameraman a bordo campo si ripara dalle folate. Rod Laver poi vincerà quell’incontro, conquistando per la seconda volta in carriera tutti e quattro gli Slam nello stesso anno solare: l’Australian Open, il Roland Garros, Wimbledon e infine lo Us Open. Ci era già riuscito sette anni prima, quando gli illustri tornei erano ancora riservati agli amatori e ai giocatori non era consentito di lucrare dalle competizioni. Ragion per cui Laver all’epoca aveva abbandonato gli Slam per poter giocare da professionista, tornando nel tour soltanto nel 1968, quando i pro furono finalmente ammessi, sancendo l’inizio dell’era open. Nessun altro uomo è riuscito a replicare l’impresa di Laver da quel 1969, ma le pale meccaniche che l’hanno propiziata erano il presagio dell’irruzione della modernità nel mondo del tennis.
Da quel momento lo Us Open non si è più fermato: già l’anno dopo veniva introdotto il tie break per decidere il vincitore di un set a sei giochi pari, eliminando la regola dei set a oltranza fino a che uno dei due conquistasse due giochi di vantaggio. Primo Slam in assoluto a introdurlo, a New York l’hanno adottato anche nel set decisivo, mentre negli altri tre major tuttora la partita finale è un “long set”; nel 1973 viene introdotta la parità di montepremi tra singolare maschile e femminile, più di vent’anni prima di qualsiasi altro torneo, poi nel 1975 viene introdotta la sessione notturna e si cambia superficie di gioco, passando dall’erba alla terra. Un capriccio di tre anni soltanto, perché nel 1978 si cambia di nuovo passando al cemento, quando lo Us Open si sposta da Forest Hills al National Tennis Center a Flushing Meadows, nel Queens. Nel 1984 la spettacolarizzazione del torneo raggiunge l’apice con l’introduzione del Super Saturday, ovvero l’ultimo sabato dell’Open in cui vengono messe in programma le due semifinali maschili con in mezzo la finale femminile. Soluzione imposta dalla Cbs che trasmette la diretta degli incontri, che così comprime semi e finali nei due giorni di maggiore audience. La finale femminile buttata in mezzo ai due incontri maschili viene così privata di un orario d’inizio definito, mentre per gli uomini c’è l’improbo compito di giocare al meglio dei cinque set due giorni di seguito. Ma è il prezzo da pagare per allestire lo show perfetto, il dramma agonistico deve sempre accadere in prime time. Negli altri Slam viene celebrato il tennis giocato da eroi, a New York si offrono gladiatori alla folla.
Lo Us Open è un calderone figurativo e letterale, in cui negli anni sono stati gettati dentro ingredienti diversi in cerca della formula magica per massimizzare l’intrattenimento del pubblico, l’agone sportivo, i ricavi dai palinsesti televisivi. Fino al 1997 lo stadio centrale è stato il Louis Armstrong, un catino da diciottomila posti che è stato poi ridotto a diecimila e sostituito dall’Arhtur Ashe Stadium, un gigante da quasi ventitremila spettatori, unico al mondo. Mai nel tennis si era osato circondare il gioco con folle di queste dimensioni, e la sperimentazione selvaggia del torneo americano a volte ha generato mostri: nel 1979, durante un secondo turno tra John McEnroe e Ilie Nastase, il pubblico si rivolta contro il giudice di sedia Frank Hammond perché il poveretto cerca di applicare il regolamento contro Nastase, che protesta su ogni punto, prende in giro i giudici di linea, rallenta il gioco. Hammond a un certo punto infligge un game di penalità a Nastase, il pubblico allora comincia a fischiare, a lanciare oggetti in campo, i giocatori restano immobili mentre entrano in campo poliziotti e Hammond abbarbicato sul seggiolone suda e non sa più cosa fare. Prima annulla l’incontro, ma poi è lui che viene sostituito mentre Nastase se la ride. Non c’è rituale da celebrare a New York, non c’è tradizione immutabile. Se Roland Garros o Wimbledon celano il progresso dietro a sembianze eternamente uguali, lo Us Open ha fatto del cambiamento perpetuo la propria identità.
Tutto è stato provato sui campi di Flushing Meadows, e quasi tutto è poi diventato norma anche altrove: nel 2005 è il primo torneo a usare il colore blu per la superficie di gioco per facilitare la visione televisiva, nel 2006 viene introdotta la moviola elettronica per permettere ai giocatori di contestare le chiamate arbitrali, poco dopo adottata in tutto il mondo. Ma c’è qualcosa nell’aria di Flushing Meadows che ha sempre distinto lo Us Open, propiziando eventi insoliti. Nel 1977 ad esempio, l’ultimo anno della breve transizione alla terra battuta, succede di tutto: viene ammessa al tabellone femminile Renée Richards, la prima tennista transessuale della storia. Perde al primo turno nel singolare ma raggiunge la finale in doppio, arriverà tra le prime venti del mondo pur giocando solo negli Stati Uniti, perché non ammessa ai tornei europei. Durante il secondo turno tra McEnroe e Eddie Dibbs uno spettatore viene ferito alla gamba da un colpo d’arma da fuoco, un proiettile vagante proveniente da fuori lo stadio. L’americano Stan Smith, ex numero uno del mondo, viene sconfitto da uno sconosciuto fuori dai primi duecento che usa una racchetta piena di strani intrecci di corde, uno strumento misterioso che aveva già mietuto vittime nei mesi precedenti ed era stata battezzata racchetta-spaghetti, poi bandita pochi mesi dopo. Jimmy Connors in semifinale contro Paolo Barazzutti abusa degli onori di casa arrivando alle spalle dell’avversario per cancellare un segno di una palla contestata dall’italiano, col giudice di sedia che ride sotto i baffi e fa finta di rimproverarlo.
Oltre al proiettile vagante del ’77, altri episodi di cronaca nera si sono svolti tra i grounds newyorkesi: nel 1983 un servizio di Stefan Edberg colpisce un giudice di linea all’inguine, facendolo cadere a terra sbattendo la testa. Muore dopo cinque giorni di coma. Nel 2012 una giudice di linea viene arrestata con l’accusa di aver ucciso il marito ottantenne rompendogli in testa una tazza da tè, ma successivamente verrà scagionata. Le foto dell’arresto la mostrano vestita con l’uniforme arbitrale, mentre viene portata via dal suo hotel da agenti con occhialoni da sole e completi scuri in stile Law & Order. Perfino gli impeccabili campioni contemporanei si trasformano a New York, forse intossicati dall’arena in cui vengono gettati per combattere. Nel 2009 Serena Williams viene squalificata dalla semifinale che stava giocando contro Kim Clijsters per aver urlato contro una giudice di linea che le aveva chiamato un fallo di piede. Trovandosi così a dover affrontare un match point a sfavore, Williams si rivolge alla giudice dicendole: «Se potessi ti ficcherei questa palla in gola». L’improperio le costa un punto di penalità, dunque l’incontro. Due giorni dopo Roger Federer, durante la finale contro Juan Martín del Potro, discute con l’arbitro perché del Potro chiede la verifica elettronica del punto troppo spesso e troppo tardi. Si sente Federer pronunciare addirittura nella stessa frase: «I dont give a shit», seguita da: «Don’t fucking tell me the rules». Solo a New York poteva succedere.
Col tempo la stravaganza dello Us Open si è comunque attenuata, e il torneo si è sempre più allineato con le pratiche degli altri Slam. Dopo quasi trent’anni è stato abolito il Super Saturday, e oggi le semi e le finali si giocano con un giorno di intervallo. Hanno installato un tetto sul campo centrale, dopo che per cinque anni la finale maschile era finita al lunedì a causa del maltempo. Per risolvere il problema ingegneristico di coprire uno stadio così grande con un tetto mobile, troppo pesante per poggiarlo sulla struttura, hanno circondato il perimetro dell’Arthur Ashe con degli enormi pilastri di metallo su cui poggia la copertura retrattile, uno gargantuesco mostro tubulare molto lontano dalle invisibili protezioni installate a Wimbledon e all’Australian Open. Ma al di là della bizzarria estetica del nuovo tetto, il torneo americano da diversi anni non offre più episodi troppo strampalati. Dal 2015 la Cbs ha ceduto i diritti tv dell’evento a Espn, dopo 47 anni di esclusiva. E in fondo è stata la Cbs a inventare lo Us Open delle notti folli, del Super Saturday, del tennis prime time, e il passaggio di consegne è forse il simbolo di un cambiamento d’epoca, passata la sbornia della democratizzazione selvaggia del tennis di fine anni ’70. Anche la diretta televisiva è cambiata: nel live della Cbs l’audio dell’Arthur Ashe aveva il riverbero di una gigantesca grotta, i colpi suonavano fragorosi, i passi dei tennisti stridevano sul cemento, l’aria sembrava sempre piena di vento, come prima di un temporale. Negli ultimi due anni il suono si è asciugato, si sente quasi soltanto la palla, non ha più carattere: c’è da sperare che sia soltanto un inganno, e che prima o poi il catino risveglierà qualche altro demone.