La próxima gran cosa

Hirving Lozano è arrivato dal Messico per prendersi l'Europa, in velocità.

Sotto gli occhi del Pibe

Il mese scorso Diego Armando Maradona ha portato l’Al-Fujairah in ritiro a Mierlo, una cittadina del Brabante a pochi passi da Eindhoven. Lì ha approfittato dei giorni di riposo concessi alla squadra emiratina per fare un salto al Philips Stadion e assistere all’esordio stagionale del Psv, ovviamente onoratissimo di riceverlo. A giudicare dalle inquadrature strette, ricercate con costanza quasi scientifica dalla regia olandese, più che la partita, l’attrazione principale del pomeriggio è stata lui. Dopotutto, non capita mica tutti i giorni di ospitare un’icona come Maradona: per questo c’era la voglia, probabilmente legittima, di decifrarne la prossemica, dedurre da un’alzata di ciglia o una scrollata di spalle cosa stesse pensando della gara, come se questo, alla fine, fosse davvero più interessante della gara stessa.

Tra tutte le cose per cui l’ex campione argentino ha fatto parlare di sé, di certo non c’è l’imperscrutabilità, né tantomeno una certa padronanza nel gestire le emozioni: osservarlo equivale a fare un’esperienza simile allo sfogliare le pagine di un libro aperto. Ma soltanto una volta sul viso è comparsa un’espressione di ammirato stupore, come se si trovasse di fronte a una rivelazione inaspettata, colto da quell’infatuazione improvvisa e intensa tipica del colpo di fulmine. A stregarlo sono state le mirabilie di Hirving Lozano.

L’esordio, il gol, contro l’Alkmaar

All’esordio in Eredivisie, il messicano ha impiegato poco tempo per prendersi il centro del palcoscenico, mostrando in novanta minuti un po’ tutto il campionario di colpi e magie nelle sue corde, compreso un gol, quello del temporaneo 1-1, per certi versi paradigmatico. Una volta ricevuto sulla sinistra con tanto spazio da divorare in conduzione davanti a sé Hirving – con l’acca a causa di un errore di trascrizione di uno sbadato impiegato dell’anagrafe – ha potuto fare quello che ama di più: lanciarsi come un proiettile sulla fascia, sterzare improvvisamente verso il centro, lasciando sul posto il difensore con un fulmineo cambio di direzione, rientrare sul destro e non lasciare scampo al portiere con una rasoiata sul primo palo. Quella da cui è nata la sua prima rete olandese è un’azione archetipica che racchiude la spiccata tendenza alla verticalità di Lozano. Quando gira la manopola del gas e sgomma in transizione sulla corsia col piano che sembra inclinarsi verso la porta avversaria, diventa un giocatore difficilmente arginabile, se non con opportuni raddoppi di marcatura: «Quando parte in percussione può squarciare qualunque difesa», assicura Carlos Trucco, responsabile delle “fuerzas básicas” del Pachuca.

Ficcando il naso tra le statistiche si capisce subito come l’ex Pachuca non si sia disintegrato come una meteora a contatto con l’atmosfera, come magari qualcuno aveva temuto, ma, anzi, abbia avuto un impatto devastante con il nuovo universo: dopo appena cinque giornate, Lozano ha già segnato tre reti, un terzo di tutta la produzione offensiva biancorossa, fornito un assist e creato sette occasioni, se a questo primo bilancio si addizionano i sei passaggi chiave finora dispensati. Nonostante un’ingenua espulsione rimediata nella partita con l’Heerenveen per una manata rifilata sullo sterno di un avversario, si può dire, senza timore di smentita, che l’ala messicana sia già un fattore per i Boeren, oltre che uno dei giocatori più incisivi di questo primo segmento di Eredivisie.

FBL-NED-EINDHOVEN-LOZANO

Da dove viene

Hirving Lozano è nato a Città del Messico nel 1995. La sua è una famiglia di futbolisti: il fratello Brian, più piccolo di due anni, gioca con i Pumas della Unam. C’è una bella intervista realizzata dalla tv messicana in cui il padre racconta con la voce rotta dall’emozione e lo sguardo trasognante, commuovendosi pure a un certo punto, dei mille sacrifici fatti per supportare la passione dei figli. Il momento più duro, quello della separazione, si è presentato quando Hirving a undici anni è stato selezionato dal Pachuca dopo un torneo giovanile. È in questo periodo che qualcuno ha coniato per lui l’apodo più fortunato di tutti, quello con cui lo conoscono dappertutto, el Chucky, come la orrorifica bambola assassina ideata da Don Mancini.

Lozano non è swag come poteva esserlo Giovani dos Santos alla sua età, né tantomeno possiede il gusto per la giocata ad effetto del Tecatito Corona, primo concorrente per una maglia da titolare in Nazionale, ma sa sfruttare lo spazio per dribblare come pochi calciatori al mondo. Essenziale, pragmatico, sempre finalizzato a generare un vantaggio, per la perseveranza con cui cerca la giocata preferita, alle volte il suo gioco può risultare monotematico, ma è sempre comunque piuttosto redditizio: nelle quattro stagioni vissute con addosso la maglia del Pachuca ha impiegato poco meno di 150 presenze per mettere assieme il ragguardevole bottino di 43 reti, vincendo praticamente tutto e facendo incetta di premi individuali. Proprio per questo aspetto a qualcuno ha ricordato vagamente Arjen Robben: «È molto veloce e gli piace dribblare per poi concludere in porta», dice Hans Westerhof, ex tecnico dell’Under 17 messicana. Anche l’avventura in maglia verde è stato un continuo bruciare le tappe. Ha segnato in tutte le categorie delle Nazionali, trascinando da capocannoniere il Tricolor alla conquista del Campeonato Sub-20 della Concacaf nel 2015, fino a quando Osorio, un anno più tardi, lo ha convocato per la prima volta in Nazionale maggiore. Talvolta il Profe lo ha impiegato come mezzala in un centrocampo a tre, arretrandone il raggio d’azione di una ventina di metri per aggiungere qualità e fosforo a una mediana forse un po’ carente sotto quel punto di vista. Non era un’idea del tutto campata in aria: Lozano ha un fisico estremamente compatto, e dispone dell’esplosività e delle doti tecniche necessarie per reggere all’urto degli avversari e sgusciare via anche quando si ritrova imbottigliato nel traffico dell’ora di punta.

Il terzo gol della sua Eredivisie

Il Psv, una scelta ragionata

Esiste una specie di morbo che sembra colpire il calciatore messicano di talento, specie in epoca moderna. La strana sindrome, a cui hanno dato il nome del paziente zero, tale José Villegas Tavares, detto “el Jamaicón”, ha una sintomatologia ben precisa, molto simile a quella della saudade brasiliana: nel quadro ci sono la nostalgia di casa, la paura di uscire da una comfort zone, e una preoccupante tendenza all’accontentarsi. Se tentassimo di fare una diagnosi eziologica del fenomeno, probabilmente verrebbero fuori due fattori scatenanti: la stima ipertrofica della Liga MX e un antico senso di inadeguatezza riconducibile, forse, alle non incoraggianti esperienze degli altri messicani in Europa, se ci eccettuano le parabole di Rafa Márquez e quella di Chicharito Hernández. È come se, arrivati a un certo punto, ai calciatori messicani più talentuosi venisse a mancare l’ambizione necessaria per spingersi a guardare cosa c’è oltre e sperimentare una dimensione sconosciuta. La ricchezza generalizzata delle proprietà poi fa il resto. Non deve quindi stupire se le carriere di alcuni tra i talenti più cristallini della nouvelle vague messicana finiscano per impantanarsi nelle sabbie mobili di un sistema costantemente innaffiato di capitali da magnati e corporation d’ogni tipo: «I giovani talenti della Liga MX fanno fatica a trasferirsi in Europa perché i prezzi chiesti dalle società sono alti», spiega Tom Marshall, corrispondente in Messico di Espn.

Anche per questo l’approdo di Lozano nel Vecchio continente è avvenuto forse con un pizzico di ritardo. Nell’ultimo anno diverse formazioni europee hanno posato gli occhi su di lui ed i rumors si sono susseguiti a un ritmo frenetico: si è vociferato di Manchester United, Ajax, Celta Vigo, Valencia, poi, a un certo punto dell’estate pareva che il Manchester City stesse per piazzare l’affondo decisivo, ma alla fine, un po’ a sorpresa, l’ha spuntata il Psv. È stato il trasferimento più caro della storia del calcio messicano, ma il presidente del Pachuca, Jesús Martinez, sostiene di aver rinunciato ad altri soldi pur di accontentare i desideri del ragazzo. Sedotto dal 4-3-3 propositivo di Cocu, il Chucky ha voluto fortemente il club biancorosso, scegliendo di calarsi in un contesto non eccessivamente competitivo come l’Eredivie, che potesse favorirne l’adattamento all’ecosistema calcistico europeo. La sensazione è che quella olandese sia una tappa intermedia e insieme iniziale: il trampolino ideale da cui il Muñeco Diabólico intende lanciarsi per spaventare l’Europa.