Fiona May

Incontro con l'ex atleta azzurra, oggi Responsabile della Commissione Figc per l'Integrazione.

Fiona May spiazza come un salto inatteso, quello che vale la misura vincente in una gara di sguardi nel vuoto e nervi saldi. Spiazza perché, se le chiedi se lo sport, l’agonismo ai massimi livelli come lei l’ha inteso per anni, le manca, anche giusto un po’, è categorica, quasi sferzante: «Per niente. Ho iniziato a 12 anni e ho smesso a 35. È durata fin troppo». Però Fiona, due volte oro mondiale e due volte argento olimpico nel salto in lungo, non ha dimenticato il gusto, la palpitazione della sfida. Dal 2014 lavora in Figc, dove è Responsabile della Commissione per l’integrazione: un ruolo delicato e al tempo stesso carico di significati. Indovinato per chi, come lei, si definisce «per un terzo giamaicana, per un terzo inglese, per un terzo italiana».

Mai come oggi l’immigrazione è al centro delle agende politiche dei governi di tutto il mondo, spesso avvertito più come un problema che come una risorsa. Complicando il presente, ancor prima del futuro, di chi arriva in un nuovo Paese senza orizzonti concreti. In questo senso, lo sport può avere un’efficacia insospettata, che già Nelson Mandela aveva sintetizzato in una frase: «Lo sport è più forte della politica in certe battaglie». È questo il concetto che May cerca di trasferire nella realtà: «Il calcio ha il potere di cambiare le cose. Faccio un esempio. In Figc abbiamo promosso il Progetto Rete!, che coinvolge i rifugiati: sono ragazzi di 16, 17 anni, che non fanno niente. Dar loro qualcosa, un po’ di speranza, è una cosa importantissima: li abbiamo fatti giocare a calcio, e abbiamo constatato che il 90% di loro, dopo questa esperienza, ha espresso un miglioramento delle loro condizioni di vita». Ecco, l’integrazione: può passare da piccole cose, anche insignificanti a prima vista come il far parte di una squadra, il condividere uno spogliatoio, il sentirsi riconosciuti in un collettivo. Eppure, punti di partenza che, in qualche modo, riescono a definire meglio le le prospettive di vita di chi non ne ha e ne è alla ricerca. Una politica che la Federcalcio ha ritenuto vincente, e che spera di ampliare sempre di più: «Stiamo lavorando tanto, con molti progetti in cantiere. I ragazzi sono il nostro futuro, dobbiamo far capire che stiamo pensando a loro. Non è facile però, ci sono molte cose da fare».

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La sfida, ecco. Che si allarga a orizzonti più impervi e perciò più grandi. Fiona è nata in Inghilterra da genitori giamaicani, e ricorda con dispiacere certe dinamiche sulla propria pelle: «Trent’anni fa vivevamo in un sobborgo dove eravamo l’unica famiglia di neri. La gente vedeva che avevamo una bella macchina e si insospettiva: chi sono? Cosa fanno? Quel tipo di razzismo c’è ancora, ed è un razzismo più strisciante. E perciò è più difficile da combattere». Rispetto all’Inghilterra, però, May pochi anni fa ha detto che «l’Italia è vent’anni indietro riguardo questo tema», un pensiero che conferma ancora oggi: «Non ci sono stati grossi passi in avanti. Ma non è un problema solo italiano. Quando si dice che nel calcio c’è più razzismo, dico che il calcio riflette anche la società. È un’espressione della cultura generale. Forse non si capisce che è solo un gioco. Prendete il rugby: è uno sport duro, ma quando finisce, c’è un bel clima. Nel calcio non accade questo, bisognerebbe smussare certi aspetti».

Benché il suo passato agonistico rechi indelebile il marchio dell’atletica, Fiona è un’onnivora dello sport. Da giovane, oltre a quella che sarebbe diventata la sua specialità, ha praticato varie discipline, dal netball al tennis. E sì, anche il calcio: «Per me non è mai stato un mistero. Lo seguivo già in Inghilterra, tifavo Derby County e anche Chelsea. In Italia ho cominciato a interessarmene ancora di più. Qui c’è solo calcio (ride, ndr), tutto il tempo, sulle televisioni, sui giornali. Sono arrivata a Firenze ai tempi di Batistuta, Edmundo, e perciò da subito ho tenuto per la Fiorentina». C’è di più: May del calcio non fa solo una passione, ma anche un lavoro. Al ruolo di responsabile per l’integrazione in Federcalcio coniuga quello di capo delegazione dell’Under 19 femminile. Con cui pochi mesi fa ha festeggiato un traguardo prestigioso: la qualificazione agli Europei di categoria, dopo cinque tentativi di fila falliti. In Irlanda le azzurrine hanno raccolto un solo punto nel girone, ma la soddisfazione di esserci state ha superato qualsiasi ragionamento. Al di là di tattiche, esercizi e allenamenti, Fiona ha avuto un ruolo importante per le ragazze: «Quando ci giocavamo la qualificazione, spesso venivano da me per chiedere consiglio. Erano timorose, avevano dubbi. A volte ci lasciamo prendere da certi problemi, non siamo pienamente convinti in noi stessi. E io dicevo: tirate fuori le palle. Eccoci qua, siamo qualificate. Ma è stato tutto merito loro».

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In una vecchia intervista al Corriere, Fiona aveva espresso un concetto importante: «Lo sport è un ambiente in cui tutto è più facile, sia per le donne che per la gente di colore. Nella vita normale è piuttosto difficile». È un valore educativo, ancor prima che etico, che premia gli sforzi, il sacrificio, il lavoro, ed esalta il concetto di pari opportunità. «Se vuoi diventare calciatrice – dice May alle sue ragazze – non mi importa chi sei. Se sei alta, bassa, bianca o nera. Vai! Non farti problemi». Sono insegnamenti che l’ex atleta ha tratto nella sua lunga carriera. «Lo sport – racconta Fiona – insegna tanto, educa a 360 gradi. Non c’è pregiudizio nello sport: non importa di che colore, o di che sesso, sei. Se sei più forte, sei più forte». Una legge che ha imparato in fretta anche sua figlia Larissa, che lo scorso anno si è laureata campionessa italiana cadetti nei 300 ostacoli. Era inevitabile che, con la sua tradizione familiare (il padre, Gianni Iapichino, è stato sei volte campione italiano di salto in alto), anche lei avvertisse il richiamo dell’atletica. «Oggi è forte, ma lo sport le ha insegnato tante cose. In due anni è maturata davvero tanto, e si vede in certi atteggiamenti: lealtà, rispetto per il prossimo, complimenti agli altri se si perde. Lo sport educa in un modo che è difficilmente comprensibile a chi non lo pratica. Ma non le faccio da allenatrice, non sono in grado. Le do dei consigli, e lei mi guarda come un modello. Non arrabbiarti, stai calma, non sprecare energie. Beh, otto volte su dieci mi ascolta».

 

 

Foto di Claudia Ferri