Minuto 14 di Roma-Atalanta: Josip Ilicic, ancora girato di spalle, sente arrivare un pallone recuperato da De Roon nella trequarti di campo dell’Atalanta. Una questione di udito, prima di tutto. Di sensibilità. Una transizione rapida, un pallone non così facile da controllare. Ilicic lo fa con la suola, poi tre passi, uno un po’ più lungo, due brevi, e un’apertura di piatto verso Cornelius. Un bel suono, quello di un giocatore che calcia toccando il terreno, scavando appena sotto la palla. Dal suono puoi capire dove è diretta, con quanta forza è stata colpita, quanto è veloce. Il numero 72 aspetta di trovare il varco, pensa con lungimiranza, perché sa che un passaggio effettuato con un secondo di ritardo avrà ripercussioni sula giocata successiva, e così via. Tutto apparentemente molto facile, come la naturalezza con cui Ilicic va a scegliersi lo spazio migliore per creare le situazioni di superiorità numerica e qualitativa: giri del cuoio precisi, all’interno di una squadra che si muove in maniera sincronizzata. Apparentemente un controsenso l’acquisto di Josip. Giocatore discontinuo, umorale e poco muscolare inserito in un sistema fatto di fisicità e intensità; un allenatore che chiede il massimo sforzo, non solo fisico ma anche mentale ai giocatori. Ma come si poteva migliorare il rendimento di una squadra che l’anno scorso aveva raggiunto un piazzamento in Europa, e che quest’anno avrebbe dovuto affrontare una competizione in più, se non con un cambio di passo? Quella di Gasperini non è stata una scommessa, ma una visione: superare gli avversari con la tecnica e l’intelligenza, oltre che con la forza.
Il vantaggio dell’Atalanta all’Olimpico
Il cambio di passo
A 29 anni Ilicic veniva da una stagione controversa. Per molti la peggiore in Italia, ma c’è un fattore numerico da valutare con attenzione nella disamina della sua ultima annata fiorentina: 6 reti su 92 tiri, 6 pali colpiti. Se non si può tirare in ballo sempre la sfortuna, è altrettanto vero che parlare di «mancanza di determinazione», come fece Paulo Sousa, è piuttosto ingeneroso. Indolente forse, come nella natura di molti fantasisti slavi alle prese con uno sport troppo faticoso per loro. Per uno che preferisce le soluzioni individuali, sforzarsi per il collettivo non era una priorità. Almeno fino all’incontro con Gasperini. Che deve avergli suggerito di cercare meno tiri da fuori e più inserimenti tra le linee. Il vero cambio di passo non è dello sloveno, ma del suo allenatore: se l’anno scorso la licenza di accentrarsi e tenere il pallone per più secondi era un’esclusiva del Papu Gómez, l’Atalanta 2017/18 può permettersi un backup dalla parte opposta del 3-4-3 o l’aggressione degli spazi centrali, grazie anche alla fisicità della prima punta, ora Petagna ora Cornelius, che nello schema di Gasperini hanno un ruolo decisivo. Lui, Ilicic, non sembra avere fretta, ma corre con il pallone attaccato al piede, nonostante i 190 centimetri: sbilancia i difensori con movimenti elusivi, è speculare, rende gli avversari più lenti, più goffi, più inarcati, quasi ipnotizzati davanti a un calciatore così poco contemporaneo. Nella partita di Europa League contro il Lione, lo sloveno parte dalla sua metà campo, dribbla quattro giocatori e apre sulla sinistra verso Gómez. Il tutto senza mai accelerare davvero. Non è un caso che lo sloveno scelga il palcoscenico europeo per le sue giocate migliori. Ci sono partite e partite per Josip. Le migliori in campionato sono quelle contro Juventus, Lazio, Milan e Roma.
Serpentina e gol contro il Crotone
Pendolo lunare
Con una media voto di 7,36 (dato Opta) è il secondo giocatore per rendimento del girone di andata (il primo è Kolarov con 7,73). Dieci gol in questa prima parte di stagione, tra campionato, Europa League e Coppa Italia. Sei assist, una produzione offensiva che assume un valore ancora più alto se si pensa che spesso Ilicic viene schierato a partita in corso; dopo il quarto d’ora del secondo tempo in ben 7 occasioni. Sempre però integrato in un contesto: ci sono giocatori dotati di talento che entrano in campo per risolvere le partite da soli, e poi c’è questo Ilicic. Che entra per sgravare Gómez dalla responsabilità di tenere palla e inventare giocate. Oppure per accentrarsi trasformando lo schieramento in un 3-4-1-2. O addirittura da falso nueve, preferibilmente con Cristante a destra, per trovare le migliori zone di ricezione e dare imprevedibilità a un attacco che non può più permettersi di dipendere solo dall’ispirazione del Papu. Josip è il pendolo lunare di una squadra che cresce, di una Atalanta che molti aspettavano al varco della seconda stagione con gli stessi schemi, gli esterni più prevedibili e qualche giocatore meno motivato. E invece ha stupito andando a vincere nel giro di quattro giorni a Napoli e Roma, con lo sloveno sempre e comunque decisivo. Come nelle partite in casa contro la Juventus e soprattutto contro la Lazio, contro la quale ha segnato il gol più bello della stagione: infilandosi fra i due centrali, rallentando (anziché accelerare) la corsa, tenendo gli occhi sul pallone che arrivava da Gómez e poi coordinandosi con una spaccata per la trasformazione. Tornando per un attimo ad uno dei 6 pali della stagione precedente, quello colpito a poco meno di 20 centimetri dalla porta, viene da pensare che Josip Ilicic potrebbe far sua una citazione di Dennis Bergkamp: «Credo di non essere interessato a segnare gol brutti».
Il gol alla Lazio
Questione di fiducia
Come nel titolo di un libro di Boris Pahor, uno dei più influenti autori sloveni, gli slavi della Mitteleuropa, non sono molto inclini al dialogo, né ai sorrisi. Viene in mente la faccia triste di Handanovic o ancor prima quella di Srecko Katanec, terzino della Doria, uno dei primi a rinunciare alla Nazionale jugoslava; le guance scavate e gli zigomi alti di Ilicic. Archetipi della malinconia, hanno bisogno dell’ambiente giusto per trovare la continuità perduta. «Che farebbe un uomo senza la fiducia?», scrive Pahor nel suo libro. «Senza la fiducia non potremmo averne neppure un’immagine». Ed ecco che l’immagine di Ilicic diventa per i tifosi della Dea un’icona di classe, talento e fantasia. Genio senza sregolatezza, perché quest’ultimo vezzo non è considerato dagli schemi di Gasperini e nemmeno a Bergamo, dove Josip si è integrato benissimo. Dopo Palermo e Firenze, una città che vive la stessa passione ma senza eccedere nelle pressioni e negli sbalzi d’umore. Per uno nato in Croazia, ma ha trovato la sua patria in Slovenia, e che ha girato l’Italia da Sud a Nord è proprio vera quella frase di Stendhal ripresa da Belodedici nella notte in cui fuggì da Bucarest e dal regime di Ceacescu per accasarsi alla Stella Rossa di Belgrado: «La vera patria è quella in cui incontriamo più persone che ci somigliano». Non è dato sapere se Josip abbia trovato gente che gli somiglia, di certo ha trovato la fiducia. Della città, dei compagni, e soprattutto del suo allenatore.
Controllo e botta vincente contro il Verona
Eleganza tra le linee
Cruijff sosteneva che «la creatività non fa a pugni con la disciplina». Nel laboratorio Atalanta questo è un concetto cardine. L’eleganza è uno stile di gioco, nel calcio spesso sinonimo di lentezza, ma anche di controllo di palla, e la dote (rara) di sapere già a chi dare il pallone. Stop, controllo, difesa della palla, passaggio. E testa alta, sì. L’eleganza di Ilicic è altruismo interessato, un servizio che lo sloveno rende a sé stesso e ai compagni. È prendere la palla e non guardarla, ma accompagnarla a destra, sinistra, fermarla, farla ripartire, toccarla tenendo gli occhi dall’altra parte. Ed è questo il grande cambiamento dello sloveno, che in questa stagione ha smesso di amare sé stesso più degli altri. Trasformando l’estetica in un mezzo piuttosto che in un fine. Ilicic è un cannibale di palloni, che vuole tutto per sé e li cerca continuazione. Ad un certo punto della partita tra la Roma e l’Atalanta Adani dice, stupito: «Ilicic sta creando tantissimi problemi alla difesa della Roma, non lo prendono mai». Il tempo di prendergli le misure, e lui è già da un’altra parte. Come nella gara contro la Lazio e quella contro il Milan a San Siro dove Josip si è preso anche la soddisfazione di andare in rete percorrendo interamente la fascia centrale del campo saltando due linee senza nessuno ad inseguirlo. Come se il suo metro e novanta e il suo corpo pesante, divenuto all’improvviso leggiadro, non fosse stato notato dai centrocampisti rossoneri. Come se quel passo felpato fosse e quella corsa incurvata potesse passare inosservata. Salvo sentire il suono. Quello del tocco di palla pulito del giocatore che calcia toccando il terreno, scavando appena sotto la palla.