Salah visto dall’Egitto

Momo è diventato un simbolo in un Egitto sempre più piegato dalla cattiva gestione economica, dal rafforzarsi dell’autocrazia e dai colpi del terrorismo.

Novantaquattresimo minuto di Egitto-Congo alle qualificazioni per i Mondiali, a ottobre. Siamo sull’uno pari. Rigore per l’Egitto. La telecamera stringe sul suo primo piano. Lui, Mohamed Salah, ha la faccia comprensibilmente tesa, sta per battere. La Nazionale egiziana non gioca la Coppa del mondo dal 1990. La telecamera stacca sul pubblico: volti quasi in lacrime, mani tra i capelli, mani giunte. La telecronaca in arabo religiosamente carica tradisce l’ansia del momento. Mohamed Salah è ancora fermo al dischetto. «Bi-smi ‘llāh al-Rahmān al-Rahīm» (Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso – la formula che apre tutte tranne una le sure del Corano). Mohamed Salah segna. Il telecronista piange, singhiozza, urla il nome di Dio: «Allahu Akbar».

Il gol, l’esultanza, l’Egitto ai Mondiali

Al Cairo, i murales con i volti e i simboli della rivoluzione del 2011 sono ormai relegati in un piccolo angolo – quasi un museo – nell’iconica piazza Tahrir. Su qualche parete accanto ai caffè popolari dove si beve the e si guarda il calcio c’è invece il volto di Mo Salah, sorridente nel suo pizzetto. In un Paese che ancora deve riprendersi dai traumi politici degli ultimi sette anni, dove le libertà politiche si sono ristrette tanto quanto si sono allargati i prezzi delle verdure nei mercati cittadini, Salah è una delle poche gioie rimaste: superstar del calcio europeo con la sua consacrazione al Liverpool, da poco miglior calciatore d’Africa, l’uomo che ha riportato l’Egitto ai Mondiali e che si fa corteggiare dal Real Madrid. Il ragazzino che giocava a calcio con una palla di stracci in un campetto pieno di immondizia nel suo villaggio di Gharbiyya, governatorato egiziano tra i più poveri, a Nord del Cairo, è diventato modello, ispirazione, incarnazione dell’Egyptian Dream in un Egitto affaticato socialmente e politicamente, piegato dalla cattiva gestione economica, dal rafforzarsi dell’autocrazia e dai colpi del terrorismo.

La stella di Salah è cresciuta oltre il suo indubbio merito calcistico, dimostrando come il Paese, su cui è calata dopo gli entusiasmi rivoluzionari del 2011 un’atmosfera cupa, abbia un disperato bisogno di storie di successo ed eroi. Incanta la storia che lui stesso ha raccontato al sito del Liverpool di come, per andare ad allenarsi dal villaggio del Delta del Nilo al Cairo, dove giocava per l’ al-Mokawaloon, dovesse fare ogni giorno nove ore di viaggio, cambiando dieci volte minibus. Ridimensiona il concetto di fallimento sapere che il miglior giocatore di tutti i tempi in Egitto non soltanto non abbia mai giocato nelle due più prestigiose squadre del paese, l’Ahly e lo Zamalek del Cairo, ma che lo Zamalek lo abbia persino scartato alle selezioni. Piace l’attaccamento alle origini, la sua generosità raccontata nel dettaglio dai media nazionali: Salah torna regolarmente per il Ramadan – il mese sacro del digiuno islamico – al suo villaggio per offrire pasti ai più poveri, ha finanziato un ospedale, un servizio di ambulanze, una scuola. E avrebbe donato quasi 300 mila euro a un fondo per progetti di sviluppo legato al governo in difficoltà (mossa che gli è costata critiche da chi non sostiene il leader Sisi). Ha versato 40mila euro all’associazione dei calciatori veterani e le loro famiglie. È un musulmano pio, ha una moglie velata, ha chiamato la figlia Makka (Mecca), e si prostra ringraziando Allah ogni volta che segna.

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Ci sono tutti gli ingredienti del role model, il simbolo della speranza per chi arriva dal nulla e guarda avanti ambizioso. Ingredienti che non sono sfuggiti al regime che, come scrive Hamza Hendawi sull’Associated Press, sfrutta il successo del calciatore: «”Il Faraone: gioia del 2017, speranza del 2018” era il titolo dell’inserto di 12 pagine – su un totale di 16 – del giornale al-Watan in edicola il primo giorno dell’anno. Su al-Watan, stampa pro-governativa, quella mattina di gennaio però mancava qualcosa sulla prima pagina: la realtà». Come nel resto della regione, in Egitto cresce infatti il malcontento per i prezzi dei cibo in aumento, la disoccupazione, la cattiva situazione economica e della sicurezza, la repressione politica. Le manifestazioni e i raggruppamenti di folla nelle strade sono vietati. Un’eccezione è stata fatta per i festeggiamenti a ottobre dopo la vittoria contro il Congo e la qualificazione ai Mondiali. Il calcio in Egitto ha ancora addosso l’ombra pesante della violenza politica: nel 2012, in scontri allo stadio di Port Said sono rimaste uccise 74 persone (il numero scelto in onore di quei morti da Salah per la sua maglia ai tempi della Fiorentina).

La stampa più vicina o più lontana dal regime loda l’uomo che porta il meglio dell’Egitto all’estero, lo usa per distogliere lo sguardo della popolazione altrove o per riflettere sui mali del Paese: «Oggi celebriamo Mohamed Salah che ha detto ai bambini di perseguire i propri sogni», scrive sul quotidiano al Masry el-Youm l’editorialista Ahmed al-Sawy, «ma non tutti i talenti devono per forza soffrire quello che lui ha sofferto: occorre un sistema che dopo Salah renda più facile produrre altri Salah».

Egyptian fans cheer for their national team before the FIFA World Cup 2018 qualification football match between Egypt and Uganda at the Borg al-Arab Stadium near Alexandria on September 5, 2017. / AFP PHOTO / KHALED DESOUKI (Photo credit should read KHALED DESOUKI/AFP/Getty Images)

Mahmoud Syiam sullo stesso giornale si emoziona per il suo rimanere uomo comune egiziano, anche se il Liverpool lo ha comprato per 42 milioni di euro: «Nello stadio come fuori è come se stesse camminando nel suo villaggio». Il cantante pop Sherif al-Waseemi gli ha anche dedicato una canzone: “Mo Mo Mo Salah”, un esempio per milioni. E, dimostrazione di come il calcio e la politica spesso si mescolino in Egitto – dove gli ultra delle squadre del Cairo hanno avuto un ruolo nella piazza del 2011 e subiscono regolari arresti – le qualificazioni ai Mondiali hanno creato una nuova polemica. Dopo la partita contro il Congo, i fan egiziani hanno invocato il ritorno in patria per giocare in Nazionale di Mohamed Aboutrika, giocatore per anni stella del calcio egiziano che ha consegnato al Paese tre coppe d’Africa dal 2006 al 2010.

Aboutrika è però in esilio, accusato di sospetti legami con i Fratelli musulmani, il movimento islamista nemico pubblico numero uno del regime di Sisi. Nel 2012, aveva sostenuto pubblicamente la candidatura dell’ex presidente della Fratellanza Mohammed Morsi, rimosso nel 2013. Così, i media pro-governativi hanno tirato in mezzo Mo Salah: «Il giocatore che sta dalla parte del suo paese, non come quell’altro», ha sentenziato uno dei conduttori televisivi vicini al governo, Ahmed Moussa. «È lui l’unica star dell’Egitto». Aboutrika resta però il mentore di Salah: i due sono spesso fotografati assieme in Europa. Mo, o “la quarta piramide”, come lo chiamano alcuni suoi fan, ha appreso da lui la lezione: corre molto, corre a testa bassa vero il suo obiettivo («Voglio essere il migliore egiziano di sempre, per questo lavoro duro») e parla poco. Soprattutto non di politica.

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