In un passaggio particolarmente interessante di un articolo apparso sul Los Angeles Times un po’ di anni fa, in cui Patt Morrison si interroga sul futuro del calcio statunitense, chiedendosi quando e, soprattutto se, si presenterà il giorno in cui un cestista del livello di Kobe Bryant potrà essere considerato il “Donovan della pallacanestro” e non viceversa, come se questo ribaltamento semantico dei poli fosse la cartina al tornasole di una contaminazione culturale andata a buon fine, Landon racconta di quando al Cal Heat, la sua prima squadra, circondato da compagni ispanofoni, soprattutto messicani, sia stato costretto ad imparare lo spagnolo: perché «altrimenti non mi passavano la palla».
Non è stato quindi un problema per Capitan America, il miglior marcatore di sempre nella storia della Mls, condurre in porto un’operazione di captatio benevolentiae tanto ben congegnata quanto fin troppo scontata, lanciando strali alle politiche anti-immigrazione di Trump in perfetto castigliano durante la presentazione-show di settimana scorsa al Nou Camp di Léon, Guanajuato, per accattivarsi ulteriormente le simpatie di una folla osannante accorsa appositamente per celebrare l’evento. «Non condivido nulla di ciò che ha fatto Trump sulle questioni tra Stati Uniti e Messico. Da piccolo ho giocato soprattutto con bambini messicani. Non credo nei muri», ha tuonato tra un tripudio di bandierine messicane e statunitensi distribuite dal club, modulando scientemente la voce e il ritmo del discorso, tanto da sembrare un politico sul palco di un comizio piuttosto che un calciatore al primo contatto conoscitivo con i suoi nuovi tifosi. Landon Donovan ha interrotto il ritiro per la seconda volta, tornando a giocare dopo un anno e mezzo di totale inattività, eppure d’un colpo a Léon è scoppiata, improvvisa e impetuosa ad un tempo, la Landonmania. Dev’essere un qualcosa di ineluttabile, visto che, come ha confessato Richard Motzkin, il suo primo agente, sembra che chiunque abbia a che fare con lui non riesca a sfuggire al suo fascino ammaliante e tentacolare, finendo inevitabilmente per ammirarlo e invidiarlo o, nei casi più gravi, addirittura venerarlo e idolatrarlo, anche quando, per tutta una serie di ragioni, questo ci può sembrare un fenomeno poco naturale e spontaneo.
Donovan vs Messico
Nonostante abbia dichiarato di aver sempre sognato di giocarci un giorno, infatti, quello di Landon con il Messico è stato un rapporto burrascoso e contraddittorio, a voler usare un eufemismo. È vero, ha aperto e chiuso la sua leggendaria epopea con l’Usmnt – di cui con cinquantasette reti all’attivo è il massimo cannoniere storico assieme a Clint Dempsey – nello stesso modo, manco a farlo apposto segnando proprio al Tricolor, ed è stato lui a chiudere i conti nell’ottavo di finale del Mondiale 2002, allungando la maledizione messicana del quinto partido dopo essersi visto minacciare di morte la madre da Luis Hernández, ma soltanto questo non può bastare per diventare una delle personalità statunitensi più odiate in Messico, il nemico pubblico numero uno di un popolo intero, il volto ideale su cui dirottare quella gringofobia identificata come distorsione di un nazionalismo malato dallo storico Andrew Paxman: serve qualcosa di più. Bisogna essere impertinenti al limite dell’irriguardoso e accantonare ogni residuo di politically correct.
In questo senso Landon Donovan non si è fatto mancare nulla, soffiando più volte sul fuoco già parecchio vivace di una rivalità millenaria, la più sentita della Concacaf, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Nel 2004, ad esempio, in ritiro a Guadalajara con la Nazionale Sub-23 le telecamere lo hanno scovato mentre orinava sul prato dello stadio Jalisco prima della semifinale del torneo pre-olimpico nordamericano con vista su Atene: per tutta risposta, durante la partita, azzannata con livore e vinta di prepotenza con un poker a zero dal Messico, dagli spalti dell’impianto tapatío si levò il coro, altrettanto sgradevole, “Osama, Osama”, inneggiante al leader di al-Qaeda responsabile degli attentati alle Torri gemelle di tre anni prima. Un anno più tardi, invece, dopo aver ottenuto il pass per il Mondiale tedesco battendo il Tricolor, è piombato in mix zone e ha atteso con ansia i microfoni delle tv messicane: «Dove sta il Messico?», ha chiesto con un ghigno provocatorio, prima di rincarare la dose:«Siamo i migliori della Concacaf ed è così da molto tempo. Quanto al Messico voglio vederli in ginocchio, umiliati, desidero vederli piangere. Sono insopportabili». Non deve quindi stupire se sia stato quello con il suo nome l’account fake utilizzato per incendiare la sfida del Novembre 2016 e invitare il pubblico dell’Ohio a gridare “Muro” anzichè “Puto” a ogni rinvio del portiere azteco, in un momento assai strategico, con Trump appena eletto alla casa Bianca: qualche giorno più più tardi è stato costretto a intervenire per fare chiarezza in via ufficiale.
La sfida del Mondiale 2002 tra Stati Uniti e Messico
E anche dopo lo sbarco a Léon, c’è chi, nell’inconsueta scelta del venti anziché il solito dieci come numero di maglia, ha malignamente intravisto un eco alla mistica del Dos a Cero, quella costruita attorno a un risultato ricorrente e alla presunta inespugnabilità del fortino scelto dagli yankees per ospitare il Clásico della Concacaf, vale a dire il Mapfre Stadium di Columbus, ma smentita in parte proprio dalla vittoria per 2-1 del Tricolor in quella stessa, famosa gara di un anno e mezzo fa: «Non è uno scherzo. Il vero scherzo è che il Messico parteciperà al Mondiale e noi statunitensi no», ha risposto perentorio Capitan America a precisa domanda, rispedendo al mittente tutte le insinuazioni del caso, anche se la società ha preferito lasciare un velo di mistero sulla vicenda. Di sicuro non la conta giusta ad Antonio “Tota” Carbajal, monumento de los Panzas Verdes e unico portiere assieme a Buffon ad aver disputato cinque Mondiali: «Io sono orgoglioso di aver difeso la porta del Messico e mi infastidisce il fatto che noi messicani siamo così tanto servili da non fregarcene nulla di cosa dicono sul nostro Paese. E poi come è possibile che si ingaggi un calciatore che si è ritirato da un anno e mezzo? Non riesco a capirlo».
Il gringo vecchio
Qualche tempo Donovan ha figurato come testimonial per Ganagol, una sorta di totocalcio in salsa messicana, girando uno spot parecchio simpatico e forse profetico, ma che a suo tempo ha fatto adirare e non poco i messicani. Nella scena madre lo si vede vestito da mojado, con tanto di sombrero e sarape variopinto, venire scoperto da un assonnato agente di guardia mentre sotto il sole calcinante del deserto messicano cerca di attraversare clandestinamente la frontiera più trafficata del Mondo, quella dove «il Terzo Mondo viene a scontrarsi con il Primo e sanguina», come scrive l’autrice chicana Gloria Anzaldua in quel caposaldo della letteratura fronteriza che è Borderlands. La Frontiera. The New Mestiza. Quella pubblicità risale al 2010, due anni dopo gli abboccamenti infruttuosi con il Club America. Evidentemente, nonostante la Liga MX stesse cominciando a diventare un mercato sempre più attraente agli occhi dei calciatori statunitensi, i tempi non erano ancora maturi per un trasferimento del genere, simile per portata evocativa a quello di Cuauhtémoc Blanco ai Chicago Fire, ma al contrario. A dispetto di quello dei suoi connazionali, a partire dai pionieri del genere come il portiere Richard Allan Adams (Santos Laguna) e il difensore Dominic Kinnear (Necaxa), lo sbarco di Landon Donovan in Messico ha una natura diversa e una logica piuttosto facile da intuire.
Per quanto ci possa piacere credere alla storiella del pacificatore di popoli e alla retorica del trait d’union tra due Paesi così vicini eppure separati da millenni di cultura opposta, perché forse una parte di noi ha bisogno di farlo, non c’è molto romanticismo nel ritorno al calcio giocato, per giunta in Messico, di Capitan America, per certi versi simile allo sbarco di Dale Mullholand alla Lokomotiv Mosca, in un’Unione Sovietica prossima al declino: fondamentalmente è una gigantesca operazione di marketing. Da cui ci guadagnano un po’ tutti: il Léon, astuto nel garantirsi una maggiore penetrazione sul mercato americano, dove quello messicano è il campionato più seguito di tutti, e lo stesso Donovan, che percepirà due milioni e mezzo di pesos, circa centrotrentacinquemila dollari al mese, agganciando l’ex Milan Keisuke Honda, ora al Pachuca, in vetta alla classifica dei più ricchi della Liga MX.
Come Ambrose Bierce, lo scrittore la cui scomparsa rappresenta ancora oggi uno dei più grandi enigmi della letteratura a stelle e strisce, tanto da ispirare romanzi come Il gringo vecchio di Carlos Fuentes, anche Landon Donovan ha attraversato il Rio Grande, o Bravo a seconda della sponda da cui lo osservate, ed è entrato in Messico in cerca della fine, stavolta quella vera, definitiva. E lo ha fatto regalandoci un ultimo colpo di scena hollywoodiano, scegliendo Léon, probabilmente il posto più insospettabile di tutti, dove una volta l’hanno sarcasticamente ribattezzato “Landon Nonovan”, utilizzando una sua foto a capo chino per ironizzare con un meme sulla sconfitta degli Usa con il Messico nello spareggio per volare alla Confederations Cup.