Il tesoro Benfica

Come fa il club portoghese a guadagnare così tanto dal mercato, senza rinunciare a essere competitivo.

Uno studio condotto pochi giorni fa dal Financial Times ha rivelato che il Benfica è il club europeo che meglio di tutti sa trarre ricavi dalle cessioni dei propri giocatori. È un modello, quello adottato dai portoghesi da una decina di anni a questa parte, cui seguono in potenza riscontri ambigui: in molti in Europa hanno tentato e tentano tutt’ora di seguirlo, ma quasi nessuno lo fa con la continuità e la qualità organizzativa del Benfica. Sul sito ufficiale del club, a testimonianza di quanto esso stesso abbia interesse nel riconoscersi in questo modello, è comparsa addirittura una sintesi dell’indagine del Financial Times. Per comprendere l’efficacia e al contempo l’unicità della linea dei portoghesi è sufficiente consultare Transfermarkt alla voce spese/entrate sul mercato, dove i club sono classificati per varie categorie. La prima ad esempio è quella riferita ai milioni investiti: si parte dalle centinaia in uscita da Barcellona, Manchester e a seguire tutte le altre, fino allo stesso Benfica, che in questa graduatoria si trova al centoventicinquesimo posto con appena dieci milioni spesi nell’ultimo anno. Ma ciò che emerge davvero è la cifra enorme alla voce saldo: è qui, con un fattore in spiccata controtendenza rispetto ai grandi club europei, che si esprime l’identità del mercato delle Águias.

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Nell’ultima sessione di mercato (quella estiva: difficilmente a quelle latitudini cedono a gennaio) il Benfica ha incassato oltre cento milioni di euro dalle cessioni di Ederson, Lindelöf e Semedo, che sommate a quelle minori hanno contribuito ad introiti pari a circa 130 milioni di euro. E il caso non è isolato, tutt’altro. Nell’estate che seguì l’Europeo francese partirono Renato Sanches, Gonçalo Guedes e Nico Gaitan, per un totale in milioni di poco inferiore a quello del terzetto che li avrebbe succeduti. O ancora, guardando alla sessione estiva del 2015 ci fu la pesca grossa del Valencia (Rodrigo, André Gomes e Joao Cancelo) in unione ai saluti di Cavaleiro: anche in questo caso partirono risorse umane stimate in oltre cento milioni di euro. Percorrendo la strada a ritroso, se volessimo identificare un punto d’origine di quella che oggi è a tutti gli effetti una tradizione in fatto di marketing, dovremmo rifarci alle prime due grandi partenze: quella di Di Maria e quella di David Luiz, entrambe risalenti all’estate del 2009. Da lì in avanti ogni dodici mesi sono partiti da São Domingos almeno due giocatori per cifre considerevoli. Viceversa chi è arrivato lo ha sempre fatto con una duplice modalità: in silenzio e, soprattutto, in anticipo. Sì, perché se da un lato il Benfica ha dato ampia dimostrazione di saper crescere in casa i portoghesi del futuro, da un’altra prospettiva la sua maggiore peculiarità è stata – soprattutto nei primi anni dell’ultimo decennio – quella di accaparrarsi al momento giusto i talenti giusti in giro per il mondo. È il caso degli stessi Di Maria e David Luiz, ma anche di Ramires, Gaitan, Matic, Garay, Witsel; tutti giocatori che anche in seguito hanno goduto di ottima reputazione. Secondo un articolo del 2017 di These Football Times al Benfica risponde la più articolata rete di osservatori dell’intero globo, che ne conta ben 172.

In un sistema tanto produttivo i fattori su cui centrare la focalizzazione sono molti. Uno su tutti: il ruolo del diesse Rui Costa. La sua storia è un tutt’uno con quella del Benfica, ed è anche per questo motivo che il suo lavoro ha goduto da sempre di fiducia incondizionata. Il giorno che seguì la sua ultima gara da professionista, l’11 maggio 2008, a Rui Costa fu infatti assegnata la carica che ancora oggi gli appartiene. La stagione delle Águias si era appena conclusa con un deludente quarto posto, e il club aveva vinto il campionato appena una volta nei quattordici anni precedenti. La rifondazione tecnica chiamava a gran voce, e al nuovo direttore sportivo fu affidato il compito di dettarne la linea. Ed è qui che entrano in gioco i due elementi più importanti della storia recente del club: lo scouting, come accennato sopra, e il centro sportivo, il Caixa Futebol Campus. È dallo sviluppo di queste due direttrici che la storia recente del Benfica è emersa a discapito del Porto e più in generale degli equilibri del campionato portoghese. Per quanto concerne la seconda il club ha avuto la lungimiranza di definire con discreto anticipo il progetto, portato a termine nel 2006 ad inizio autunno. Un video-spot pubblicato recentemente sul sito ufficiale ha messo nero su bianco quelle che furono le prerogative del Caixa Futebol Campus, che da due anni è diretto da Nuno Gomes: «Un top club necessita di un centro sportivo di alto livello», esordisce la voce narrante, che poi prosegue esponendone i contenuti (nove campi in erba regolamentari, tre sale per la fisioterapia, altrettante palestre).

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E poi il Benfica Lab, una struttura assimilabile a quelle che oggi proliferano nei club di Bundesliga (chiedere ad Hoffenheim e Borussia Dortmund) e più in generale in tutti club di caratura internazionale. È soprattutto qui, all’interno di strutture adibite prettamente alla crescita tecnica tramite l’analisi dei dati dei calciatori, che si formano i talenti del futuro. In termini pratici il Benfica Lab costituisce un centro tecnologico specializzato in recupero dagli infortuni, alimentazione e analisi statistica, e rappresenta uno dei più azzeccati inni alla modernità promossi dalla Uefa (è uno dei primi ad aver introdotto il 360S simulator, ad esempio). Lo scopo è naturalmente quello di aumentare il rendimento dei giocatori attraverso sessioni specifiche di lavoro individuale, cui viene dedicato un tempo di poco inferiore alle esercitazioni di squadra. Che sia un caso oppure no, resta il fatto che la netta maggioranza dei giocatori partiti dal Benfica negli ultimi otto anni si è sempre distinta per qualità tecniche superiori alla media. È valso per Ederson negli ultimi mesi, per David Luiz in passato, per i terzini (Fábio Coentrão, Cancelo, Semedo), e così via fino a Di Maria, Matic, Guedes. Dal punto di vista della funzionalità, in relazione alla qualità architettonica, il Caixa Futebol Campus è stato addirittura premiato come academy dell’anno nel 2015, ma c’è ben più della semplice modernità estetica e strumentale nel suo ruolo all’interno del modello del club. In un pezzo pubblicato sul Guardian circa due settimane fa, Alex Clapham ha raccontato la sua esperienza in visita al centro sportivo riportando anche alcuni estratti delle conversazioni con Luís Nascimento, allenatore del Benfica Under 15. Quello che segue è uno dei più significativi: «Guarda Ederson al Manchester City. Quando è arrivato da me era solo un ragazzetto delle favelas, troppo impaurito anche per uscire dalla sua area. Adesso in Premier League è quello che si prende più rischi di tutti. Stesso discorso per Bernardo Silva: lo abbiamo venduto al Monaco e dopo qualche settimana parlava già francese in tv. Sono esempi, ma questo club dà ai ragazzi la possibilità di crescere».

La seconda parte del reportage di Clapham descrive alcune dinamiche del Caixa Futebol Campus che per alcuni tratti sono identiche a quelle dei Centres de Formation francesi, di cui scrivevamo qua lo scorso aprile: l’attenzione rivolta all’istruzione dei ragazzi, la loro educazione all’incontro con uno sconosciuto («quando sono passati i ragazzi dell’Under 15 per l’allenamento mi hanno salutato tutti con un boa tarde», scrive Clapham), e altri piccoli dettagli. Uno particolarmente interessante riguarda il salto di categoria dei giocatori della squadra B: alla fine della scorsa stagione a ben 54 giocatori Under 21 sono stati offerti contratti professionistici, finanziati direttamente da una parte dei ricavi provenienti dalle cessioni. Altra caratteristica è la standardizzazione del sistema di gioco operata dai tecnici a partire dall’Under 13 in poi: seguendo le orme del modello della Masía, da quel preciso salto di categoria tutte le squadre giovanili tendono a schierarsi con il 4-3-3. Una scelta in realtà ambigua, visto che il Benfica di Rui Vitoria ha adottato solo di recente un modulo con tre centrocampisti, ma che quantomeno contribuisce a costruire una solida identità di partenza nel background professionale dei ragazzi.

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A proposito di Rui Vitoria, la sua nomina nel 2015 costringe ad una ulteriore riflessione: tra il 2004 e il 2006, gli anni immediatamente precedenti alla rifondazione tecnica del club, il 48enne di Alverca vestiva i panni di allenatore delle giovanili. Segno che la volontà della dirigenza era – ed è – quella di dare continuità ad un progetto a lungo termine sotto la guida di una figura che conosca e condivida i princìpi del club. È soprattutto attraverso la chiarezza che oggi il Benfica è un meccanismo produttivo che dà risultati al di là delle cessioni programmate: il lavoro di fondo è continuo e consolidato, ci sono certezze e convinzioni radicate alla base del modello. I giocatori in rampa di lancio partono, se pagati quanto richiesto. Quel che conta è che dal Benfica B ne salgano altri, e così via, a scalare. Lo stesso Rui Vitoria in un’intervista rilasciata durante il suo primo anno alla guida della prima squadra disse che «c’è un sistema in atto, abbiamo molte alternative. Il futuro del Benfica è garantito».

La testimonianza della buona riuscita degli investimenti sul settore giovanile è data innanzitutto dai recenti risultati in campo europeo. Da quando è stata istituita la Youth League, infatti, in due occasioni su quattro il Benfica ha raggiunto la finale (subendo altrettante sconfitte: contro il Barcellona nel 2014 e contro il Salisburgo alla fine della scorsa stagione). Da tenere in considerazione in quest’ottica è anche un record registrato negli ultimi due anni: nessun club in Europa è rappresentato dalle Nazionali giovanili quanto lo è il Benfica. E se a questo genere di risultato si affianca una prima squadra che da quattro anni domina ininterrottamente in Portogallo, la panoramica sulla gestione totale non può che costituire un esempio di condotta per chiunque.