Il settimo sigillo

La Juventus è campione d'Italia: temi, protagonisti e prospettive di uno scudetto che riscrive una volta di più la storia del calcio italiano.

Il valore della costruzione

Sette scudetti di fila in Italia sono un’anomalia: il principio dell’alternanza, in Serie A, fino a un decennio fa, sembrava essere inattaccabile. I cicli vincenti, quelli, ci sono sempre stati, ma essere di fronte a una squadra che dal 2012 vince senza sosta lo scudetto significa dover immancabilmente riferirsi a qualcosa di straordinario, forse di irripetibile – basti pensare che una simile striscia di vittorie di campionato consecutive è riuscita solo al Lione, tra i principali cinque tornei europei. Spesso si è spiegato il dominio della Juventus con la mancanza di alternative valide: il che non è vero, o quantomeno lo è solo parzialmente. Negli anni, la Juventus ha rivaleggiato – e vinto – con avversari di sicuro valore: il Milan di Allegri, che aveva ancora un certo Ibra; la Roma di Garcia; il Napoli, in special modo quello di Sarri. Il problema, semmai, non sta nella mancanza delle concorrenti, ma nella loro difficoltà di riuscire a mantenersi in modo duraturo a certi livelli. Ed è questo il merito principale della Juventus: essere riuscita a cambiare, a migliorarsi, ma poco alla volta, senza scossoni.

Quando Conte lasciava Torino, si era preconizzato, con approssimazione, l’epilogo delle vittorie juventine: la bravura di Allegri – che continua tuttora – è stata quella di proseguire sulla strada del predecessore, con tatto e intelligenza plasmandola, nel tempo e col tempo, a proprio piacimento. La Juventus ha così aggiunto un mattoncino alla volta, una vera e propria costruzione che l’ha portata a diventare più forte delle altre per due motivi, essenzialmente: una rosa ampia di valore e la capacità di adattarsi di volta in volta, senza snaturarsi. Il Napoli, a cui va riservato un grande plauso per aver elevato il livello della competizione, è riuscito a lottare spalla a spalla con i bianconeri perché ha intrapreso un simile percorso, quello di insistere su un gruppo, su una filosofia, su un progetto. Una strada su cui la Juventus si è incamminata da più tempo, un vantaggio che l’ha portata a festeggiare, ancora una volta, un traguardo storico. (Francesco Paolo Giordano)

La capacità di fare risultato

Nella stagione passata, la Juventus aveva raggiunto forse il picco di rendimento più elevato per il tipo di rosa a disposizione. Quest’anno ci sono invece stati molti più problemi nel trovare l’assetto più idoneo per le caratteristiche dei giocatori. L’impressione è che in estate si siano sbagliate abbastanza le valutazioni nell’assortimento del centrocampo, seppur in teoria si avesse il vantaggio di partire da un modulo di base. Si è quindi costruito un reparto che, seppur di valore assoluto buono/ottimo, ha peccato di scarsa compatibilità tra gli interpreti. Oltre a non essere stato acquistato un partner in grado di esaltare Pjanic nella mediana a 2, non si sono neanche prese le dovute precauzioni nel caso si fosse poi passati a un centrocampo a 3 (cosa poi avvenuta), nonostante l’arrivo di Matuidi ne lasciasse presagire il suo utilizzo. Ci sono quindi state molte problematiche, tra tutte la difficoltà di superare un pressing ben fatto e di costruire dal basso in modo pulito.

Eppure, nonostante evidenti lacune strutturali in molte fasi di gioco, la Juventus non solo ha vinto, ma lo ha fatto centrando un monte di punti impressionante. Senza mai toccare neanche da lontano il livello dell’anno passato, mai come in questo settimo scudetto si è vista una significativa capacità di vincere che prescinde dall’effettiva coralità e efficienza delle varie fasi di gioco. Anche se i difetti sono rimasti sostanzialmente quasi gli stessi dall’inizio alla fine, i bianconeri hanno mostrato una straordinaria capacità di fare risultato senza brillare, con un gioco forse sparagnino ma che ha ugualmente consentito di raggiungere risultati importanti a un gruppo abbastanza logoro. Molti cruciali successi sono infatti venuti più per l’inerzia che per l’effettiva qualità del gioco, addirittura in gare dove la Juventus, oltre a non creare neanche i presupposti per segnare, non sembrava neanche provare con insistenza a cercare il gol della vittoria (viene in mente Lazio-Juve). Questo scudetto, che può essere quello di fine ciclo per molti giocatori, è forse quello che enfatizza al massimo lo stradominio che i bianconeri esercitano in Italia, proprio perché con una grande forza mentale si è riusciti a vincere contro un Napoli da record nonostante le incongruenze di mercato avessero creato una rosa con molti più squilibri e difetti rispetto alle Juventus precedenti. Di certo, è comunque un’annata che lascia giganteschi segnali sugli interventi che la società deve fare nella prossima sessione di mercato per migliorare la squadra. (Jacopo Azzolini)

Gli uomini chiave

Con l’ eccezione di Douglas Costa, dimostratosi fin troppo fuori scala per la Serie A, numeri alla mano non c’è dubbio che gli uomini decisivi nella conquista del settimo scudetto consecutivo siano stati Pjanic, Dybala e Higuaín: tutti nella top 5 per numero di occasioni create dei bianconeri, ciascuno decisivo in quei momenti della stagione in cui le qualità individuali dei singoli hanno sopperito alle mancanze del collettivo e alle difficoltà nello sviluppo di un’idea di gioco riconosciuta e riconoscibile. Tuttavia proprio queste carenze strutturali hanno finito con l’alterare la percezione dell’effettivo impatto delle loro prestazioni: e se per Pjanic c’è la non trascurabile scusante di essersi dovuto sacrificare come metodista di un inedito centrocampo a tre privo di ulteriori elementi in grado di consolidare il possesso (dettaglio che non gli ha comunque impedito di fornire otto assist e creare una media di due occasioni a partita nonostante una dimensione verticale della giocata meno accentuata rispetto alla scorsa stagione), i due argentini sono quelli che hanno dovuto maggiormente rimodulare le proprie caratteristiche per colmare la mancanza di un’associatività di squadra.

Higuaín in particolare, al netto di un numero di reti nettamente inferiore rispetto al 2016/17 (seppur con un conversion rate stabilmente attorno al 30%), si è dimostrato fondamentale sia quando, in assenza di Dybala, ha dovuto surrogarsi come uomo di raccordo tra i reparti per facilitare la risalita del campo, sia quando, con il ritorno del numero 10, ha accresciuto la sua centralità di regista offensivo all’interno del sistema, dimostrandosi recettivo e pronto nell’assecondare movimenti e inclinazioni del compagno di reparto. Da questo punto di vista avevamo già raccontato di come si potesse parlare del miglior Higuaín di sempre, senza contare che alcune delle reti chiave (a Napoli e Milano sponda Inter) portano la sua firma. Dybala, invece, può essere considerato il simbolo delle divisività derivanti dai giudizi sulla stagione bianconera: non si spiegherebbero, altrimenti, i 22 gol (e in cinque assist e gli 1,6 key passes a partita) accompagnati alla difficoltà di interpretazione del ruolo di  esterno atipico (anche per la mancanza di un esterno difensivo tecnicamente valido con cui dialogare dal suo lato) e alla sensazione di una discontinuità prestazionale figlia di una sostanziale incollocabilità nel tridente offensivo. Eppure il gol alla Lazio, quello che cambia il copione di un intero campionato, è il suo. Così come quelli che hanno regalato alla Juve punti pesantissimi nella prima parte di una stagione che avrebbe potuto altrimenti rivelarsi ancora più complessa. (Claudio Pellecchia)

L’importanza dell’identità

In un’intervista a L’Equipe rilasciata a marzo, Blaise Matuidi si è espresso così: «Per me la Juventus rappresenta la classe assoluta, è una squadra che incute rispetto». La stagione del centrocampista francese è stata perfettamente in linea con questa dichiarazione, che poi è un’esegesi breve della Juventus, della sua storia, dei suoi valori di riferimento. Matuidi è un calciatore di qualità superiore, di grande esperienza internazionale, dal punto di vista tattico è stato fondamentale, ha letteralmente trascinato Allegri verso il centrocampo a tre grazie alla sua completezza, al contributo nelle due fasi – in Serie A conta 3 eventi difensivi per match, più 3 gol, un assist decisivo e 15 passaggi chiave totali. Eppure il tratto più significativo del suo primo anno alla Juventus riguarda il perfetto legame emotivo stabilito con il club, il fatto che sia riuscito a esaltarsi attraverso l’impegno e la disciplina, comprendendo le responsabilità del suo ruolo e le esigenze della squadra. È una sensazione comune anche agli altri giocatori arrivati a Torino nella sessione estiva di calciomercato (Szçzesny, De Sciglio, Höwedes, Bentancur, Douglas Costa, Bernardeschi): tutti, dal primo giorno di ritiro fino all’ultima partita della stagione, hanno manifestato una disponibilità totale verso il progetto bianconero.

Matuidi è un po’ la guida spirituale di questo gruppo, è stato un esempio tecnico e comportamentale, una rappresentazione plastica della miglior risposta possibile alla gestione di Allegri, per gioco ed atteggiamento. Come ha spiegato Jacopo Azzolini in un suo pezzo su Undici, il tecnico livornese segue «la filosofia dell’introduzione graduale dei nuovi giocatori, anche se questi sembrano poter dare qualcosa in più rispetto ai senatori». Alla fine, però, tutti hanno avuto la possibilità di rendersi utili, di esibire le proprie qualità. E tutti hanno mostrato una perfetta aderenza al contesto, interpretando al meglio le richieste tecniche e psicologiche di un allenatore e di un ambiente in simbiosi, sempre pronti ad agire secondo proprietà commutativa: cambiare l’ordine degli addendi, per non cambiare il risultato finale. Il significato più importante del settimo scudetto consecutivo è la continuità nel rinnovamento, è la forza della Juventus di reclutare nuovi campioni in grado di estendere il ciclo vincente, ma anche di comprendere e fare propria l’identità bianconera. La migliore garanzia per il nuovo progetto in via di allestimento, dopo la cessione di Bonucci e il prossimo addio di Buffon. (Alfonso Fasano)

Lo scudetto della transizione

Nel corso di tutta la stagione sono stato sicuro di due cose: che la Juventus avrebbe vinto il settimo scudetto consecutivo, anzitutto; poi che questo scudetto sarebbe stato diverso. Per la prima volta dal lontano 2011 – se si fa eccezione per i primi, sciagurati due mesi della stagione 2015/16 – il dominio bianconero ha realmente vacillato. Da una dimensione quasi metafisica, e quindi irraggiungibile, è diventato più terreno, umano. Uno scenario che sul 2-1 di Inter-Juventus ha trovato la sua massima rappresentazione. Va detto che, paradossalmente, quello appena descritto è un passaggio di stato che nei numeri più significativi non troviamo. Anzi: la Juventus della scorsa stagione verrà superata ai punti da quella di quest’anno, e il distacco dal Napoli sarà probabilmente più ampio rispetto a quello mantenuto sulla Roma un anno fa, di questi tempi. Eppure la percezione comune riguardo la fase discendente del ciclo è chiara, e dalle parti di Vinovo nessuno ha realmente contribuito a smorzarla.

La posizione di Allegri, ad oggi, è semplicemente incerta. È evidente che se il tecnico dei quattro double consecutivi dovesse abdicare chiuderebbe il ciclo all’istante, nella forma come nella sostanza. Ma anche se non dovesse farlo è probabile che assisteremmo ad un’estate turbolenta, perché la sensazione è che la sua Juventus – intesa come rosa, come individualità – abbia probabilmente raggiunto l’apice delle proprie possibilità. Tralasciando il discorso su Buffon, sono tanti i giocatori che nel contesto Juve degli ultimi anni, hanno dato tutto. Da Khedira a Mandzukic, da Marchisio a Cuadrado, passando anche per Barzagli e Chiellini oltre che dal partente Lichtsteiner. Per anni questa Juventus si è contraddistinta per un certo modo di fare calcio e ha ottenuto un certo tipo di risultati: ha vinto tutto in Italia, ma non è riuscita a fare il salto di qualità definitivo fuori dai confini. Per questo è in stallo, e rischierà in entrambi i casi: sia se deciderà di ripartire da Allegri, sia se deciderà di non farlo.

Pensare al futuro costringe a considerare due parole chiave: stimoli e transizione. I primi sono (saranno) il fattore decisivo, quello che determinerà la decisione di e su Allegri. La seconda è un processo necessario che questo scudetto ha messo in moto. Per la prima volta si è percepita la fragilità della Juventus, il subbuglio di gerarchie in grado di mutare nel breve e non più nel medio-lungo termine. Napoli e Roma sono concettualmente più vicine che mai, l’Inter pure. Rispetto ai precedenti, che bene o male ci dicevano sempre la stessa cosa («La Juventus è troppo superiore»), lo scudetto 2017/18 è carico di significato. Ci dice, sintetizzando, che quest’anno la Juve era ancora troppo superiore per non vincere; ma anche e soprattutto che, in base al successo con cui si muoverà in questa transizione, saranno stabilite le gerarchie del futuro prossimo. (Simone Torricini)