Il portiere del futuro

Un'intervista con Alisson Becker, alla prima stagione da titolare, e già tra i migliori interpreti del ruolo al mondo.

C’è una frase che suo padre gli ha ripetuto ogni giorno: Pensa in grande e sarai grande. Alisson mi dice che quella frase lui l’ha interiorizzata e ha continuato a ripetersela nel tempo. Il padre faceva le scarpe. Anzi, più precisamente, faceva la forma delle scarpe. D’altronde Novo Hamburgo, 240mila abitanti nel Rio Grande do Sul, è famosa in Brasile per essere una sorta di capitale delle calzature. Ed è il cuore dell’immigrazione tedesca nel primo Ottocento, come dimostra il cognome di Alisson, Becker.

Dopo una stagione di ambientamento, da secondo di Szczesny, quest’anno Alisson si è preso i pali della Roma e la stima di tutti. A venticinque anni, è indiscutibilmente uno dei migliori portieri in circolazione. Dice che con Spalletti ha imparato, in quella stagione purgatoriale, la pazienza: «È stato un anno di attesa, mi aspettavo di giocare di più ma non ho mollato in nessun momento, mi sono allenato forte. Da Spalletti ho anche imparato a guardare la giocata prima di ricevere il pallone, quindi a giocare meglio con i piedi. Così so già cosa farò». Oggi sulla panchina giallorossa siede un tecnico con cui evidentemente c’è una corrispondenza maggiore, basata sulla determinazione verso il successo: «Di Francesco è un uomo intelligente e ha molta voglia di vincere, come me. È una virtù che mi piace, sono contento che il nostro capo sia quello che vuole vincere più di tutti». Si avvicina al Mondiale con il conforto di ottimi numeri da titolare della Nazionale brasiliana: 22 partite, 1 sola sconfitta e 13 clean sheet. Gli chiedo se l’avrebbe mai sognato, di essere il numero uno della Seleção in una Coppa del Mondo. «Non lo immaginavo ma l’ho sognato sempre, grazie a quella frase di mio padre». Pensa in grande e sarai grande.

A Novo Hamburgo è nato il 2 ottobre 1992. Secondo lui il secondo nome, Ramsés, il padre l’aveva sentito in televisione. Doveva addirittura essere il primo, ma la madre si oppose, anche se il padre sottolineava che fosse il nome di un faraone, e su questo ha poi insistito a lungo con il figlio. Insisteva pure a parlargli di Zico, come il nonno insisteva a parlargli di Pelé.

A Novo Hamburgo è nato anche Maicon, che però da lì se n’è andato presto e Alisson l’ha conosciuto solo a Roma. Quando arrivò la proposta dei giallorossi, Alisson chiese piuttosto consiglio a Cafu e a un amico di Emerson. Entrambi lo rassicurarono. Lasciare il Brasile per l’Europa era un passaggio delicato, non poteva sbagliare mossa. A tredici anni entra nel settore giovanile dell’Internacional. È la squadra dove nacque la stella di Paulo Roberto Falcão, che per Alisson peraltro ha speso parole di stima. Lascia così Novo Hamburgo e si sposta di cinquanta chilometri, a Porto Alegre. «Ho dovuto imparare a farmi da mangiare, a fare tutto, e insomma sono maturato prima degli altri. Soprattutto, sono dovuto diventare più attento, più sveglio, perché ero piccolo ed ero da solo».

Qualche tempo dopo, per un anno, un anno e mezzo, la sua famiglia attraversa un momento complicatissimo. Con la crisi delle esportazioni, la produzione di calzature a Novo Hamburgo è entrata in una tempesta. Il padre perde il lavoro che ha fatto per tutta la vita. Nello stesso periodo la madre, che è impiegata nel settore amministrativo, ha un problema di salute. Ci sono pochi soldi, c’è poco lavoro in giro e diventa fondamentale il primo stipendio all’Internacional di Alisson, che ha sedici anni. «Eppure la famiglia è rimasta unita, non mi ha fatto sentire la mancanza di nulla».

Il fratello maggiore si chiama Muriel ed è un punto di riferimento essenziale. Ha cinque anni in più e anche lui si è formato nell’Internacional. Anche lui come portiere. Oggi gioca nel campionato portoghese, titolare del Belenenses. Ma per parecchi mesi, con i Rossi di Porto Alegre, è stato il vice del suo fratello minore. Prima era stato Alisson dietro, nelle gerarchie: quarto portiere lui, titolare Muriel. «Non avrei mai pensato di superarlo», mi dice. Da bambini dividevano un letto a castello, Muriel sopra, lui sotto, in un appartamento molto piccolo. Alisson benedice la distanza d’età, per aver smussato la competizione e aver lasciato solo quella sana, naturale, che c’è tra fratelli. «Muriel mi ha fatto anche un po’ da papà. Abbiamo un rapporto non normale, migliore di quello che hanno di solito i fratelli». E ora che gioca in Portogallo, lui è contento: «Siamo solo a due ore e cinquanta di volo», sorride.

Alisson è il genere di uomo molto alto, 193 centimetri, che non ti fa pesare la sua imponenza. Non solo durante l’intervista, che facciamo seduti, ma anche quando ci presentiamo di fronte a una parete costellata di foto dei giocatori del passato della Roma. Prima dei quindici anni, mi spiega che era «cicciottello e basso» rispetto ai coetanei. Un problema di crescita: «Secondo uno studio, la mia maturazione era al livello 1 su 5». Per questo giocava poco e ne soffriva. Tecnicamente era già dotato, come sottolineava tempo fa un suo tecnico all’Internacional, Daniel Pavan, ma quella bravura poteva non essere sufficiente. Pensò di tornare a concentrarsi solo sugli studi, lui che già studiava di notte per conciliare i due piani. Poi in un anno, di colpo, prese 17 centimetri d’altezza. E iniziò a giocare con regolarità. «Non sapevo cosa aspettarmi dalla vita ma ero tranquillo».

«La pressione interna, mia, viene prima e mi pesa più di quella esterna, che in passato soffrivo un po’»Il portiere non è un ruolo come un altro. La solitudine, l’uso delle mani, la responsabilità più evidente in confronto agli altri. Quando gli chiedo dell’ingratitudine di questo mestiere del calcio, Alisson dice: «È un ruolo che attrae quelli bravi», poi fa un gesto con la mano per dire che scherza. Secondo lui il gol è il momento più bello del calcio, una specie di calamita per l’immaginazione dei ragazzini. «Tutti vogliono fare gol, anche a me ogni tanto viene voglia di fare gol». Il suo ruolo però non gli sembra così poco attraente. Mi spiega che Perotti gli manda le foto di suo figlio, per esempio, tutto fiero con i guanti che Alisson gli ha regalato. Non nasconde comunque l’atipicità del numero uno. E non a caso ama altre attività legate all’isolamento: il tennis, la pesca. Uno dei suoi libri preferiti è l’autobiografia di Guga Kuerten. Perché un portiere è come un tennista, ha teorizzato una volta: sono entrambi uomini soli.

Pensa in grande e sarai grande. L’ambizione di Alisson si vede anche nel gioco. I suoi interventi sono spesso quasi impercettibili, con la punta delle dita: capaci di cambiare la direzione del pallone di qualche grado, che apparentemente è un cambiamento minimo e invece risulta decisivo. Lo chiamano O Goleiro Gato. Eppure non è il tipo di portiere solo riflessi e sveltezza: ha anche una grande solidità, è capace di stoppare conclusioni potenti senza bisogno dei due tempi. La sua completezza può essere figlia dell’incontro fra due culture. Tempo fa spiegava infatti che in Brasile si lavora più sulla forza e l’esplosività, in Italia più sulla tecnica e la posizione.

E poi Alisson ha piedi davvero buoni. È una delle sue caratteristiche più spiccate ed è significativo che la condivida con il suo secondo in Nazionale, Ederson. Quando gli chiedo perché il calcio moderno chieda anche questo a un portiere, si adagia allo schienale della poltrona: «Semplice: significa avere un giocatore in più, diventa un valore aggiunto. Può rischiare un passaggio più difficile tra le linee, che apre la squadra avversaria. Ma un portiere per essere moderno deve avere anche personalità, posizionamento, concentrazione e soprattutto deve saper leggere in anticipo». La lettura in anticipo significa anche sottovalutare i propri compagni, secondo Alisson: «Da portiere devo pensare che il mio compagno sbaglierà, per stare sempre pronto e non restare sorpreso».

In molti l’hanno paragonato a Dino Zoff, di cui lui ha solo sentito dire. Piuttosto, guarda a Buffon e Neuer. E comunque non ha veri e propri idoli, mi dice: «Cerco di prendere le caratteristiche di più portieri e adattarle a me». Se deve indicare un nome però sceglie Taffarel, che iniziò proprio con l’Internacional e oggi è il suo preparatore in Nazionale. Per Alisson è un riferimento come persona più ancora che come giocatore.

Ogni tanto va a vedere su internet qualche compilation che gli hanno dedicato, e ci scopre dentro degli interventi che neanche ricorda d’aver fatto. Perché alla fine, mi dice, «tutte le parate sono importanti». Ma ce n’è una che considera decisiva, che ha segnato la sua carriera. È il 12 ottobre 2014, l’Internacional affronta il Fluminense. Per la prima volta il tecnico Abel sceglie come titolare Alisson, che ha appena compiuto ventidue anni e deve conquistare la sua fiducia. Fred stacca di testa, colpisce forte il pallone, lui ci arriva e lo spinge via. I Rossi vincono la partita, Alisson rimane il titolare. La parata l’ho trovata, in una di quelle compilation. Subito dopo il gesto, si vede questo giovane portiere guardare un punto nel vuoto, e forse sono suggestionato ma pare che stia incontrando la consapevolezza del suo potenziale.

«Da portiere devo pensare che il mio compagno sbaglierà, per stare sempre pronto e non restare sorpreso»Sente la responsabilità di offrire emozioni, come faceva Ayrton Senna. Sente di dover «regalare allegria» alle persone, ha detto una volta. Tutto questo ha a che fare con l’ambizione, certo, la frase di suo padre. Ma ancora di più con le aspettative. «Io so di non essere perfetto», mi dice. «Per questo a volte lavoro anche troppo, mi rimprovero molto. La pressione interna, mia, viene prima e mi pesa più di quella esterna, che in passato soffrivo un po’. Ora da quella mi sento pronto a difendermi, mi sento pronto a gestire le mie emozioni, la responsabilità. So che posso reggere grazie all’esperienza di questi anni e grazie al lavoro».

Il lavoro ritorna di continuo nelle sue parole. Cigola come il cardine di una porta che Alisson apre per raccontarsi. «Non c’è un’altra strada rispetto al lavoro». Studia il contesto dove trasferirsi dal Brasile: «Mi sono informato bene sulla città, sulla squadra. Cerco di sapere dove mi metto, prima di muovermi». Analizza le difficoltà che può trovarsi a fronteggiare in campo: «Guardo le partite degli avversari e le loro caratteristiche, prima di affrontarli». Più di tutto, però, il lavoro è su di sé: «Il giorno della partita mi concentro sulla mia prestazione. Guardo i video, le parate che ho fatto e perché le ho fatte così. Punto molto sulla concentrazione. Nello spogliatoio, poi, immagino la partita che sarà».

Se non avesse fatto il calciatore, dice che avrebbe fatto la carriera militare: «Perché mi piace la disciplina, mi piace la responsabilità. Non per la guerra». No, in effetti la guerra sembra lontanissima dal suo modo di intendere la vita. Emerge bene quando parliamo di fede. È un elemento che ritiene fondamentale nella sua esistenza, gli piace leggere la Bibbia, allora gli chiedo cosa cerca nella vita di Gesù e nella religione. Lui mi corregge: «Non è tanto la religione. Io amo molto Dio e Gesù, ho un rapporto diretto con la Bibbia e cerco di portare quelle parole nel mio cuore. L’amore di cui si parla lì dentro, io lo porto in campo. E anche fuori: perché la mia vita non è solo il calcio, e cerco di fare tutto con amore».

Nel 2013 era il titolare del Brasile Under 20 che vinceva il prestigioso torneo di Tolone, quando non aveva ancora giocato una sola gara ufficiale con il club. E aveva raccolto appena 48 presenze nell’ottobre 2015, quando il Ct Dunga gli affidò i guanti della Nazionale maggiore. Dunga l’aveva già allenato per un breve periodo all’Internacional, e già allora l’aveva fatto giocare nonostante la concorrenza e la giovane età. Verso di lui Alisson ha la gratitudine «di avermi insegnato a non abbassare la testa nei momenti difficili», oltre all’ammirazione «per la personalità, la leadership».

La personalità Alisson la trasmette ai compagni durante la partita, non solo con i suoi interventi ma anche parlando con la linea difensiva a palla lontana, mi spiega, nei momenti morti in cui non è impegnato. L’importante è tenere su la concentrazione, e questo lo aiuta tanto quanto essere coinvolto direttamente.

«Fin dalla prima partita con la Nazionale mi sono messo in testa di diventare uno dei portieri più grandi del Brasile»La Nazionale gli ha dato una fiducia assoluta prima di quando gliela dessero i club. Una rarità che irrobustisce la responsabilità che sente nei confronti, dice, «di duecento milioni di persone, di tutto il mio Paese». Russia 2018 sta arrivando. Con il Brasile tra i favoriti, secondo Alisson, insieme a Spagna, Inghilterra, Germania e Francia. Mi spiega che il Mondiale e il numero uno della Seleção, lui, li ha messi nel mirino «da quando ho cominciato a giocare con la Nazionale, fin dalla prima partita. È da allora che mi sono messo in testa di diventare uno dei portieri più grandi della Nazionale brasiliana».

Russia 2018 sta arrivando e lui ci pensa di continuo. Sa che il lavoro e i miglioramenti con la Roma se li porterà dietro quest’estate. Ci pensa di continuo: «Io vivo già il Mondiale». Una volta, parlando del Ct Tite, ne ha evidenziato la capacità empatica di saper stare vicino a ogni individuo e capire i suoi sentimenti e i suoi bisogni. A me aggiunge che gli ha mostrato una nuova prospettiva sul calcio, gli ha insegnato a guardarlo con intelligenza. E inclinando la testa dice: «Tite mette molto amore, si preoccupa dell’essere umano».

Gli chiedo cosa non gli piaccia del mondo del calcio. Lui si prende del tempo prima di parlare. Poi dice: «I sentimenti brutti. La suscettibilità, l’orgoglio, il razzismo, il pensiero che se sei un calciatore puoi fare qualsiasi cosa. Questo non mi piace. Ma faccio fatica a risponderti, perché cerco sempre di ragionare sulle cose belle».

 

Intervista originariamente pubblicata sul numero 20 di Undici
Tutte le fotografie sono di Ilaria Magliocchetti Lombi