Non è vero che alla fine vince sempre la Germania

I quattro motivi della storica eliminazione dei tedeschi al primo turno.

L’arroganza dei campioni in carica

Non stessimo parlando della Germania, del Mondiale, e di quella combinazione così straordinariamente vincente nella storia, potremmo pensare che non era presumibile andasse altrimenti. Tutti, nel quartier generale tedesco, sono d’accordo: è giusto che sia andata così. Manuel Neuer è stato durissimo: «Ci è mancato l’impegno. Anche se fossimo passati, ci avrebbero eliminati in un turno successivo. Meritiamo di essere fuori, non abbiamo convinto in nessuna partita. È stato patetico, non è stata la Germania che tutti conosciamo». Löw non è stato da meno: «Non meritavamo di diventare campioni del mondo, non meritavamo nemmeno di passare il turno». Trovando poi la radice dei mali di questo terribile cammino in Russia: «Abbiamo giocato con arroganza, credendo che bastasse poco per cambiare rotta dopo le brutte amichevoli». Già, perché nelle gare di preparazione al Mondiale la Germania non aveva fatto un figurone – una sola vittoria, striminzita, contro l’Arabia Saudita, e poi sconfitte contro Austria e Brasile – e una volta in Russia il trend non è affatto cambiato. I calciatori tedeschi hanno giocato come se la vittoria fosse un diritto inalienabile, come se, per forza di cose, per semplice inerzia, il risultato li avrebbe premiati. Particolarmente inspiegabile l’atteggiamento nella partita contro la Corea del Sud, forse la peggiore delle tre gare disputate: le difficoltà contro Messico e Svezia avrebbero dovuto consigliare la Germania, e invece si è vista una volta di più una squadra più preoccupata di giocare bene e organizzare azioni da tramandare su Youtube che di impegnarsi a passare il turno. Forse dietro c’era un disegno estetico, quello che The Ringer ha sintetizzato scrivendo che la Germania si è comportata come una squadra di club: «Possesso prolungato e pressing: i migliori club al mondo giocano così, ma sono cose che richiedono un’incredibile quantità di pratica e armonia di squadra». Ma dov’era la determinazione, dove la sana frenesia di vincere? Quella tedesca è una grande architettura rimasta solo su carta, impossibile da realizzare.

L’incoerenza di Werner

I problemi di una squadra non si possono mai ricollegare a un singolo reparto, ma se l’attacco non segna allora sono guai. Era una sorta di segreto di Pulcinella che tutti sapevano e che ieri, nell’agonia trasformatasi in sconfitta nei minuti di recupero contro la Corea del Sud, è diventato lampante. Troppo tardi, però. La Germania è arrivata al Mondiale di Russia con un attacco non all’altezza, sia a leggere i numeri della stagione di Timo Werner e Mario Gómez (13 gol in Bundesliga per il primo, 8 per il secondo) che ad analizzare i possibili scenari tattici dei match del torneo. Sempre The Ringer ha scritto che «con il senno di poi, [la scelta di Werner] è stata uno strano adattamento stilistico, visto che la sua squadra di club (il Lipsia, ndr) di solito gioca in contropiede e l’anno scorso ha avuto in media solo il 54% di possesso palla. Raramente si è trovato a giocare contro così tanti difensori nell’area avversaria». La squadra di Löw ha chiuso le tre partite del girone con cifre di gran lunga superiori (66% di possesso contro il Messico, 76% contro la Svezia e 74% contro la Corea del Sud) e, in sostanza, ha tenuto la palla a lungo, creando poche azioni pericolose e concretizzandone ancora meno, se si pensa che Werner e compagni non hanno realizzato neanche un tiro con un valore di expected goal superiore a 0,5. Draxler è andato a fasi alterne, Goretzka e Reus hanno inciso poco, Özil porta la croce della delusione più grande del torneo tedesco. È la fine di un movimento? È sicuramente un buco generazionale lasciato dal ritiro di Miroslav Klose (sempre titolare al Mondiale 2014 dai quarti di finale in poi) che il ct ha provato a tappare a Euro 2016 – alternando Gómez, Müller e Götze nelle sei partite disputate in Francia – ma che si è riaperto tra la scarsa affidabilità dell’ex Fiorentina, il calo di rendimento dell’attaccante del Bayern Monaco (mai in doppia cifra in campionato nelle ultime due stagioni, non succedeva dal 2012) e gli infiniti infortuni del match winner della finale contro l’Argentina.

La paura del cambiamento

Un’ovvietà ci racconta che il cambiamento ci spaventa e sembra spaventare molto anche Joachim Löw. La Germania è cambiata poco rispetto al 2014: c’entra una certa riverenza nei confronti di chi ha portato in alto la Nazionale, ma anche la paura di affidarsi a una pletora di giovani che aveva brillato durante l’ultima Confederations Cup su cui però aleggia qualche dubbio. Toni Kroos, Sami Khedira, Thomas Müller, Mesut Özil, Mario Gómez, Manuel Neuer e Jérôme Boateng facevano tutti parte della spedizione sudafricana del 2010, c’erano anche nel 2014 e continuano a essere la spina dorsale di questa Germania: il tutto con una decisa spaccatura tra senatori e supporting cast in termini di preparazione e affidabilità in campo internazionale. Gli ultimi quattro anni sono stati avari di novità, il tecnico tedesco ha faticato a inserire forze fresche nella rosa dei partenti, se non un Werner apparso poco prolifico. Vecchio e nuovo sembrano essersi scontrati nella Germania di oggi, con una spaccatura evidente – almeno in termini di età – tra vecchi campioni e giovani rampolli. È così che la Germania viene eliminata al primo turno della Coppa del mondo per la prima volta in 80 anni: non era mai successo dalla partita con la Svizzera del 1938. Così come non era mai successo in 32 anni che non riuscisse a vincere due partite della fase a gironi. Sir Alex Ferguson era convinto che il ciclo di ogni squadra durasse intorno ai quattro anni, dopodiché il cambiamento diventava una misura necessaria. E invece la Germania non ha cambiato, si è aggrappata ai propri uomini di esperienza che tra club e Nazionale sono arrivati stanchi e usurati al momento topico della stagione. Allora andrebbe rivalutata l’idea di cambiamento, anche se i vari Brandt, Goretzka Rüdiger, Rudy o Werner non danno certezze nell’immediato, perché a vivere nel passato si rischia di rimanere ancorati nel torbido e questa eliminazione sembra esserne il miglior esempio.

Le scelte di Löw a centrocampo

Un altro dei problemi della Germania è stato il centrocampo. Dopo la prima partita contro il Messico in cui Kroos era stato bloccato e le linee di rifornimento per il numero 8 venivano inaridite, sarebbe servito sempre di più un compagno di reparto che fosse capace di unire qualità nel palleggio e attenzione alla fase difensiva. Khedira è apparso ormai superato, con gli anni che non giocano a suo favore e un modo di stare in campo un po’ indolente che si sposa male con la fisicità e la rapidità di esecuzione e movimento richiesta in questi tempi calcistici. Löw ha provato al suo posto sia Rudy che Gündogan senza che nessuno dei due lo convincesse a pieno, tornando al vecchio, che non stanca apparentemente mai, nell’ultima partita contro la Corea. La volontà era quella di attraversare il campo con il possesso e riaggredire immediatamente l’avversario, eppure si è vista una Corea ordinata e compatta, che ha aspettato il momento giusto per ripartire, consapevole di trovare una squadra scoperta e senza uomini a supportare le transizioni difensive con i due centrali costantemente in balia degli eventi. Questo aspetto è figlio di un tentativo maldestro di giocare un calcio offensivo in cui non è stato casuale vedere fino a quattro uomini in linea sopra il portatore di palla, addirittura al limite dell’area di rigore per provare a saturare gli spazi e occupare ogni anfratto della trequarti avversaria. Con i terzini propositivi ma spesso con le spalle scoperte. La Germania ha costantemente dominato il possesso, ma ieri più che mai si è vista la mancanza di un giocatore di strappi e ripartenze come Sané. Pare assurdo, a posteriori, che non abbia trovato spazio un giocatore da 10 gol e 15 assist nella vittoriosa campagna del City e che avrebbe avuto la colpa di sposarsi male con la struttura offensiva tedesca.