I due meravigliosi gol segnati nella partita inaugurale del Mondiale, probabilmente, daranno a Denis Cheryshev l’occasione di cambiare in extremis le sorti di una carriera sfortunata, vissuta ritagliandosi piccoli spazi di grande calcio nel buio di tanti problemi fisici. L’improvvisa deflagrazione del suo talento, sotto gli occhi del mondo intero, è avvenuta nella maniera più estemporanea possibile: a quasi ventotto anni, subentrando all’infortunato Alan Dzagoev, Cheryshev si è trasformato dal primo cambio del reparto offensivo di Cherchesov e reduce da una stagione da dodicesimo uomo anche al Villarreal, al giocatore più interessante della Nazionale ospitante. I Mondiali, per loro natura, sembrano avvenire in un vuoto che amplifica ogni movimento e ogni giocata, non solo facendoci innamorare di alcuni nuovi giocatori, ma ricordandoci anche perché abbiamo perso la testa per altri. Dopo la Coppa del mondo 2014 e l’Europeo 2016, saltati per infortunio, Denis Cheryshev potrebbe svoltare il proprio cammino, come tutti tutti i giocatori venuti in Russia per ritrovarsi.
Aleksandar Mitrović, ad esempio, ha ventiquattro anni e la sua crescita, dopo una forte iniezione di hype nei mesi tra l’esplosione al Partizan e l’impatto con l’estero all’Anderlecht, non è proseguita in modo costante. A inizio 2018, per timore di vedersi sostituire nel ruolo di centravanti della Serbia, ha accettato di scendere nuovamente in Championship, al Fulham, dove ha segnato 12 reti in 17 partite. Un passo indietro necessario, per cucire definitivamente il proprio nome sulla maglia delle Aquile Bianche in vista del Mondiale. Il suo stile di gioco ruvido con gli avversari, macchinoso nei movimenti e monumentale sulle palle alte lo aveva reso un attaccante di culto nel giro di poco tempo: una versione serba ed estremamente acerba di Diego Costa, il suo punto di riferimento dichiarato. In Serbia e in Belgio mantenne la buona media di un gol ogni due partite, segnando anche in Champions League contro Borussia Dortmund e Arsenal, ma al momento di fare il salto in Premier League, il feeling con il gol sembrò svanire nella nebbia di Newcastle, lasciandolo alle prese con un rendimento complessivamente insufficiente per giustificare le sue frequenti intemperanze in campo.
Nel giro di due stagioni e mezzo non si adattò al campionato, perse il posto da titolare anche in Championship e rimase vittima di un infortunio alla schiena. In queste due settimane russe Mitrović, pur senza enormi risultati, ha fatto tutto il possibile per emergere e riempire il vuoto dei suoi ultimi anni di calcio inglese: con 13 conclusioni è il giocatore ad tirato di più nella fase a gironi del Mondiale e il terzo per contrasti aerei vinti (21, a pari merito con Dzyuba e Azmoun). Il lato oscuro di questo lavoro sporco emerge sotto porta, dove spesso arriva poco lucido, come testimoniano le statistiche: dei suoi 21 tiri, 7 sono finiti fuori dallo specchio (record), ed è il terzo centravanti del torneo per occasioni da rete sbagliate, dopo Batshuayi e Suárez, alla pari con Berg. Il bellissimo gol di testa contro la Svizzera è un’istantanea esplicativa del suo Mondiale, ma solo in parte: se qualcuno deciderà di scommettere su Aleksandar Mitrović, non lo farà su un cannoniere devastante, ma su un giocatore che, pur garantendo un discreto bottino di reti, punterà a incidere a sfruttando la fisicità, i chilometri percorsi, le doti aeree e lo spirito di sacrificio. Un giocatore generoso, combattivo e, nelle giuste mani, molto utile.
Il Mondiale spartiacque della carriera di Juan Fernando Quintero, invece, sarebbe dovuto essere quello di quattro anni fa. Il gol segnato a Brazilia contro la Costa d’Avorio, a ventun anni, sembrò una consacrazione degna del suo talento: José Pekerman lo aveva tenuto in gran considerazione durante le qualificazioni, mentre il Porto, che lo aveva già acquistato un anno prima, riteneva il suo piede sinistro quello dell’erede di James Rodríguez, appena volato al Monaco. Contrariamente alle aspettative, la sua permanenza europea fu del tutto incolore, sia in Portogallo che al Rennes, e all’età di ventiquattro anni, il talento più limpido del calcio colombiano dopo James fu costretto a ripensarsi: prese la drastica decisione di tornare in Colombia, all’Independiente Medellín, ricominciando immediatamente a dominare con 13 gol in 25 partite. La sua rinascita stava avvenendo passo dopo passo, attraverso un graduale recupero della fiducia. Lo step successivo fu il trasferimento al River Plate, dove arrivò completamente ripulito dalle scorie emotive della difficile tappa in Europa. Con la maglia della Banda, continuava a imporsi come un fattore, e la Coppa del mondo si avvicinava sempre più: il resto della fiducia arrivò da Pekerman, che tra lui ed Edwin Cardona, per il ruolo di riserva di James al Mondiale, scelse proprio Juanfer.
Se in questa fase a gironi i problemi fisici del 10 sono stati una croce meno pesante da portare per la Colombia, gran parte del merito è di Quintero, che ha saputo diventare il cuore creativo della squadra con enorme disinvoltura: contro il Giappone, oltre a un gol su punizione che ha chiuso un cerchio dopo quattro anni di disavventure, è stato l’unica fonte di luce in verticale in una situazione critica. Contro la Polonia, invece, Pekerman lo ha schierato insieme a James e Cuadrado sulle linea dei trequartisti, e ha ottenuto un dominio assoluto. La Colombia del doble enganche, probabilmente, ha mostrato la prestazione di squadra più propositiva ed entusiasmante vista finora in Russia. Anche contro il Senegal, senza James, Juanfer è andato vicino a sbloccare una partita molto chiusa su punizione: ormai Quintero è una chiave della Colombia formato Mondiale.
Anche Xherdan Shaqiri è arrivato in Russia consapevole di trovarsi a un bivio della propria carriera: la retrocessione con lo Stoke City è stata la conferma del campo alla sua sensazione, mai celata negli ultimi mesi, di aver sbagliato squadra per l’ennesima volta. A quasi ventisette anni, sta per cambiare nuovamente maglia e una Coppa del mondo da leader tecnico della Nati è una grande occasione per mettersi in evidenza, sempre se un giocatore costantemente presente nei campionati più importanti d’Europa ne abbia bisogno. Ciò di cui sicuramente Shaqiri necessita è trovare un contesto che gli consenta di normalizzare la sua carriera in relazione al talento che possiede: azzeccare la scelta della prossima squadra, dopo le deludenti parentesi all’Inter e ai Potters, sarà determinante per vederlo finalmente esprimersi al massimo delle sue possibilità. «Neanche Ronaldinho avrebbe potuto fare molto, in una squadra così povera di talento», aveva affermato pochi mesi fa, chiarendo in maniera brutale di non poter rendere, se abbandonato a se stesso.
Allo Stoke City ha chiuso la stagione da miglior marcatore di squadra, con otto reti segnate, e miglior uomo assist, con sette passaggi decisivi: di quegli otto gol, ben cinque sono arrivati su tiri da fuori area. Shaqiri, con il passare degli anni, è diventato un giocatore sempre più accentratore: il suo compito nel sistema è quello di non dipendere dal sistema, di ricevere più palloni possibili e incidere con le proprie doti in progressione, nel tiro dalla distanza e nella rifinitura. Anche nelle tre uscite della Svizzera, si è trovato a fare i conti con il ruolo di protagonista offensivo di una squadra molto attenta difensivamente: contro la Serbia ha nuovamente mostrato i suoi pezzi di bravura, inventando un gran tiro a giro dal nulla, prima di decidere la partita in contropiede. Agli ottavi di finale la Svizzera incontrerà la Svezia, la squadra più speculativa del Mondiale, e Shaqiri potrà finalmente giocare una partita sulle proprie corde, da trascinatore di una squadra audace. Una partita che, forse, sarà la più importante della sua vita.