E anche, forse, la percezione che gli inglesi hanno di loro stessi. In campo, e fuori dal campo.
In un discorso del 2013, dopo un Europeo non fortunato sotto la gestione Hodgson, il presidente della Football Association Greg Dyke fissò un obiettivo per la Nazionale inglese: vincere il Mondiale in Qatar nel 2022. L’Inghilterra, nel 2012, era una squadra vecchia e a fine ciclo, anzi, addirittura priva di alcuni tra i migliori interpreti di un ciclo che poteva essere e non fu mai, quello di Terry, Lampard e Gerrard, e dopo un girone vinto in maniera sorprendente – ma contro una Francia altrettanto disastrata, che riusciva a schierare Menéz titolare – si fermò contro l’Italia ai rigori.
Era improbabile, all’epoca, ipotizzare un ricambio generazionale in tempo per il Mondiale brasiliano, e così Dyke fissò l’obiettivo il più lontano possibile nel tempo. Da quel discorso nacque un orologio vero e proprio programmato con un conto alla rovescia verso il 2022, che fu installato a St. George’s Park, il centro di allenamento dell’Inghilterra nella campagna fuori Birmingham. Poi, nel 2016, i vertici della Football Association cambiarono, Greg Clarke prese il posto di Greg Dyke, e senza troppe cerimonie bollò l’idea dell’orologio come una cretinata, simpatica, ma pur sempre cretinata. Cercò di essere più pragmatico, sapendo, probabilmente, che non è idea saggia soffiare sul fuoco di un entusiasmo – quello degli inglesi e della vittoria mondiale – che ha i tratti del millenarismo. «Non voglio dire che vinceremo questo o quel torneo. Ma se penso al Mondiale in Italia nel 1990, quando siamo arrivati in semifinale, facendo meglio di quanto ci aspettassimo, giocando bene e perdendo per sfortuna ai rigori contro la Germania, tutti erano orgogliosi di quella squadra», disse. Ecco, i Mondiali del 1990.
Italia ’90 fu una competizione importante per l’Inghilterra. James Horncastle, nell’articolo intitolato “Italian Football Show” uscito sul numero 23 di Undici, racconta: «Per noi inglesi è stato forse il torneo attorno al quale abbiamo fantasticato di più dal lontano 1966. Ha generato grande musica con “World in Motion” dei New Order e grandi libri come All Played Out di Pete Davies. Ma, sopra ogni altra cosa, ha creato la sensazione di un momento epocale. Una nazione cominciava finalmente a rivedere il buono del calcio dopo il dolore e l’orrore di Heysel e Hillsborough».
L’Inghilterra era arrivata al 1990 dopo aver attraversato un decennio calcisticamente disastroso: l’eliminazione alla seconda fase nei Mondiali del 1982, l’umiliazione ai quarti, contro l’Argentina di Maradona, nel 1986, e per finire l’esclusione dall’Europeo del 1988 direttamente nel girone iniziale, dove si qualificò ultima a 0 punti, perdendo anche contro l’Irlanda. C’era, poi, il conflitto sociale: la guerra delle Falklands nel 1982, la strage dell’Heysel nel 1985, il “fenomeno” hooligan a colorare di violenza l’intero decennio sull’isola natia e in trasferta in Europa, le leggi speciali introdotte dal governo Thatcher, di nuovo una strage a Hillsborough nel 1989, le rivolte popolari contro la Poll Tax del governo nel 1990.
I Mondiali in Italia furono una boccata d’aria, di sole e dolcezza in un decennio di rabbia e violenza e tensione, con il suo eroe romantico particolare: Paul Gascoigne. «Non era soltanto il cammino dell’Inghilterra fino alle semifinali», scrive sempre Horncastle. «Era la figura di Gazza. Al di là del talento e della personalità, l’apice della parabola che fece di Gascoigne un eroe nazionale fu quando scoppiò in lacrime durante la semifinale contro la Germania Ovest a Torino. La leggendaria rigidità degli inglesi iniziava a sciogliersi. E forse Gascoigne ci fece iniziare a pensare in modo diverso al nostro carattere nazionale. Nel 1979 i Cure pubblicavano “Boys Don’t Cry”. Nell’estate del 1990 mostrare un lato vulnerabile del proprio carattere era legittimo».
«Stiamo cercando di cambiare il modo in cui la Nazionale gioca», ha detto Southgate prima del MondialeFare paragoni tra diversi mondi basati sui parallelismi è una scemenza, ma la leggerezza di quella Nazionale dialoga, in qualche modo, con questa Inghilterra di Gareth Southgate. È, questa, una squadra a cui è stata affidata una speranza di sollievo più che una conferma di predestinazione. Nessuno l’ha mai data per favorita, e d’altra parte al suo ultimo Mondiale, nel 2014 in Brasile, riuscì a fare anche peggio dell’Italia, arrivando ultima nel suo girone, con un punto conquistato in tre partite. Quell’Inghilterra è finita: David Beckham, Michael Owen, Steven Gerrard, John Terry, Frank Lampard, Wayne Rooney, Rio Ferdinand, Joe Cole, un’intera generazione di talento all’apparenza straordinario e gonfio di aspettative, crollata a ogni appuntamento sotto un’attesa – appunto – millenaristica, se n’è andata. Se n’è andata anche una classe di allenatori inglesi doc nel senso meno lusinghiero del termine: Glen Hoddle, Kevin Keegan, Steve McLaren, Roy Hodgson.
La scelta di un profilo inglesissimo e abituato a squadre di media-bassa classifica come Sam Allardyce, nel 2016, sembrò una resa disperata. Per fortuna, per l’Inghilterra, arrivò quell’inchiesta che portò alle dimissioni di Big Sam dopo una sola partita, una vittoria per 1-0 dopo 95 minuti contro la Slovacchia. La prima tappa del cammino verso Russia 2018. Gareth Southgate, ex allenatore di una Nazionale Under 21 non entusiasmante, superò il periodo di prova e fu nominato manager della prima squadra per quattro anni.
Southgate non aveva un profilo propriamente di spessore: tre stagioni e mezzo al Middlesbrough, una retrocessione, un premio “Manager of the Month” nel 2008, un lavoro affatto eccezionale con l’Under. Era un uomo che “conosce il sistema”, ma d’altronde per lo stesso motivo era stato nominato, dopo Sven-Goran Eriksson, Steve McLaren, probabilmente il peggior manager che l’Inghilterra abbia mai avuto. Ma Southgate conosceva bene alcuni giocatori da cui l’Inghilterra doveva ripartire, avendoli già allenati nella formazione giovanile: Danny Rose, Jordan Henderson, Ruben Loftus-Cheek, John Stones, Jesse Lingard, Harry Kane. Il cammino di Southgate nelle qualificazioni è stato ottimo anche se non esaltante: 7 vittorie, 2 pareggi, nessuna sconfitta, ma forse pochi gol segnati se consideriamo la statura di avversari come Malta, Slovenia, Lituania. Southgate, però, non stava soltanto allenando la Nazionale inglese. La stava ricostruendo.
«Ha mostrato a un’intera nazione come comportarsi», ha scritto John Crace sul GuardianGareth Southgate si è dedicato al compito con la tranquillità di chi non sente sul collo l’alito dei millenaristi, e con la serietà di chi vuole sconfessarli, i millenaristi, una volta per tutte. «Stiamo cercando di cambiare il modo in cui la Nazionale gioca», ha detto a proposito del suo lavoro, «ci sono giovani che stanno crescendo e grandi hanno abilità tecniche». Era un cambiamento epocale, che non poteva prescindere da un azzeramento della generazione precedente, come dimostrano i tagli di Joe Hart e Jack Wilshere: «Probabilmente ci sono altri giocatori un po’ più vecchi in Premier League che potrebbero portare un po’ di esperienza in più, ma non crediamo di poter vincere un Mondiale con loro in futuro. Preferiamo investire tempo e fiducia nei giovani che riteniamo possono diventare talenti mondiali». Tatticamente, ha lavorato sul possesso palla cercando di eliminare o limitare la tradizionale palla lunga inglese – di cui Allardyce era un devoto fedele – e studiato le tattiche di sport tradizionalmente più “bloccati”, come football americano e rugby, per trarre il massimo vantaggio dai calci da fermo. Il suo atteggiamento e il suo understatement ha fatto arrivare l’Inghilterra al Mondiale come una Nazionale su cui nessuno avrebbe puntato granché. Si è invece dimostrata solida contro la Tunisia, spettacolare contro Panama, rivedibile, anche se con molte riserve, contro il Belgio. Poi di nuovo fredda contro la Colombia, riuscendo a vincere, come non accadeva da anni, e cinica contro una Svezia che ha costretto chiunque a giocare male. I limiti maggiori sono usciti probabilmente proprio contro la Croazia, capace di mettere in campo uno dei centrocampi più forti del torneo e di costringere l’Inghilterra a scavalcarlo costantemente, nel secondo tempo, alla ricerca di Harry Kane.
Southgate sapeva che un atteggiamento mentale positivo sarebbe stato necessario per poter fare bene, ed era anche consapevole del momento unico in cui questo Mondiale è arrivato, sia per la Nazionale inglese che per la società: «Il nostro Paese sta attraversando momenti molto difficili in termini di unità nazionale», ha detto, «ma lo sport può unire». A questo si aggiunge un generale atteggiamento di mindfulness, serietà e rispetto. Abbiamo inventato il gioco? Non importa. Ha tolto l’afflato religioso dal calcio, che generava arroganza e superficialità. Si è mostrato sensibile e umano: come quando, dopo la vittoria ai rigori contro la Colombia, è andato da Uribe, l’avversario che aveva sbagliato il tiro decisivo, ad abbracciarlo. «Ha mostrato a un’intera nazione come comportarsi», ha scritto John Crace sul Guardian. Passione, ma al punto giusto. Dedizione, sempre. Empatia, come quando ha insistito perché Fabian Delph tornasse dalla compagna, in Inghilterra, per assistere al parto. E la sua storia personale, di impegno e riscatto: Gareth Southgate è l’uomo che nel 1996 si fece parare il calcio di rigore decisivo da Andreas Köpke, spegnendo il sogno originale del mantra “It’s Coming Home”.
Infine, il campo: in un momento in cui i giornali inglesi ed europei sono affolatti di titoli su Brexit e nazionalismo, l’Inghilterra si è affidata a una squadra giovane, spensierata – i balletti scemi di Alli che hanno coinvolto tutta la squadra – e multietnica: degli undici titolari, più della metà sono inglesi “di seconda generazione”, compreso il biondo Harry Edward Kane. Tecnicamente, era difficile fare di più: l’Inghilterra oggi è una squadra comunque inesperta, in una fase di transizione che, essendo epocale – mentale e tattica – dovrà prendersi altri mesi, altri anni. Un portiere sicuro e forte (fortissimo, anzi, per quanto si è visto in Russia), una difesa finalmente in grado di impostare, un centrocampo capace di giocare palla a terra e un attaccante versatile che sa segnare in ogni modo. Un buon gruppo, ma con margini di miglioramento enormi. «Davvero pensavamo di poterci trovare qui?», ha detto Southgate dopo la sconfitta. «Realisticamente parlando, penso che non lo pensasse nessuno. Andate indietro di 18 mesi e nessuno si sarebbe aspettato di vederci in una semifinale mondiale». È questa la consapevolezza che fa dell’Inghilterra di Southgate una squadra diversa, finalmente. La stessa canzone “Three Lions”, “It’s coming home” ripetuto dopo ogni partita, è il simbolo di un entusiasmo puerile e coinvolgente, non una rivendicazione arrogante. Southgate, che ha fatto innamorare l’Inghilterra e non solo, ha un piano, e portarla a casa nel 2018 non era previsto.