Anima e corpo

Una conversazione con Clarence Seedorf.

Partiamo dal presupposto che il calcio, da guardare, è uno sport noioso. Ci sono moltissimi motivi per cui è lo sport più popolare del mondo – è popolare, appunto, nel senso sociale del termine, è facile da capire, raramente c’è confusione in campo, e così via –, ma sono tutti motivi a dispetto di. Di quella noia, appunto: amare il calcio – amarlo davvero – è un esercizio di meditazione e di pazienza, e occorre essere allenati e conoscerne intimamente la grammatica per riuscire ad abbandonare i sensi a cambi di gioco, azioni lunghe e avvolgenti, tackle eleganti. Una partita di calcio – di calcio giocato bene, non quello palla lunga e tiri continui come si vede in certe partite di, beh, Premier League – si costruisce più o meno come una sinfonia, un movimento lento ad aspettare il crescendo. Se un’orchestra può essere composta da molti buoni musicisti, sono soltanto pochi gli interpreti in grado di guidare questo crescendo. Le qualità fondamentali del singolo che deve farsi carico di questa carica, questo violino solista, questo direttore d’orchestra il cui compito è cambiare il ritmo con gesti repentini e dolci, all’improvviso, è l’eleganza, un’eleganza funzionale, legata alla concentrazione e l’intelligenza. Ed è stato un privilegio, per me, per dieci stagioni, poter osservare domenica dopo domenica quello che considero, nei suoi anni, il miglior interprete di questa eleganza, intelligenza tattica, esplosività fisica: Clarence Seedorf.

Oggi Clarence è concentrato sulla sua carriera da allenatore, un impegno che prende con una professionalità che mi viene da descrivere come rara nel mondo del calcio. E poi c’è la consapevolezza: parlando con lui, un pomeriggio di primavera a Milano, mi colpisce la sua pianificazione: un percorso iniziato ancora da giocatore che l’ha portato oggi a essere il prototipo, mi dico, di allenatore davvero contemporaneo e globalizzato, in grado di passare dall’Italia alla Cina alla Spagna per mettere in pratica le sue idee e il suo calcio. Sono state tutte scelte ponderate, mi dice. Con il Deportivo La Coruña, l’ultima esperienza iniziata a febbraio 2018, si sono viste cose positive sul piano della reazione tattica e psicologica di una squadra in crisi, anche se non è stato sufficiente a salvare la stagione. Oggi – mentre parliamo – Seedorf mi dice che sta valutando molte proposte. È il momento di iniziare una stagione dall’inizio, per concentrare il lavoro sull’aspetto a cui tiene di più: la mente.

Ⓤ Clarence, quando giocavi avevi già l’idea di fare questo passo?

Sì. Per come ho vissuto il calcio da giocatore, sempre con tante idee che gli allenatori mi permettevano di condividere e discutere con loro anche se poi non ero io a decidere, credo che diventare allenatore fosse naturale. Prima, da calciatore dovevo fare il calciatore, anche se mi interessavo di temi relativi alla squadra e al club dove giocavo che di solito non sono di competenza dei calciatori. Ma non perché volevo per forza dire la mia, lo facevo per curiosità e interesse. E in questo modo gli allenatori per i quali ho giocato mi hanno permesso di guardare da vicino “la cucina”. Oggi è bello vivere il calcio da questa prospettiva, mettere in pratica le mie idee, confrontarmi con i giocatori, lo staff e la società. In un certo senso ci si sente più liberi.

Ⓤ Mi sembra di vedere una specie di ricerca nel tuo approccio, la ricerca non di trovare subito la squadra perfetta ma di provare differenti approcci. C’è pazienza.

Io sono paziente ma la realtà è un po’ diversa. Uno deve avere l’opportunità per poter mettersi in mostra. Ho avuto una grande opportunità al Milan che è finita purtroppo come sappiamo, perché lì i risultati e il gioco erano soddisfacenti. Si è interrotto quindi in quel momento un percorso per me, che sicuramente sarebbe stato diverso se avessi potuto iniziare la stagione successiva con la squadra dall’inizio. Da li in poi ci sono state poche possibilità di lavorare. E quindi quando vedi il mercato come funziona devi anche accettare com’è, perché è difficile lottare contro un sistema così grande e così antico. Il risultato non è una cosa che mi preoccupa, perché tutti sappiamo che dobbiamo vincere; non mi preoccupa perché io sono nato e cresciuto con questa mentalità. Tante volte sono situazioni come quelle del Depor, dove le cose non vanno, dove si può veramente cambiare la marcia.

Ⓤ Stando più sulla filosofia dell’allenare, visto che Zidane ha vinto la sua terza Champions: si è detto che Zidane più che un grande tattico è un grande motivatore. Tu pensi che quando hai una squadra con così tanta qualità serva oggi più la testa che la tattica?

La testa serve sempre più di tutto, per tutti. Non posso parlare nello specifico di Zidane come allenatore nella quotidianità, ma per quello che ho visto c’è un gruppo coeso, motivato, che è riuscito a mantenere la fame anche dopo aver vinto tanto, nelle difficoltà ho visto unione, e queste sono cose che vengono gestite dall’allenatore, quindi lui è stato bravo sul modo di comunicare, sempre con i toni giusti in un ambiente molto complicato, esigente e competitivo. Spero che le società possano capire che il discorso dell’esperienza è un discorso… intangibile, di certo non una garanzia, perché prima di Zidane c’era Benítez, che io reputo bravissimo, ma che non ha fatto così bene pur avendo una lunga esperienza.

Ⓤ Hai giocato in squadre che sono state anche ottimi gruppi. Cosa ti sei portato dietro da allenatore di quello che hai imparato?

Posso dire che so quali sono gli ingredienti per essere competitivi e creare le condizioni per poter vincere. Perché nell’ambiente calcistico si usa molto la parola vincere. Vincere, vincere, vincere, ma cosa vuol dire vincere? Cosa devi fare per vincere? Tutti vogliono vincere, tu ma anche i tuoi avversari. Quali sono i comportamenti che devi avere prima dell’allenamento, durante l’allenamento e dopo l’allenamento? Come ti comporti in casa, fuori, quali sono gli elementi che ti fanno stare in uno stato in cui puoi performare al meglio? Questo è un lavoro per i giocatori, ma da allenatore devi stimolare, indirizzare, creare le condizioni per far sì che i giocatori e lo staff possano essere ispirati per cercare sempre il proprio meglio, la propria eccellenza. Perché quando giochi nelle grandi squadre o alleni nelle grandi squadre, ma per me vale anche nelle medio-piccole, quando sei un atleta, l’eccellenza devi cercarla tutti i giorni. Solo così si creano le condizioni per essere competitivi.

Ⓤ Invece sulla metodologia di allenamento: con il Depor hai curato molto la parte fisica e le prestazioni fisiche sono migliorate molto dopo il tuo arrivo. Che idea hai di quanto sia importante il fisico in un calcio che è sempre più veloce e più fisico?

Io credo che una volta fosse più fisico. Oggi c’è più cura, più scienza e più know-how dietro la preparazione che oggi è di altissimo livello in generale. Ma anche qui torniamo al discorso di prima: se non hai la giusta mentalità, non riesci a esprimerti al massimo fisicamente. L’allenamento fisico è un allenamento mentale perché devi andare oltre i tuoi limiti, devi andare oltre per migliorarti. Io dedico tantissimo tempo all’aspetto mentale, alla comunicazione, per riuscire a creare una mentalità vincente, per migliorarsi a livello individuale, quindi io ti stimolo, uso la tecnologia, ma uso la tecnologia anche per farti fare un confronto con te stesso. Nelle mie squadre l’allenamento è di alta intensità, e questo deve diventare una normalità. Certo, devi un po’ rompere le palle con l’aiuto del tuo staff, ma serve per stimolare i calciatori.

Ⓤ Quando hai allenato Balotelli, il suo livello di ammonizioni di falli si è ridotto drasticamente. Quindi che importanza dai al confronto one to one?

Tantissimo. Quando riesci ad avere questo tipo di rapporto, riesci a capire meglio i giocatori. Io voglio capire il mio giocatore, voglio capire chi è come persona. Se riesco a capire la persona nella sua complessità, in campo ma anche fuori, nella sua sfera privata, riesco a capire meglio anche i comportamenti che può avere in campo. L’interazione allora diventa più fluida, riesco a stimolarlo nel modo giusto. Con Balotelli, per dare un esempio concreto, con lui era il tempo che era necessario, quindi passavo più tempo con lui.

Ⓤ Una preparazione tailor-made.

Dev’essere così, perché non siamo tutti uguali. Lo siamo nei diritti, ma la meritocrazia è un’altra cosa. E non c’è soltanto il merito: la crescita di ognuno fa parte di un percorso. Ci sono alcuni giocatori che sono a un determinato livello che hanno bisogno di alcuni stimoli, mentre altri che ambiscono a quel livello devono essere stimolati diversamente. Trattare tutti allo stesso modo sarebbe riduttivo e non aiuterebbe chi è un gradino sotto a migliorarsi. Tanti aspetti vanno gestiti, gelosia e fattori extra campo compresi. In questo modo si preservano le interazioni che devono essere naturali, quotidiane, di buon senso e meritocrazia.

Ⓤ Tu hai anche una formazione manageriale e hai giocato in squadre come il Milan e il Madrid che sono gestite come aziende e non solo come squadre. Quanto è importante che l’allenatore sia coinvolto in processi che non riguardano soltanto il campo?

Io credo che l’allenatore oggi sia una figura centrale non solo per gli aspetti sportivi ma anche per quelli più istituzionali, è il volto che comunica di più all’esterno. È fondamentale per un allenatore capire le sue responsabilità anche in questo senso, nel rappresentare il club, nel trasmettere i valori del club, capire come funziona l’azienda del calcio nelle sue diverse dimensioni e cosa può influire positivamente o negativamente sul club e sui singoli giocatori. Per esempio, quando Pato è venuto al Milan, mediaticamente è stato sovraesposto, e in questo senso il Milan ha sbagliato perché quando poi lui ha iniziato una parabola discendente, le aspettative erano troppo alte e il giocatore aveva troppa pressione addosso. Un allenatore deve avere padronanza di certi meccanismi, soprattutto se hanno influenza diretta o indiretta sulle performance dei suoi giocatori.

Ⓤ Tornando alla tattica e al campo. Dal 2008, diciamo dall’arrivo di Guardiola al Barça, sembra si sia diffuso troppo un certo dogmatismo su come si deve sempre giocare, sempre palla a terra, molti scambi. Sei d’accordo se dico che a volte ci sia troppa fissazione su questo modo di giocare?

Primo: io non credo che si possa copiare, perché se copi sarai sempre una brutta copia. Secondo: per fare quello che fa Guardiola devi avere i migliori giocatori al mondo. Ovviamente quello non è l’unico modo per vincere, altrimenti avrebbe vinto la Champions ogni anno, però Guardiola lo adotta perché ritiene di poter essere competitivo e vincere. Lui ha vinto tanto, ha avuto anche i migliori giocatori. Quello che oggi è dannoso, ma non è assolutamente colpa sua, è che abbiamo smesso di chiedere ai difensori di fare i difensori. Adesso devono avere buoni piedi e impostare il gioco, e sembra più importante quello che saper difendere. Lì invece ci vorrebbe un equilibrio giusto. Puoi aggiungere una capacità di gestione della palla migliore, da dietro, alla tua capacità di difendere sia individualmente che come reparto. Ed è per quello vediamo pochi difensori di altissimo livello in giro. Perché nei settori giovanili non danno più questa attenzione alla fase difensiva.

Ⓤ Che altre differenze vedi tra il calcio che conoscevi da giocatore e quello che vedi da allenatore?

Ogni epoca, generazione ha le sue mode. Ora mi sembra vada molto di moda lo stop sotto la suola. È una novità degli ultimi anni che in alcuni casi è utile, ma spesso è solo moda. Nel calcio di oggi c’è molto spazio per l’intrattenimento in campo, a discapito della concretezza. Ma se il mio piede è sopra la palla, come faccio a calciarla?  Bisogna far usare il cervello ai giocatori, stimolare le loro scelte e la loro capacità di risolvere i problemi. Non voglio giocatori che guardano sempre la panchina per sapere cosa fare o cosa no. Chiaramente un allenatore oggi ha un ruolo importante, dalla panchina, per proteggere il piano del gioco. Però se ben preparata, la squadra dovrebbe sapere cosa fare.

Ⓤ Andiamo a qualche anno fa. C’è stato un momento, immagino tra Madrid e Milano, in cui ti sei reso conto di essere uno dei migliori al mondo?

Sì, ci sono stati degli anni in cui mi sentivo tra i migliori al mondo, specialmente tra il 2004 e il 2008. Mi sentivo capace di qualsiasi cosa, completo, sapevo che potevo decidere e prendere in mano la partita. Sì.

Ⓤ Prima hai parlato dell’importanza di una comunicazione umana e completa con i giocatori: oggi ti sembra che i giocatori nascondano la loro umanità dietro ai social network?

Credo si faccia un grande errore a criticare le abitudini che ci sono oggi. La società cambia, si evolve e bisogna accettarlo. C’è l’abitudine di dire: eh ai miei tempi…Quello che si deve fare invece è far capire il valore di questi strumenti, il modo giusto di utilizzarli affinché possano non essere nocivi per il loro lavoro. Un atleta deve semplicemente essere educato alla tecnologia, non essere dipendente dal telefono, non essere dipendente dai social media. Controllare la tecnologia, non farsi controllare. Ma credo sia una battaglia più della società che del calcio. È inutile stare a criticare i ragazzi, dobbiamo piuttosto guidarli, educarli.

 

Dal numero 22 di Undici
Fotografie di Andy Massaccesi