Il caso Williams e il suo contesto

Né pro né contro Serena: la storia del suo rapporto con lo Us Open è complessa da sempre.

I fatti di sabato sera all’Arthur Ashe Stadium sono, per una volta, assolutamente chiari. Patrick Muratoglou ha pubblicamente ammesso il coaching in favore di Serena Williams – del resto avrebbe avuto qualche problema a negare un gesto ripreso, con evidenza incontestabile, dalle telecamere. L’obiezione al primo warning decretato dal giudice di sedia, Carlos Ramos, è che la pratica ricorre in qualsiasi match professionistico, e nella maggior parte dei casi viene ignorata. Pertinente, ma irrilevante. Di fronte a un gesto particolarmente vistoso, Ramos ha deciso di intervenire, a quanto risulta nella speranza di calmare una tensione che stava diventando eccessiva. Può avere sbagliato i suoi calcoli, ma lo ha fatto nel pieno esercizio delle sue attribuzioni.

Che ha rispettato alla lettera anche nel suo secondo intervento. In ogni match sia del circuito Wta sia di quello Atp – senza quindi alcune delle distinzioni, o delle discriminazioni di genere invocate da Williams – ai maltrattamenti alla racchetta corrisponde, automaticamente, un warning. Che perfino professionisti dell’abuso come i signori Paire, Kyrgios, e Gulbis – per tacere, più recentemente, di Zverev e Djokovic – accettano tutt’al più con un’alzata di spalle.

Tuttavia, le critiche più virulente si sono appuntate sulla terza decisione di Ramos, quella di penalizzare con terzo warning, quindi di fatto con un game, Williams, dopo che la medesima gli aveva indirizzato epiteti e accuse solo in parte riferibili. Anche qui, molti sostengono trattarsi di una consuetudine disdicevole, eppure largamente tollerata, specie nel circuito maschile. È vero. Ma fra suggerire in un sibilo all’arbitro di rendersi quanto prima oggetto di sodomia passiva, e accusarlo di ladrocinio a una distanza dal microfono calcolata in modo che il messaggio arrivi forte e chiaro ai ventitremila spettatori presenti, quindi alle centinaia di milioni collegati, corre tutta la differenza che spiega la decisione di Ramos.

Ora. Quello all’isteria (ambosessi, beninteso) è un diritto sacro e inalienabile del tennista, e nel caso della campionessa più titolata di sempre a un passo dalla resa incondizionata a una versione di se stessa più giovane di sedici anni diventa semplicemente il tentativo, molto umano, di porre qualche condizione. Ma qui il problema sono state, precisamente, le condizioni.

Da lontano, è difficile avere un’idea di cosa significhi Serena Williams per la cultura popolare americana. Tutto quello che si sa, in sostanza, e che pertiene alla lotta delle donne e dei neri – non necessariamente in quest’ordine – per la piena emancipazione: solo, a una temperatura emotiva e attraverso meccanismi di identificazione non del tutto immaginabili, da lontano. In più, Williams ha le qualità di una grande diva del passato, e l’allure di una stella del futuro: è una Drama Queen in tuta (o tutù) da Black Panther, e mettersi sulla sua strada può risultare un tantino pericoloso. Ramos certamente lo sapeva, come sapeva che le signore sedute anni prima di lui su quella stessa sedia e in quello stesso stadio in circostanze analoghe – durante le clamorose sconfitte di Williams con Capriati e Clijsters, cioè – si erano sentite ventilare vuoi possibili, fantasiosi percorsi della pallina all’interno del loro corpo, vuoi la cacciata definitiva da quello che Serena considera, da sempre, il suo campo.

Stavolta però – e questo Ramos non avrebbe potuto prevederlo – Williams ha deciso di mettere in campo argomenti extra agonistici perfetti per i social, che non a caso li hanno inghiottiti all’istante, scatenando le consuete quarantott’ore d’inferno: la maternità e il diritto di presentarsi all’infanta con la coscienza immacolata, la maternità e le immani fatiche rese necessarie dal ritorno alle competizioni, il dovere (da parte di Ramos) di tenerne conto sempre e comunque, ma specie sul suo (di Williams) campo, dove (sottinteso) si fa come dice lei.

Su alcuni punti Williams ha ragione, almeno nel senso che l’Arthur Ashe è stato fin dalle origini il palcoscenico, o se si preferisce l’altare, dei suoi innumerevoli trionfi. Su altri, le sue argomentazioni traballano. Il codice di comportamento che Ramos ha cercato di far rispettare non è una forma particolarmente perversa di prevaricazione maschile: al contrario, è stato inventato per limitare le intemperanze di un giovin signore capriccioso, che ha poi finito per diventarne la prima vittima illustre. Per ulteriori chiarimenti rivolgersi a John MacEnroe, che agli Australian Open 1990, avendo preso un warning in più di Williams sabato, venne espulso dal campo, rimettendoci torneo e, di fatto, carriera.

Però, nonostante la scarsa cura dei particolari, bisogna ammettere che Serena ha saputo allestire la Sceneggiata Perfetta. Mascherando nel più efficace dei modi possibili un’uscita di scena piuttosto imbarazzante, ha trasformato un’imminente catastrofe sportiva in un trionfo. Nel dopopartita si è parlato solo di lei, mentre Osaka, che gioca benissimo a tennis ed è un grande personaggio, si è vista assegnare d’imperio un lacrimoso ruolo da figurante. E non è tutto. Senza parere, Williams ha centrato anche un secondo obiettivo, solo apparentemente minore.

Per capire fino a che punto, mettiamo per un attimo da parte i presunti delitti – anche perché in Italia siamo sempre tre passi avanti, e li conosciamo dai tempi degli arbitri con la spazzatura al posto del cuore – e concentriamoci sulle pene effettive. Williams se l’è cavata con l’ammontare di un pomeriggio di shopping sulla Quinta Strada – 17.000 dollari. Ramos, invece, ha avuto una sanzione persino superiore a quella comminata in silenzio qualche giorno prima a un altro virtuoso del seggiolone, Lahyani, spedito dopo il discutibile pissi pissi con Kyrgios ad arbitrare doppi misti su un campo minore: non è stato invitato alla cerimonia di premiazione, né è così scontato che torni ad arbitrare a quel livello e su quel campo, che ora sappiamo una volta per tutte a chi appartiene.

In altre parole, è stata rispettata la volontà popolare, o quella che la sua autorevolissima portavoce ritiene tale, e che i buuu durante la cerimonia hanno esprfesso, finché lei stessa non li ha fermati. Quanto ai mediatori di ogni ordine e grado, è bene imparino ad accontentarsi, anche nel tennis, di modeste difese d’ufficio come questa. Sempre che di qui a poco non gli vengano revocate.

 

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