Chi fa il calcio popolare

Dall'Inghilterra all'Italia, storie di successo di calcio alternativo.
di Cristoforo Spinella 13 Ottobre 2018 alle 12:34

Fino a qualche giorno fa, José Antonio da Valencia e Mark che tifa per il Watford non sapevano dell’esistenza del Clapton Community Football Club, squadra londinese di serie minori. Ora scalpitano per averne la maglietta. E Steve, che scrive dagli Stati Uniti, assicura di volerne ordinare 70, «per vestire tutta la sua azienda». Pure lui non aveva mai sentito parlare di questo piccolo (seppur storico) team inglese, che quasi subito ha dovuto sospendere le vendite della sua nuova divisa da trasferta – da spedire artigianalmente con un corriere o ritirare il sabato durante le partite – dopo aver ricevuto oltre cinquemila ordini con incassi stimati in almeno 60 mila sterline. Una follia, per un club così. Prima il giro, virale, sui social network, poi i titoli di giornale hanno attirato l’attenzione sulla maglia commemorativa della resistenza antifranchista, i colori della bandiera della Seconda Repubblica spagnola a bande orizzontali e la stella a tre punte delle Brigate internazionali, corredata da una scritta sul colletto – timbro dei valori a cui si ispira una squadra: «No Pasarán». Un fenomeno che ha molto a che fare con i simboli – l’antifascismo e l’antirazzismo su tutti, in epoca di polarizzazioni esasperate – e con la fame di quello che, genericamente, si definisce calcio popolare, rivendicando un’identità opposta a quella del pallone come affare.

Dietro il “caso Clapton” c’è una realtà artigianale italiana diventata improvvisamente un piccolo fenomeno di marketing, e proprio per i valori anticapitalisti a cui si ispira. «Anche noi all’inizio indossavamo maglie di grandi brand internazionali. Poi, un giorno ho guardato in faccia i miei compagni e ho detto: “Ragazzi, ammettiamolo, siamo un po’ incoerenti”». È così, quasi per istinto di conservazione, e per riemergere dalle contraddizioni, che Maurizio Affuso racconta di aver creato 3 anni fa il marchio “Rage Sport“. Lui giocava per gli Rfc Lions di Caserta, di cui era anche magazziniere e oggi che ha 35 anni pure presidente: una delle realtà di calcio popolare più vivaci e radicate, quest’anno impegnata in terza categoria. Racconta di aver deciso di provarci quel giorno, complice una passione per il design che l’ha sempre accompagnato. Ha cominciato a guardarsi intorno, studiare i processi produttivi e riflettere su come declinarli altrimenti.

A Casagiove, piccolo centro del Casertano, ha trovato quello che cercava: una piccola azienda a conduzione familiare. «Mi sono documentato sui tessuti, ho voluto conoscere gli operai e il circuito produttivo: volevo sapere se a tutti venivano pagati regolarmente i contributi, se si rispettavano gli orari e i diritti dei lavoratori. E ovviamente ho cercato anche di capire se ci potessero essere infiltrazioni camorristiche», spiega Affuso. Oggi, la piccola fabbrica che realizza le divise del Clapton che lui ha disegnato lavora a pieno regime, con commesse assicurate per diversi mesi, mentre nuove richieste fioccano da club di mezza Europa. «Onestamente, non ci aspettavamo questo impatto. L’idea del design è legata a una piccola rappresentanza a Londra di eredi dei partigiani antifranchisti di varie nazionalità, che per l’80esimo anniversario della guerra civile in Spagna hanno voluto questo omaggio alla Brigata internazionale antifascista. I colori, il design e la frase li hanno scelti i tifosi, io ci ho messo solo la mano che ha disegnato la maglia. Non è forse la più bella che ho fatto, ma il suo significato ha colpito nell’orgoglio gli spagnoli, e non solo».

Per Affuso, disegnare divise – e produrle dentro un “circuito etico” – è «un altro modo di continuare le lotte iniziate vent’anni fa da ragazzino», quando giocava nei campi amatoriali di periferia e si impegnava nei centri sociali. «Lavoro solo con squadre di sport popolare antirazziste e antifasciste, o comunque di club con cui posso instaurare un rapporto di fiducia sulla base di questi valori». Per capire di che si tratta, basta scorrere un po’ la lista: oltre naturalmente ai suoi Rfc Lions, ci sono la Liberi Nantes e l’Afro-Napoli, che in Campania sono in prima fila a fianco di migranti e richiedenti asilo, e team da Roma a Teramo a Padova, oltre che realtà all’estero come lo United Glasgow Fc.

All’origine di tutto, c’è il fenomeno del cosiddetto calcio popolare, in crescita malgrado enormi difficoltà a far quadrare i conti. Meglio, dello sport popolare, visto che in molti casi si tratta appunto di polisportive. Squadre integralmente autofinanziate con donazioni e forme di autotassazione dei sostenitori – venti, trenta euro al mese a testa – e che a volte si reggono anche grazie all’aiuto di qualche onlus e di progetti ad hoc finanziati da fondazioni o amministrazioni locali. Sponsor, pochissimi: un panificio di quartiere, o magari qualche piccolo imprenditore appassionato. Passione, tanta, si direbbe a guardare gli spalti entusiasti intorno ai campi in terra battuta. In una mappa ideale dalla Sicilia al Veneto, si distinguono principalmente due tipi di club: lo sport popolare in senso ampio, impegnato spesso in attività in zone disagiate con i ragazzi, e quello per l’integrazione di migranti e richiedenti asilo, per cui calcare i campi rappresenta in molti casi un’occasione di lavoro e, magari, di regolarizzazione della permanenza in Italia. Una battaglia di cui è stato protagonista l’Afro-Napoli United e portata avanti ogni giorno da tante altre realtà, come racconta Davide Drago della Polisportiva San Precario di Padova. «Nel 2015 abbiamo creato una squadra mista composta da italiani e richiedenti asilo, il San Precario Welcome Team. Due anni fa abbiamo lanciato la campagna “We want to play’”per chiedere alla Figc l’abolizione di 2 commi del regolamento che ostacolavano l’iscrizione dei richiedenti asilo. Una cinquantina di realtà hanno aderito, siamo andati fino a Coverciano dove abbiamo incontrato mister Ulivieri, che ha portato il documento dentro il palazzo e insieme a Damiano Tommasi è stato tra i pochi a sostenerci. Alla fine il regolamento è stato modificato a ottobre dell’anno scorso, e così oggi i giocatori si possono tesserare a prescindere dalla scadenza del loro permesso di soggiorno, anche se spesso restano ostacoli legati alla certificazione della residenza. Ma è stata una grande vittoria che dimostra come si possa riuscire a cambiare le cose dal basso, eliminando una norma che era molto discriminatoria».

Nata dieci anni fa come polisportiva popolare, tra le prime in Italia, la San Precario punta anche a combattere le discriminazioni di genere con la sua squadra di volley misto, per cui è pronta un’altra campagna. «Oggi sempre più squadre si definiscono di calcio popolare, molti parlano di calcio dal basso contro il calcio mainstream, ma per noi restano fondamentali alcuni valori per potersi dire alternativi: essere autofinanziati, antifascisti, antisessisti e antirazzisti». Una sfida, quella dell’indipendenza, che richiede uno sforzo notevole. I costi annui per una polisportiva del genere, tra affitti dei campi e spese varie, si aggirano tra 40 e 50 mila euro. E una volta spente le luci della ribalta, sopravvivere può diventare un problema. «Non credo che il calcio popolare si farà influenzare dal business», riflette Affuso, «ma per i collettivi è fondamentale puntare sul ricambio generazionale. Perché senza tanta passione ed energia, questa sfida non si può vincere».

 

Tutte le foto ©Rage Sport
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