Se ci limitassimo al mero confronto statistico tra i dati della stagione passata e di quella attuale sarebbe difficile associare il termine “crisi” a Sergej Milinkovic-Savic: la media dei tiri a partita è rimasta pressoché invariata (2,5 rispetto ai 2,6 del 2017/2018, con una pass accuracy dell’81% migliore rispetto a quella dell’ultimo campionato), così come quella dei passaggi chiave (1,5), degli expected goals (0.20 vs 0.23) e dei dribbling effettuati (1,6), mentre è addirittura diminuito il numero di palloni persi (2,5 vs 3,5). Eppure che ci si trovi di fronte a una preoccupante involuzione rispetto al recente passato è evidente, tanto più se si considera che l’ascesa del centrocampista serbo era stata scandita da una crescita dal punto di vista tecnico e fisico esponenziale e apparentemente inarrestabile. Oggi, invece, andando oltre il dettaglio dei gol (appena uno in 12 giornate: ma anche l’anno scorso le reti erano state due, intervallate da otto partite di digiuno) e degli assist, la sensazione è che il downgrade prestazionale riguardi l’aspetto qualitativo piuttosto che quello quantitativo: di fatto, quindi, se Milinkovic-Savic è statisticamente lo stesso giocatore della stagione passata (in alcuni voci addirittura migliorato), il tipo di impatto delle sue prestazioni su quelle della squadra è cambiato drasticamente. In peggio.
Il 2017/2018 da 14 reti e 6 assist complessivi aveva illuso sulle reali possibilità dell’ex Genk di poter essere un giocatore condizionante tout court all’interno del sistema, salvo poi ritrovarsi a sua volta condizionato dal sistema stesso e pagando più di altri – insieme a Luis Alberto, un altro che corre il rischio di essere bollato come potenziale one season wonder – la difficoltà della Lazio di tornare ad esprimere quell’identità verticale, riconosciuta e riconoscibile, pensata per esaltare le qualità dei suoi giocatori migliori. Una difficoltà dettata dalla capacità degli avversari di mettere i biancocelesti nella situazione offensivamente meno gradita: quella che richiede lo sviluppo della manovra partendo dal basso contro squadre che utilizzano i principi della difesa posizionale, accettando di lasciare spazi sfruttabili sulle corsie esterne, intasando la zona centrale a ridosso dell’area di rigore. Proprio la zona in cui il serbo e lo spagnolo sono riusciti a massimizzare le proprie caratteristiche di base nella scorsa stagione, sfruttando l’atteggiamento attendista di Inzaghi pensato per allungare le distanze tra gli altrui reparti e attaccando gli spazi conseguentemente generatisi alle spalle della linea dei centrocampisti. E non va certo meglio al cospetto di squadre che prediligono mantenere il controllo del gioco e dello spazio attraverso il possesso: contro la Lazio, pensata e costruita per risalire il campo nel minor tempo possibile dopo il recupero della sfera, la tendenza attuale è quella di facilitare la transizione difensiva accorciando immediatamente con il maggior numero di uomini possibile sul portatore di palla avversario per ridurre i tempi di azione ed esecuzione della giocata in verticale.
Confinate in spazi troppo stretti per potersi esprimere compiutamente, anche la debordante fisicità e l’ottima tecnica individuale di Milinkovic-Savic – comunque riconducibili al fenotipo della mezzala di corsa e inserimento, del box to box player, piuttosto che di quella di possesso – risultano depotenziate e, quindi, più facilmente gestibili. Due sono i dati più significativi in questo senso: rispetto al 2017/2018 il numero 21 contrasta mediamente di meno – 1,4 contro gli 1,6 della scorsa stagione: nei duelli aerei vinti si è passati addirittura dal 2,9 al 2,3, mentre quelli persi sono diventati 3,6. Viene, quindi, a mancare la possibilità, più volte esplorata nel recente passato, di poter alzare il pallone mantenendo la ragionevole certezza di non perderlo grazie alle sue doti aeree –, riesce a sporcare con meno efficacia le linee di passaggio avversarie (gli intercetti a partita sono passati da 0,9 a 0,5) e, soprattutto, tocca molti meno palloni (45 vs 50) risultando molto meno coinvolto nello sviluppo del gioco, nonostante l’idea alla base del sistema sia sempre quella di una transizione che viene accelerata per far sì che a ricevere siano il prima possibile i centrocampisti più avanzati. Senza che, gli stessi, vengano poi supportati adeguatamente dal resto del reparto: è come se anche nella testa dei suoi compagni di squadra si fosse generato quell’equivoco di fondo che vorrebbe Milinkovic-Savic già in grado di creare dal nulla per sé e per gli altri a prescindere dal contesto, quando è invece il contesto a condizionare le prestazioni di un giocatore sì carismatico ma ancora fin troppo legato alle contingenze.
Non va, poi, sottovalutato l’aspetto umorale e psicologico, l’altra e non meno rilevante faccia della medaglia. Nonostante le dichiarazioni post rinnovo di Mateja Kezman («Siamo davvero tutti contenti di questo rinnovo, in primis la Lazio ma anche noi dell’entourage del giocatore. Possiamo andare avanti con tanta energia positiva»), la sensazione è quella di un uomo, prima ancora che un calciatore, non del tutto tranquillo, prigioniero di un contratto e di una valutazione (120 i milioni richiesti da Lotito che non molto tempo fa ha dichiarato di aver «detto no a un’offerta irrinunciabile, che nessuno in Italia avrebbe rifiutato» nelle ultime settimane di mercato) che sembrano momentaneamente precludergli quel grande salto al quale sembrava ormai pronto al termine della scorsa stagione e al netto di un Mondiale giocato al di sotto delle proprie possibilità. Il rendimento contingente, quindi, è quello di chi gioca sentendosi fuori posto, fuori tempo e notevolmente sottodimensionato rispetto al livello che ritiene di aver raggiunto: un atteggiamento che, al di là delle difficoltà in campo, gli ha procurato qualche problema di troppo anche fuori, soprattutto nel rapporto con una parte della tifoseria. Non certo la situazione ideale, tanto più con un Lazio-Milan che, subito dopo la sosta, dirà molto in chiave lotta per il quarto posto che vale l’accesso diretto in Champions League.