Le avventure di Eriksson in giro per il mondo

È il nuovo allenatore delle Filippine, dopo Costa d'Avorio, Messico e Inghilterra.

In lizza c’erano anche l’Iraq e il Camerun, poi fiondatosi sulla coppia oranje formata da Clarence Seedorf e Patrick Kluivert, ma alla fine a spuntarla sono state le Filippine: Sven Göran Eriksson sarà il nuovo allenatore della piccola selezione dell’arcipelago asiatico. A dare il sorprendente annuncio, arrivato durante un evento relativo alla Suzuki Cup (una competizione regionale per Nazionali del sud-est asiatico), è stato il team manager delle Filippine, Dan Palami, riscattando improvvisamente lo svedese dal buco nero in cui sembrava essere stato irreversibilmente risucchiato: «Uno degli allenatori più leggendari d tutti i tempi, Sven Göran Eriksson, guiderà le Filippine nella Suzuki Cup e nella Coppa d’Asia», ha dichiarato entusiasta, con la la consapevolezza di chi pensa di aver portato a casa un buon affare e il tono solenne di chi si appresta a vivere un momento storico. In un colpo solo, quindi, le Filippine, qualificate per la prima volta alla Coppa d’Asia, non solo sono riuscite a riempire in tempi piuttosto rapidi il vuoto lasciato dall’inglese Terry Butcher, dimessosi non più tardi di due mesi fa, ma hanno anche ingaggiato un evergreen del calcio mondiale con un hype non male, seppur leggermente appannato dalla nebulosa in cui è ritrovato avvolto negli ultimi anni.

Sulla panchina delle Filippine nella partita di Suzuki Cup vinta contro Singapore, il 13 novembre (Andy Alvarez/Afp/Getty Images)

Per quanto appariscente e bizzarra possa sembrare, la mossa di Eriksson, potrebbe essere stata non solo corretta, ma probabilmente necessaria, quasi vitale a voler esagerare un po’. Dopo anni trascorsi alla periferia dell’Impero, con ingaggi tra Cina ed Emirati Arabi Uniti, il gioco, infatti, potrebbe valere la candela, anche perché non c’è nulla o quasi da perdere. Anzi, è tutto da guadagnare: fare bene alla Coppa d’Asia con le Filippine, un topolino calcistico quasi per nulla titolato e praticamente sconosciuto ai più, potrebbe essere per lo svedese l’unico modo per surfare ancora un’ultima volta sulla cresta dell’onda prima del tramonto definitivo, iscrivendosi nel solco di un tradizione ormai consolidata, quella di affidarsi all’avventura esotica per dare una scossa a una carriera in fase discendente, usandola come catapulta privilegiata per riproiettarsi nel calcio che conta. Una sorta di cosmopolitismo nato dalla necessità e non come naturale conseguenza di una vera e propria sindrome di Wanderlust – come quello professato per tutta la vita dal tedesco Rudi Gutendorf, globetrotter capace di sedere sulla panchina di venti Nazionali differenti in tutti i continenti ad eccezione dell’Europa – di cui Guus Hiddink è l’esempio perfetto: dopo i fasti col PSV, con cui ha vinto una Coppa dei Campioni sul finire degli anni ’80, l’allenatore è riuscito a sopravvivere al declino dei primi anni Duemila, ottenendo un clamoroso terzo posto (seppur con molte ombre) al Mondiale 2002 con la Corea del Sud, seguito da un altrettanto storico ottavo di finale raggiunto con l’Australia a quelli del 2006, guadagnandosi così prima la chiamata della Russia e poi quella del Chelsea di Abramovich.

In questo senso, in passato, anche lo stesso Eriksson ha effettuato scelte controintuitive, o comunque all’apparenza incomprensibili. Nel 2008, ad esempio, dopo un’esperienza fallimentare alla guida di uno degli ultimi Manchester City minimalisti della storia, si è convinto ad accettare l’offerta del Messico, alla ricerca di un degno sostituto di un totem come Hugo Sánchez, tornando così al timone di una Nazionale dopo l’esperienza in chiaroscuro con l’Inghilterra, mai condotta oltre i quarti di finale di una manifestazione internazionale. Una scelta forte, ma con una sua logica. È come se in quel momento, messo spalle al muro dal presidente thailandese del Leicester, Svengo avesse intravisto per la prima volta da vicino i fantasmi del declino e abbia coraggiosamente deciso di ripensare sé stesso, stravolgendo la propria letteratura per sopravvivere a una decadenza già avviata. «Era tutto finito col City. Così presi la decisione di lasciare l’Europa e andare in Messico. Ero felice, ma i risultati non arrivavano, soprattutto fuori casa», si è confessato ai microfoni della trasmissione Fútbol Picante. L’obiettivo era quello di traghettare il Tricolor ai Mondiali sudafricani del 2010, ma le cose non sono andate nel verso giusto, anche per colpe non sue. Accolto con tanto scetticismo ma anche curiosità al suo arrivo, tanto da essere preceduto da quello di un sosia, lo svedese è stato subito criticato per la convocazione di qualche naturalizzato di troppo, non solo dalla stampa, ma anche da alcuni giocatori. La non perfetta conoscenza della lingua spagnola, poi, ha fatto il resto. Ad esempio, durante una conferenza stampa prima di una gara col Cile c’è stato un momento, riportato anche in uno bel reportage del New York Times, dove è venuta a galla tutta l’improbabilità del matrimonio tra Eriksson e il Messico. Rispondendo alla domanda di un giornalista, che gli chiedeva se mangiasse il “chile”, sfruttando il gioco di parole con il tipico peperoncino della tradizione culinaria messicana, l’allenatore svedese è cascato nel tranello linguistico: «Certo, il Cile è un grande Paese. Santiago sarebbe un bel boccone», ha risposto ingenuamente, scatenando le risate dei giornalisti.

Dopo una vittoria nelle qualificazioni al Mondiale 2010, contro Costa Rica (Alfredo Estrella/Afp/Getty Images)

Ma il vero motivo dell’incompatibilità con il peculiare sistema-calcio messicano, Svengo lo ha raccontato nella sua biografia pubblicata qualche anno fa: «Era semplicemente assurdo. I proprietari delle squadre decidevano le sorti della Nazionale. C’è troppa politica nel calcio messicano». In tal senso uno degli episodi più surreali si è verificato nel 2009, all’indomani di una sconfitta con gli Stati Uniti in una sentitissima gara di qualificazione iridata, quando Eriksson si è ritrovato in uno stanza a essere interrogato sulle ragioni della debacle da Jorge Vergara, fondatore della multinazionale Omnilife e patron delle Chivas di Guadalajara, una delle due squadre più blasonate del Messico: «Era come se stessi rispondendo alle accuse di un tribunale», ha scritto.

A quel Mondiale, tuttavia, l’allenatore dello storico secondo scudetto della Lazio non è comunque mancato. Provvidenziale, infatti, è stata la scialuppa di salvataggio offertagli dalla Costa d’Avorio di Drogba, orfana di un condottiero dopo l’addio del bosniaco Vahid Halilhodzic, esonerato dopo l’eliminazione con l’Algeria ai quarti di Coppa d’Africa. Lo svedese ha preteso e ottenuto un salario milionario, tanto da attirarsi le critiche feroci della stampa di Abidjan, ma il Mondiale è stato un fiasco, anche perché gli Elefanti si sono ritrovati nel gruppo della morte assieme a Brasile, Portogallo e Corea del Nord, l’unica ad essere battuta in una gara però ormai ininfluente. Per entrare rapidamente nel cuore dei giocatori ivoriani Erksson ha commesso, forse, gli stessi errori del passato, quando ha adottato un approccio troppo morbido con la squadra, sposando la stessa permissivista politica del laissez-faire che alla guida dell’Inghilterra lo aveva portato a chiudere un occhio sul cosidetto “circo Beckham”: «Eriksson lascia molta libertà al gruppo. Ci piace perché è molto umile», ha dichiarato porgendogli una carezza il totem Kolo Touré. Nonostante ciò, però, l’esonero è arrivato a stretto giro di posta. Lui, però, non ha mai serbato rancore per questo, semmai si porta dietro solo qualche rimpianto: «Mi sono divertito in Costa D’Avorio. Era una squadra allegra, forte fisicamente, c’era tutto per fare bene. Il problema erano soltanto le tempistiche: mi hanno contattato solamente tre mesi prima del Mondiale. Ho avuto troppo poco tempo».

A colloquio con la Costa d’Avorio durante il Mondiale, dopo aver perso 3-1 contro il Brasile (Issouf Sanogo/Afp/Getty Images)

Fatta eccezione in parte per l’esperienza con la Nazionale inglese, della quale si ricorda più di ogni altra cosa una memorabile manita rifilata a domicilio alla Germania nel 2001, quindi, la carriera da selezionatore di Sven Göran Eriksson non è stata esattamente entusiasmante. Anzi, tutt’altro. Visti i successi con club come Göteborg, Benfica, Roma, Sampdoria e Lazio, figli di un sistema abbastanza rigido e molto codificato, sembrerebbe quasi che lo svedese sia allergico al ruolo di selezionatore, o meglio al suo essere saltuario, ma abbia bisogno del contatto quotidiano con la squadra per esaltare al massimo la propria filosofia di calcio.  Eppure, otto anni più tardi, arrivato probabilmente all’ultimo bivio di una lunga e gloriosa carriera, l’unica strada per allontanare i sarcofagi nei quali molti lo credevano già confinato e regalarsi un ultimo giro di giostra sembra essere propria quella, per dirla alla Herman Hesse, di «viaggiare e sacrificare l’ordinario a favore del caso, rinunciando al quotidiano per lo straordinario».