Il razzismo, in Italia, è uno scherzo

Da Koulibaly a Balotelli alla politica: perché in Italia non è mai stato affrontato seriamente il problema.

Ieri sera, dopo la fine della partita tra Inter e Napoli, mentre leggevo incredulo le dichiarazioni e gli articoli sui cori razzisti che sono stati indirizzati a Kalidou Koulibaly per tutta la partita, mi sono detto che forse avrei dovuto scrivere qualcosa per condannare l’episodio, qualcosa per criticare il razzismo, per sottolineare ancora una volta che un uomo africano non merita di essere insultato per questo motivo. Ma mentre ci pensavo mi ha preso un senso di nausea e di spossatezza, e ho dovuto abbandonare l’intento. Se c’è una cosa che non pensavo che avrei mai dovuto fare, alle porte del 2019, è scrivere un qualcosa contro migliaia di persone che imitano una scimmia per offendere uno dei più forti giocatori del campionato in quanto non-bianco. Non sapevo da dove iniziare e mi dicevo che è assurdo, è fuori dal tempo, non può esistere davvero. È come se un vice-presidente del Senato dicesse che un ministro della Repubblica italiana di origini congolesi gli ricorda un orangutan.

Naturalmente, il problema del razzismo non è un problema esclusivo del calcio, né è il calcio la leva su cui si può spingere per superarlo: è un problema della società ed è un problema della politica, e se vogliamo allargare il campo ed essere un filo troppo cinici, è un problema che se non si risolverà intaccherà l’economia del Paese e ne ostacolerà lo sviluppo. Ma partiamo dal calcio e da quello che ha detto Carlo Ancelotti alla fine della partita, lucido e sintetico come gli capita spesso: «La prossima volta lasceremo il campo noi e al limite ci daranno partita persa. Non è una scusa, non riguarda il Napoli, ma tutto il calcio italiano».

Rimanendo al calcio, al business del calcio, il punto sta in quella ultima frase dell’allenatore del Napoli: la Serie A vuole tornare a essere un campionato agonisticamente competitivo, cioè “bello da vedere” nei valori atletici e tecnici espressi in campo, emozionante nella lotta per il titolo. Non solo: la Serie A vuole tornare a essere un prodotto appetibile per gli sponsor, per gli investitori, le televisioni, per chi si aggiudicherà i naming rights degli stadi che, con lentezza pachidermica, si stanno iniziando a immaginare, per chi renderà più ricche quelle squadre e più felici, di conseguenza, quei tifosi. Ecco, lasciando da parte per un attimo, cioè dando per scontata, l’evidenza che il razzismo è una merda, il fatto che un atleta senegalese non possa fare il suo lavoro senza che migliaia di persone gli urlino per un’ora e tre quarti ridicole onomatopee volte a fargli notare che secondo loro l’atleta in questione sembra una scimmia, beh, è un evidente ostacolo allo sviluppo economico del campionato.

Il problema più profondo, accantonando questa volta il lato di business della questione, è che il calcio non risolve i problemi della società, ma ne è una cartina tornasole. Lo scrittore statunitense Teju Cole, il 28 giugno 2012, quando Mario Balotelli segnava il suo secondo gol personale contro la Germania agli Europei, scrisse su Twitter: «Racism just ended in Italy». Una bella speranza, naturalmente disattesa, e per molti motivi. La presenza endemica del razzismo, in Italia, non è mai stata elaborata quando doveva, e cioè dopo la fine della Seconda guerra mondiale e della disgraziata avventura coloniale in Africa orientale. La giustificazione autoassolutoria riassunta nel motto “italiani brava gente” ha fatto sì che le colpe e i crimini dell’invasione, occupazione e sterminio della popolazione eritrea ed etiope (e libica, ancora prima) venissero messe sotto il metaforico tappeto e ignorate, in nome di un “voltare pagina” che, come è ovvio, non è riuscito – anzi, si è provveduto a costruire monumenti in onore dell’assassino Rodolfo Graziani, e nei programmi delle scuole il colonialismo italiano nemmeno compare. E questo cosa c’entra con Napoli-Inter e con Koulibaly? Tutto, perché il calcio, qui, non c’entra niente.

Ma se vogliamo rimanere nell’ambito calcistico, d’accordo. Anche qui, mi vengono in mente un paio di episodi recenti: nel gennaio 2013, durante un’amichevole tra Pro Patria (una squadra di Busto Arsizio) e Milan, l’attaccante del Milan Kevin-Prince Boateng venne insultato con quegli stessi cori che ha subito Koulibaly a San Siro per tutta la partita. Lui sbottò e lanciò un pallone in tribuna verso quel centinaio di tifosi della Pro Patria e se ne andò dal campo. Venne aperta un’indagine e venne subito chiusa: tutti assolti. I cori (sempre loro, quelli onomatopeici), si legge nella motivazione, «erano sporadici, la loro destinazione non era univoca. Non ci furono esternazioni contro il calciatore di colore Emanuelson». Insomma, hanno impiccato un nero solo, un altro l’hanno lasciato libero: non ci sono quindi le basi per dire che l’hanno fatto per razzismo.

Soltanto un mese dopo, durante un comizio per sostenere Fabrizio Sala, candidato alla Regione Lombaria per il Popolo delle libertà, Paolo Berlusconi, fratello di Silvio e vice-presidente del Milan, si congedò dal pubblico dicendo che sarebbe dovuto andare allo stadio a «vedere il negretto di famiglia», ovvero Mario Balotelli. I giornali parlarono di “gaffe” e di “poco politicamente corretto”. “Un vergognoso attacco razzista che meriterebbe come minimo le dimissioni del vice-presidente del Milan” all’epoca mi sarebbe sembrata una descrizione più adeguata, ma fu evidentemente considerato un giudizio eccessivo più o meno all’unanimità. Era una boutade, come quella di Calderoli con il ministro Kyenge («una battuta», disse lui e ripeté Roberto Maroni, e lo stesso pensò evidentemente tutto il Senato, che lo assolse), come era uno scherzo il lancio di uova a Torino contro l’atleta azzurra Daisy Osakue – d’altronde l’obiettivo non era lei, ma delle generiche prostitute, naturalmente nigeriane. Ma erano scherzi anche i piombini sparati contro i migranti ad Aprilia, il tiro al bersaglio alla bambina rom di un anno e due mesi a Roma, perfino lo stragista maceratese Luca Traini sparò su sei migranti per «colpa di chi ci riempie di clandestini», secondo l’attuale ministro dell’Interno.

Sono scherzi l’aumento di crimini legati all’odio in Italia, da 472 nel 2013 a 803 nel 2016 secondo l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, è una “gaffe” il fatto che un ex allenatore di spicco e opinionista da prima serata come Arrigo Sacchi dichiari che nei vivai delle squadre italiane ci sono «troppi neri», sono un dato poco rilevante i continui episodi di razzismo nelle categorie giovanili, dove dei ragazzini del Dattilo, provincia di Trapani, danno dello «sporco negro» all’avversario Amara Touré, loro coetaneo maliano, e se la cavano con 300 euro di multa, come se fossero un paio di soste vietate.

Quindi sì, ha ragione Carlo Ancelotti nel dire che non è una scusa, che non riguarda il Napoli, ma che riguarda tutto il calcio italiano. Ma non solo: riguarda tutta l’Italia, e sospendere una partita di calcio, un atto comunque doveroso, è ancora poco. Se ne deve iniziare a discutere senza scusanti, si devono isolare i razzisti, che siano tifosi sugli spalti o vice-presidenti o ex-allenatori e opinionisti. Oppure la strada che sembrava lunga prima, si farà di anno in anno ancora più tortuosa, anziché più breve.

 

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