Tra Napoli-Lazio di campionato e Milan-Napoli di Coppa Italia, rispettivamente la migliore e la peggiore partita della squadra di Carlo Ancelotti dal punto di vista puramente prestazionale, passano meno di dieci giorni: è stato un ottovolante tattico, tecnico e psicologico che, pur nella sua difficoltà di essere spiegato analiticamente, restituisce perfettamente la distanza che separa gli azzurri non tanto dalla Juventus capolista quanto, piuttosto, dal diventare quella big che troppe volte ha dimostrato di essere solo in potenza. È una valutazione che prescinde dalle negatività dei risultati della tre giorni milanese, dalle giustificazioni del tecnico di Reggiolo che ha parlato di gara condizionata, «due disattenzioni e dopo non siamo stati brillanti per scardinare una difesa così chiusa», dal perenne confronto con quanto ottenuto da Maurizio Sarri allo stesso punto della stagione precedente: la sensazione, infatti, è che le attuali difficoltà dei partenopei risiedano nell’impossibilità di continuare a far coesistere i retaggi della vecchia gestione con gli accorgimenti apportati in questi primi sei mesi della nuova, quasi come se il Napoli stesse ancora cercando la sua reale dimensione prima ancora che una precisa identità tattica.
Proprio il contesto e la tempistica destano qualche preoccupazione sulle prospettive a medio termine: se le sconfitte contro Sampdoria e Juventus potevano essere giustificate nella logica di un percorso di crescita per lo sviluppo di un nuovo sistema di gioco, le ultime battute d’arresto raccontano di una squadra ancora in cerca d’autore con buona metà di stagione già alle spalle, con due obiettivi su tre (Coppa Italia e qualificazione agli ottavi di Champions) già sfumati e con un campionato che rischia di aver già detto tutto quanto aveva da dire, tanto più se la vetta è distante 11 punti e il vantaggio sulla Roma quinta è salito a quota 14.
Il ko contro la Sampdoria a Marassi, il primo della nuova era Ancelotti
Proprio la sconfitta contro i blucerchiati aveva convinto Ancelotti ad abbandonare il 4-3-3 sarriano in favore di un 4-4-2 spurio – «è uno schema che adottiamo solo in fase difensiva, continueremo a giocare così e non cambieremo nelle prossime gare», ha detto nell’immediato post gara di San Siro – in cui i principali accorgimenti erano costituiti dall’avanzamento di Insigne a seconda punta accanto a Mertens e/o Milik e all’utilizzo di Fabian Ruiz come esterno atipico in modo da consolidare il possesso nella porzione di campo in cui Mario Rui prima e Ghoulam poi avrebbero potuto offrire una valida alternativa alla spinta di Callejon sul lato opposto. E, tutto sommato, fino a dicembre i dividendi erano stati ottimi: Insigne, prima del digiuno che perdura dal 6 novembre, aveva mandato a referto nove gol e tre assist in otto partite, l’ex Betis Siviglia si è affermato in tempi brevi come uno dei migliori centrocampisti del panorama italiano e internazionale, e lo stesso Milik aveva riscoperto la centralità perduta nelle ultime due annate causa infortunio (otto reti nel solo mese di dicembre, 18 in 24 presenze dall’inizio della stagione) sopperendo ai cali di rendimento di un Mertens non più così a suo agio nel ruolo di primo riferimento offensivo.
La palla che, però, avrebbe potuto cambiare il volto della stagione del Napoli Milik l’ha calciata addosso ad Alisson
Proprio l’essere così legato a doppio filo alle prestazioni dei singoli ha costituito, costituisce e, a questo punto, costituirà il principale discrimine rispetto al recente passato. Rispetto al collettivismo sarriano, dove le caratteristiche dei giocatori erano perfettamente collocate all’interno di un sistema che supplisse alle mancanze, temporanee o endemiche, dei singoli, la visione di Ancelotti si è dimostrata molto più tendente a delegare e “responsabilizzare” gli interpreti, soprattutto per quel che riguarda la fase di possesso. Una discontinuità netta e che ha manifestato le dovute controindicazioni quando lo stesso Insigne è entrato in quella fase involutiva iniziata quando ha cominciato a essere fatalmente (ri)attratto dalla comfort zone dell’amato centro sinistra, Koulibaly e Albiol hanno cominciato a soffrire di fisiologici cali di rendimento, Allan ha pensato concretamente a un immediato futuro lontano da Napoli e dal Napoli. Venendo meno il presupposto della giocata lasciata all’intuizione del singolo (e, quindi, non codificata e, in linea teorica, meno leggibile dagli avversari in situazioni di read and react) ecco che dal punto di vista offensivo gli azzurri possono talvolta risultare molto più lenti e prevedibili di quanto in realtà non siano. E comunque, l’idea di un playbook che finisca con l’accentuare i difetti quando non tutto, anzi non tutti, girano alla perfezione, costituisce un rischio ampiamente calcolato oltre che un paradosso solo apparente: la formazione ampiamente sperimentale, priva di ben quattro elementi chiave, che ha ben figurato al San Paolo contro la Lazio, lascia la sensazione di una squadra in grado di vincere (e perdere) contro chiunque. Esattamente come ai tempi di Benitez, seppur con una base di partenza tecnicamente e tatticamente molto più solida. Tuttavia, sempre al termine della gara di Coppa Italia, Ancelotti ha insistito sul concetto di “incidente di percorso” che, però, «non deve ingigantire i problemi che pure ci sono e vanno risolti».
Il successo, molto più ampio di quanto dica il punteggio, contro la Lazio
C’è, infine, un ulteriore e non secondario aspetto da considerare che è quello legato alla progettualità. Il contratto triennale che lega Ancelotti al Napoli lascerebbe pensare a una crescita continuativa e organica del patrimonio tecnico a disposizione: crescita che non può non passare dai dovuti esperimenti sul parco giocatori – e questo spiegherebbe in parte lo scorso mercato estivo relativamente conservativo – per capire chi e dove potrà tornare utile anche in futuro, quando bisognerà provare a raccogliere quanto seminato, magari attraverso investimenti ed innesti mirati. Un “laboratorio” che può essere portato avanti senza pagare eccessivo dazio in un’annata di transizione sui generis e che, però, potrebbe lasciare più di qualche dubbio sulla reale consistenza di un gruppo ancora alla ricerca di un centro di gravità che sia permanente e non più solo temporaneo. Perché senza equilibri, tattici e non, non si va lontano, e il Napoli sembra aver momentaneamente smarrito i suoi.