Calcio, memoria e architettura

Peter Eisenman, architetto tra i più grandi e appassionato di Serie C.

Peter Eisenman è fra i più istrionici architetti americani, nato a Newark (New Jersey) un anno prima di Philip Roth, da decenni ha studio vicino alla Quinta strada, non lontano dall’iconico Flat Iron Building. È professore a Yale, autore della Città della Cultura a Santiago de Compostela, del Memoriale agli ebrei uccisi in Europa di Berlino con la sua impressionante distesa di steli di cemento mute, cioè prive di simboli e iscrizioni. Pur avendo lavorato in diversi Paesi è in Italia che ama recarsi più di ogni altro Paese con i suoi studenti, non solo per l’architettura.

Ⓤ Il calcio è diventato popolare da pochi anni negli Usa, non è strano che un intellettuale newyorchese americano come lei lo segua da oltre mezzo secolo?

Sì, è molto raro in effetti. Tutto è cominciato quando sono arrivato a Cambridge per il mio PhD nel 1960. All’inizio seguivo di più il rugby perché era più diffuso tra gli universitari e soprattutto perché alla fine dell’anno c’era il derby Cambridge-Oxford che era ed è molto sentito, andavo alle partite con Kenneth-Frampton, uno dei massimi storici dell’architettura, oggi professore emerito a Columbia. Il calcio allora in Inghilterra era più uno sport per ragazzi di provincia, ma poi ho sentito parlare del Tottenham che nel 1960/61 fece il primo “double” del secolo, campionato e FA Cup. L’anno dopo poi arrivò uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi, Jimmy Greaves, dopo una parentesi sfortunata di qualche mese al Milan dove non andava d’accordo con Nereo Rocco, appena arrivato per una cifra record fra gli Spurs, cominciò a fare una caterva di gol tanto che andai a vedere una partita a Londra.

Ⓤ Com’era il calcio inglese nei primi anni ’60?

Era il contrario di quello di oggi: lo schema era 1-2-3-5, completamente sbilanciato in attacco con le ali sulle fasce e il resto, i due difensori erano sempre soli laggiù in mezzo al campo e avevano un ruolo del tutto secondario. Il catenaccio non era ancora arrivato.

Ⓤ Invece quando ha conosciuto il calcio italiano per la prima volta?

«Molti stadi italiani hanno una grazia ingegneristica non comune, come lo stadio Giuseppe Sinigaglia
di Como»
Un po’ per caso. Insieme al mio maestro Colin Rowe – raffinato storico dell’arte e dell’architettura manierista – avevamo cominciato un grande viaggio in Italia, da Como fino alla Sicilia per visitare i monumenti architettonici e le scuole pittoriche. Arrivati a Mantova per visitare le chiese di Leon Battista Alberti e il Palazzo Te di Giulio Romano, andammo a pranzo nello stesso ristorante dove mangiava la locale squadra di calcio che all’epoca giocava in Serie A e rimasi colpito dalla maglia con la fascia rossa obliqua. In più avevo notato che molti stadi italiani avevano una grazia ingegneristica non comune, come lo stadio Giuseppe Sinigaglia di Como da dove si poteva vedere il vicino lago ma soprattutto vicino a due architetture, il Novocomum e la casa Giuliani-Frigerio di Giuseppe Terragni, un architetto che scoprii solo andandoci direttamente perché all’epoca non era presente nei manuali di architettura per via dei suoi trascorsi professionali con il regime fascista. In seguito ho scritto un libro solo sulla sua opera.

Ⓤ Quali sono stati invece altri stadi italiani che l’hanno colpita?

Sicuramente La Favorita di Palermo, dove nell’inverno del ’61 sono andato a vedere Palermo-Bologna. Era la vigilia di Natale e pioveva, rimasi profondamente colpito dall’eleganza dei palermitani perché tutti indossavano degli impermeabili, mentre negli stadi americani e anche in quelli inglesi l’abbigliamento era decisamente molto più casual… Mi piaceva molto un centrocampista del Bologna, Giacomo Bulgarelli, potente e intraprendente.

Ⓤ Oltre al calcio giocato quali altri aspetti di questo sport l’hanno attratta?

Siccome volevo imparare l’italiano, ma non avevo molto tempo per seguire corsi, leggevo La Gazzetta dello Sport e attraverso le notizie sportive attaccavo bottone con i camerieri, i portieri d’albergo o gli autisti per esercitare il mio italiano anche se parallelamente compravo vecchi numeri di riviste storiche come Casabella che poi ho cominciato a collezionare.

Ⓤ Quando poi è tornato a New York ha usato il calcio anche a livello estetico, a me sembra anche con una certa dose di snobismo per esempio quando dirigeva il prestigioso Institute for Architectural and Urban Studies (dov’è transitata gente come suo cugino Richard Meier, Aldo Rossi, Rafael Moneo, Rem Koolhaas e molti altri) ricordo che avevate costituito una maglietta ufficiale come quella di una squadra.

Sì, è stato divertente, anche in occasione della medaglia d’oro dell’American Institute of Architects conferita a Philip Johnson nel 1978 – curator del MoMA e architetto del grattacielo AT&T – invitò dieci amici fra cui io, Frank Gehry, Richard Meier, e pubblicammo un fotomontaggio come una squadra di calcio in cui lui era il nostro allenatore. Negli anni ’70 fra l’altro devi ricordare che erano diventati piuttosto popolari i New York Cosmos di Franz Beckenbauer, Pelé e Giorgio Chinaglia.

Ⓤ So che lei è fra i fortunati che ha potuto assistere alla finale del Mondiale del 1982 in Spagna, mi racconta com’è andata?

«Ho visto
Italia-Germania, la finale dei Mondiali 82.
Fu davvero una bella partita, giocata in un’atmosfera unica, con un Paolo Rossi memorabile. Ancora oggi ai Mondiali tifo sempre per gli Azzurri, non provo nessun trasporto per la Nazionale Usa»
Ero a New York quando all’improvviso chiesi a mio figlio Nick, che ne dici se andiamo al Mondiale di calcio? Grazie ad alcuni amici spagnoli come Federico Correa e Rafael Moneo (Pritzker Prize per l’architettura, in seguito preside di Harvard) arrivammo a Barcellona la sera stessa in cui l’Italia batté il Brasile allo Stadio di Sarriá. C’era un’enorme euforia in città, in molti fra i catalani simpatizzavano per gli italiani, ma la vera lezione che non potrò mai dimenticare la ebbi il giorno dopo quando presi una copia della Gazzetta e vidi un titolo veramente incomprensibile per me: “Il Brasile siamo noi”! È semplicemente intraducibile, in inglese un titolo del genere non avrebbe alcun senso “we are Brazil”, voi italiani avete dei modi di pensiero che a noi anglosassoni sono preclusi. Dopo ne ho approfittato per visitare città che mi interessavano come Pamplona, devo dire che la finale di Madrid con la Germania Ovest fu davvero un grande match, una bella partita giocata in un’atmosfera unica con un Paolo Rossi memorabile. Ancora oggi ai mondiali tifo sempre per gli Azzurri, non provo nessun trasporto per la Nazionale Usa.

Ⓤ È vero che nei primi anni ’80 ha scritto anche degli articoli sul calcio?

Sì, cominciavo a essere abbastanza noto come architetto, ed ebbi l’occasione di scriverne alcuni per l’allegato domenicale di Paese Sera. Scelsi di pubblicarli sotto lo pseudonimo di Ernesto Di Casarotta, un piccolo omaggio a Casabella se vuole. Una volta in vaporetto a Venezia, incontrai Manfredo Tafuri, temuto storico e critico di architettura, che mi chiese «chi è questo?», sospettando evidentemente di me, ma negai, «non lo so…» In seguito ho scritto anche un lungo articolo sul calcio per il New York Times.

Ⓤ Lei però non è tifoso di una squadra in particolare, anzi le piace cambiare maglia, seguirne più di una, che da noi è un tabù: si resta legati per sempre solo a una squadra. Inoltre sembra essere interessato più alle serie minori come, come mai?

In generale sono sempre stato dalla parte degli underdog, anche in architettura come appunto Terragni. Per questo faccio il tifo per il Como, ma anche per l’Udinese perché per molti anni ho avuto come assistente prima alla Cooper Union University e poi in studio, Guido Zuliani, un caro amico che è appunto di Udine e oltre all’amicizia apprezzo il modo in cui questa società si è molto ben organizzata con il nuovo stadio, la ricerca dei giovani talenti, eccetera. Ma in generale sono più interessato alle partite che ai singoli giocatori o alle squadre. Rimpiango la vecchia Serie C che era così chiara, perché per me osservarla è sempre stato un modo per conoscere l’Italia più a fondo e ricordare le architetture non tanto minori spesso legate a queste piccole squadre, così quando leggo Vigevano in Prima categoria penso anche alla sua piazza di Bramante (la mia preferita in Italia), se leggo Lanerossi Vicenza penso alle ville di Palladio, se leggo Ascoli ripenso alla sua piazza del Popolo e così via. Quando vado in giro a fare conferenze poi mi piace sempre comprare le maglie delle squadre locali e spesso le indosso alla fine come ho fatto a Barcellona con quella blaugrana, a Istanbul con quella del Galatasaray ma anche a Napoli: è un modo per entrare in sintonia con le persone del posto. Oggi ho una collezione di oltre trecento maglie.

Ⓤ Il calcio e l’architettura hanno molte analogie, sembra suggerirci che questo sport l’ha aiutata a capire meglio anche la sua disciplina, tanto che è forse l’unico architetto ad aver pubblicato un libro con un titolo calcistico, Contropiede (Skira, 2005).

«Mi ha sempre molto colpito quest’idea del contropiede, particolarmente da quando penso che il calcio e l’architettura sono entrambi campi diagrammatici» Sicuramente mi è sempre piaciuto guardare l’architettura attraverso il calcio, i suoi movimenti, gli schemi, i ruoli: mi piace ad esempio esemplificare il peso di un architetto dandogli un numero per la maglia, ho dato il 9 ad Aldo Rossi e il 2 a John Hejduk che era il mio preside alla Cooper Union. Inoltre conoscere il tifo di alcuni miei amici e colleghi mi ha permesso di capire meglio le loro personalità, penso alla lazialità di Carlo Aymonino, alla fede per il Basilea di Jacques Herzog o a quella per l’Inter di Stefano Boeri che da assessore, nel 2012, mi ha conferito un’onorificenza ufficiale del Comune di Milano anche per meriti calcistici (con una maglietta ufficiale dell’Inter in omaggio). Il contropiede poi per me non è solo un termine tecnico, ma una filosofia di vita, come ho scritto: «Mi ha sempre colpito quest’idea del contropiede, particolarmente da quando penso che il calcio e l’architettura sono entrambi campi diagrammatici. Io reagisco alle circostanze, piuttosto che iniziarle».

Ⓤ Ci sono altri sport che segue, oltre al calcio?

Sì, il football, nel 2006 ho costruito lo stadio degli Arizona Cardinals a Phoenix, in Arizona, ma ultimamente mi sto appassionando agli scacchi. Anche se è sempre una questione di difesa e attacco, quindi per me si tratta di una specie di calcio concettuale.

Foto di Fabrizio Albertini
Dal numero 25 di Undici