Gianluca Mancini, arrivare in alto

A 22 anni è uno dei punti fermi dell'Atalanta. Grazie a Gasperini, e a una feroce applicazione.

Quando chiedo le tre caratteristiche con cui si descriverebbe come calciatore, Gianluca Mancini risponde d’istinto: «L’aggressività». Poi si porta la mano destra al mento, riflette per un istante e, per completare, aggiunge «la forza nei duelli aerei e l’abilità con il pallone tra i piedi». Ma non è soddisfatto: era la domanda più semplice tra quelle che mi ero appuntato prima dell’intervista, eppure è quella che lo obbliga a una riflessione più accurata. Il motivo risulterà evidente a colloquio terminato: Mancini non ama considerare i propri pregi perché li ritiene tutti migliorabili. Figuriamoci, quindi, il resto. È guidato da un’intima sensazione di incompletezza: potrebbe essere una debolezza, invece è la sua forza. Mancini ha 22 anni, due anni fa giocava in B nel Perugia, ora è alla seconda stagione in A con l’Atalanta con cui, mentre scriviamo, ha collezionato 6 reti in 20 presenze complessive, ha esordito in Europa, è pilastro dell’Under 21 che in estate disputerà gli Europei in casa e lo scorso novembre si è guadagnato la prima convocazione in Nazionale maggiore dal ct omonimo ma non parente. Eppure non si concede nemmeno un attimo per guardare la strada che si è lasciato alle spalle. «La mia ricetta è semplice: andare avanti, sempre. Con tranquillità e rimanendo se stessi, allenandosi bene e senza pensare “ce la faccio o non ce la faccio”. Le cose poi accadono di conseguenza». Facile a dirsi, meno a farsi.

Torno con la mente all’“aggressività”, l’unica caratteristica di cui mi era parso convinto. Credo la ritenga importante perché è la chiave che Gasperini gli ha consegnato per compiere il salto di qualità, per trasformare lo sconosciuto Mancini in uno dei migliori difensori sul panorama nazionale. «Il mister chiede a noi difensori di andare sempre in avanti, di essere aggressivi, di spingere e creare la superiorità numerica in fase offensiva: poche squadre lo fanno in Italia, forse nessuna». Quindi un centrale dell’Atalanta è obbligato ad assumersi responsabilità, ad uscire dalla zona di comfort. In questo modo, cresce. Velocemente. Ecco perché, secondo Mancini, «avere Gasperini come primo allenatore in A è un’occasione unica. È il miglior modo per diventare un grande calciatore».

Mancini impara in fretta anche perché è interessato al calcio e alla sua professione. Ascolta, vuole capire e misurarsi. Me ne accorgo anche perché non interrompe mai le domande, semmai cerca il contatto visivo per interpretarle al meglio ed essere preciso nella risposta. Ha 22 anni e il successo lo ha travolto all’improvviso, potrebbe essere sbrigativo e snob, invece non vuole essere banale e non ha alcuna fretta. «La notorietà non mi influenza perché può arrivare, ma anche scomparire da un momento all’altro. Bastano due partite fatte male che non ti guarda più nessuno».

Fatalista e concreto. Credo abbia riflettuto a lungo sulla gestione dell’ascesa e proprio perché ha anticipato il pensiero è arrivato “pronto” al grande salto. Con la testa preparata. E ora in grado di ritagliarsi un’oasi in cui continuare il percorso di crescita. Nemmeno l’interesse di altre società è una distrazione: «Non mi condiziona anche perché, di questi tempi, quando un giovane inizia a giocare bene escono troppi articoli, troppe attenzioni, che non sono sempre meritate. Dieci anni fa per arrivare in A dovevi sudare di più, ora basta relativamente poco, ma al contempo è un attimo buttare via tutto». La critica al trattamento che i media riservano ai giovani è interessante considerando che a esporla è un diretto interessato. C’è il rischio di bruciare un patrimonio che, finalmente, sembra smisurato? «Noi giovani ora cresciamo perché abbiamo trovato continuità nei club. È una cosa positiva. Di contro, però, penso che la situazione mediatica non migliorerà. I media spingono troppo in entrambi i sensi: esaltano un giovane che fa bene e lo affossano quando fa male. Ci vorrebbe misura. È giusto sottolineare la crescita di un talento, ma poi bisogna accettare gli errori e dei periodi negativi, anche stagioni intere in cui il rendimento si abbassa».

La forza mentale è lo scudo dietro al quale Mancini si protegge. Eppure quando chiedo in cosa deve migliorare, risponde «nella gestione della pressione, nell’approccio alla partita, nella concentrazione». Mancini pensa di dover affinare ciò in cui già eccelle. È un paradosso che lo descrive con precisione. È un ragazzo aggrappato al senso del lavoro quotidiano, convinto che nulla gli sia dovuto. È questa la vera ragione della sua ascesa. «Infatti non mi sentivo un predestinato. Ho mangiato tanta polvere, nessuno mi ha regalato niente ed è ancora così». Si intuisce un vissuto costellato di decisioni difficili e sacrifici, come i 60 chilometri che lo separavano da Pontedera a Firenze, dove la Fiorentina lo ha ospitato negli anni delle giovanili, o come il doppio e inatteso trasloco, prima a Perugia e poi a Bergamo. Quando chiedo qual è stato il momento della svolta, Mancini sposta lo scudo e svela la sua genuina umanità: «Capitò nel secondo a Perugia. Inizia la stagione da titolare, poi mi feci male e rimasi fuori due mesi e mezzo. Appena rientrato, mi infortunai di nuovo. Tornai in campo a metà gennaio, giocai le prime due di ritorno, poi saltò il ginocchio: altri tre mesi e mezzo fermo. La presi come un’annata maledetta, così quando il mister Bucchi, ora a Benevento, mi chiamò, gli dissi che non avrei più voluto giocare fino alla stagione successiva, anche perché nel frattempo l’Atalanta mi aveva acquistato e temevo di perdere il treno. Ma il mister mi caricò, mi sentii importante, ricordo che mi fece anche piangere. Cambiai idea, lavorai per tornare in campo il prima possibile. Scattò qualcosa a livello mentale, iniziai a vedere il calcio in maniera diversa. In quel momento sono diventato professionista al 100 per cento».

Mancini ha capito che la difficoltà non è tanto arrivare in alto, ma rimanerci. Già, ma come? «Imparando velocemente quanto chiede l’allenatore, altrimenti si diventa inutili. E assorbendo segreti dai compagni più esperti, come Papu Gómez, Ilicic, Masiello o Toloi». Mancini mette al centro il comportamento e la mentalità. Anche quando spiega il motivo per cui il suo idolo è Materazzi, a cui ha dedicato il 23 sulla maglia e un tatuaggio, non fa riferimento ai gol o alle qualità tecniche, ma «alle doti morali»: «In lui vedevo grande carisma e grinta. Era uno che ci metteva la faccia anche quando le cose andavano male. Spronava i compagni, si faceva sentire. Tutte doti che mi piacciono». Tutte doti “umane”, che prescindono dal calcio.

Tra i suoi appigli cita la “storica” fidanzata, che «lo conosce e lo capisce», i genitori e gli amici, con cui non parla di calcio perché vuole «rimanere il Gianluca di sempre». Mancini non smentisce la sua genuinità nemmeno quando posa per le fotografie che accompagnano questa intervista: non si atteggia a divo, si presta alle indicazioni. È disponibile e divertito. Mentre lo osservo, la sua compagna mi sussurra: «Pensa che in realtà non ama le foto e i riflettori». Eppure li accetta, Mancini. Cerca un modo per sentirsi a suo agio perché sa che fanno parte del mestiere di calciatore. E quindi della sua vita, presente e, di certo, futura.

 

 

Dal numero 26 di Undici. Foto di Henrik Blomqvist