Il calcio funziona in modo simile ai film horror più semplici, per uno spettatore: si è immersi in una melassa di attesa per minuti, minuti, minuti, fino a che il gol, il mostro, non salta fuori da una porta a farci urlare e a scombinare il regolare battito cardiaco mettendo anche a rischio la vita delle persone più fragili. Ci sono pochi mostri e pochi gol, generalmente, ed è per questo che sono così preziosi. Il calcio è uno sport avaro di emozioni ed è questa stessa avarizia il motivo del suo successo. Quello che è successo martedì 7 maggio e mercoledì 8 maggio, a Liverpool e ad Amsterdam, si può invece pensare come un terremoto di questi postulati, un evento che fa tremare tutto in continuazione, che distrugge i templi com’erano fatti, che riduce in pochi minuti tutto in pezzetti.
Ci sono due modi per leggere il calcio: uno è il modo analitico, che è quello della tattica, degli allenatori, delle – appunto – analisi che tentiamo di fare anche qui, su queste pagine, il modo che spiega perché il Tottenham è riuscito a battere l’Ajax annullandolo nel secondo tempo, perché e come il Liverpool ha annientato il Barcellona. Poi c’è il modo emotivo, sintetico, quello più immediato che è la base su cui ogni analisi nasce. Un modo fanciullesco, quello che fa aumentare il battito cardiaco quando c’è un gol, che allo stadio vi (ci) fa urlare e saltare in piedi e talvolta cadere poi per terra, e da terra o da in piedi abbracciare le persone che ci stanno intorno anche se non sappiamo come si chiamano o che partito votano – il calcio, da guardare, è uno sport per selvaggi.
Dal punto di vista emotivo, le due semifinali di Champions League sono state uno spin-off del calcio, una fan fiction, quello che sarebbe successo se la sceneggiatura del mondo fosse stata in mano a un bambino di sette anni. Quattro squadre, nel giro di due giorni, hanno preso uno sport la cui raison d’être è l’avarizia di eventi decisivi, e l’hanno trasformato in una versione musical di Rambo, in cui non c’è un momento di pausa, fatta di balli, capriole, esplosioni, attacchi di cuore. Emotivamente, le due semifinali di Champions League sono state assurde – nel senso di contrarie al buon senso: il calcio non funziona così, non ha mai funzionato così, soltanto uno sciocco o un ubriaco avrebbe potuto immaginare destini simili. Pure l’intervista post-partita di Pochettino dimostra la vittoria, temporanea, dell’assurdo sul ragionevole, nel suo balbettare costante “thank you football” in cui sembra in preda a un acutissimo episodio di disturbo post traumatico da stress.
Pochettino stesso ha detto, dopo la partita, che non c’entrano le sostituzioni e non c’entrano i cambiamenti tattici, che era una questione di crederci, ed è probabilmente vero (certo, in parte) come è vero anche, quindi, che queste due partite non ci insegnano granché sulle idee del calcio, sfuggono più di altre all’interpretazione analitica, soprattutto non significano e non sono lezioni al Barcellona né all’Ajax, non sono vittorie di idee di calcio su altre idee di calcio, almeno non vittorie definitive e ideologiche. Davanti al Tottenham e al Liverpool siamo come il primitivo davanti al fulmine e all’incendio, testimoni di eventi fuori dalla comprensione per cui stavolta, però, dobbiamo resistere alla tentazione di creare una teleologia per spiegarli. È stato un glitch, è stato un terremoto, non illudiamoci che sarà sempre così, anzi per fortuna non andrà sempre così, non è questo il calcio normale. Dopo il terremoto si ricostruisce quello che c’era prima, e faremo anche noi tutti così: tornando alle nostre Serie A di salvezze decise a febbraio, raccogliendo i cocci dei nostri sogni olandesi infranti, aspettando un altro terremoto, ma chissà quando, probabilmente non per il primo giugno a Madrid, probabilmente.