Manuela Giugliano, arrivare in alto

Ha solo 22 anni, ma è già un simbolo del Milan e della crescita del calcio femminile.

Manuela Giugliano è una giocatrice italiana classe ’97. Di lei so che gioca in Serie A e con la Nazionale, che ha l’accento veneto e che su Fifa c’è il suo personaggio, con il ciuffo rosso e la rasatura a lato. Arriva all’appuntamento dieci minuti dopo di me, mi viene incontro, sorride – lo fa spesso – e dice che si è trasferita a Milano a inizio stagione, in un residence in cui vive con le altre giocatrici del Milan, che si deve ancora abituare alla città. «Ho iniziato a 6 anni, nel campetto sotto casa con mio papà in porta e mio fratello contro. Giocavo solo coi maschi». Come in molte famiglie di giocatrici, il papà è fiero e la mamma preoccupata. È stato così per Manuela, come per Keira Knightley in Sognando Beckham. «Mamma mi voleva pallavolista, eppure sono nana, giocavo solo con i piedi. L’abbiamo costretta ad arrendersi». Quando era una bambina, al campetto con gli amici del fratello, l’avevano vista giocare quelli della società Istrana: «Mi hanno presa subito», dice. Le chiedo – ingenuamente – se la Istrana avesse una squadra femminile. «Ovviamente no. Ho giocato con i maschi per quattro anni, dai sei ai tredici».

 

A metà gennaio su Rai Storia davano un documentario bello dell’83, si chiama su un presunto boom del calcio femminile. Inizia con la voce fuori campo del giornalista sulle immagini di un allenamento della Nazionale: «Ormai non c’è più dubbio, è arrivato il momento del boom del calcio femminile. I recenti successi della Nazionale confermano che è finita l’epoca pionieristica, quella delle mille difficoltà, dei pregiudizi e delle ironie». Le chiedo, allora, se è davvero finita l’epoca pionieristica, quella delle mille difficoltà, dei pregiudizi e delle ironie. «In Italia siamo ancora molto indietro, in Svezia il calcio femminile è seguitissimo, all’estero – in generale – è considerato una cosa seria molto più che qui», risponde. Ma non traspare neanche un po’ di rabbia o di amarezza, Manuela è allegra, e quando non c’è niente da sorridere assume un atteggiamento serio, determinato, con cui affronta il tema del poco spazio dato al calcio femminile in Italia. Però lei ha avuto l’occasione di giocare all’estero, con la femminile dell’Atlético Madrid, ed è scappata dopo quindici giorni. «Ho sempre saputo che oltre al calcio c’è altro, anche quando tutti intorno a me garantivano che sarei diventata una campionessa. All’Atlético ero davvero troppo piccola, avevo nostalgia dei miei, non sorridevo mai».

Ma oggi, il calcio femminile, è un lavoro? «Non lo è neanche per chi gioca in Serie A e in Nazionale come me, c’è un po’ un circolo vizioso, alle ragazze talentuose – a differenza dei maschi – non conviene rinunciare a tutto per il pallone». C’è qualche collega di talento che hai visto smettere per questo motivo? «Non tra le colleghe che conosco, ma io per prima non mi posso permettere di dedicarci tutta me stessa, devo tenere in piedi altre opzioni». Le professioniste che devono costruirsi una vita fuori dalla “professione” non aiutano tutto il settore a crescere, «poi c’è il fatto che noi siamo un po’ più coscienziose dei maschi, che appena entrati tra i dilettanti e mollano tutto il resto». Le chiedo cos’ha il calcio femminile che quello maschile non ha, o non ha più. Ma per Manuela sono proprio due sport diversi. Quello femminile «è ancora puro». «Io non ho mai capito se i maschi si divertono a giocare. Poi davvero, il calcio è bello, ma c’è tanto altro nella vita». E tu a cosa pensi quando pensi ad altro? «Vorrei lavorare con i bambini, soprattutto quelli problematici. Soprattutto mi vedo nel cortile a giocare a pallone con le bimbe».

«Il calcio femminile sembra ancora un po’ uno sport da tipe “strane”, ma noi potremmo essere la generazione che cambia le cose. Dobbiamo farci conoscere, devono farci conoscere»

In Italia sono state dette cose orribili sul calcio femminile, e sono state dette da persone importanti, con ruoli fondamentali nella Federazione. L’ultima dichiarazione del genere, in ordine cronologico, è stata di Fulvio Collovati alla trasmissione Quelli che il calcio: «Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco», ha detto. Perché non c’è stata una vostra reazione? Manuela dice: «Noi come gruppo, a livello nazionale, ne abbiamo parlato tanto, ma solo tra noi. La verità è che ci sembrava non potessimo fare molto. Per indole siamo abituate a dimostrare le cose in campo». Quale sarebbe il cambiamento più urgente? «In primis la copertura mediatica. Il resto viene di conseguenza. Con le televisioni arrivano gli sponsor, e con gli sponsor i soldi». Così le bambine incominciano a trovarlo figo, il calcio. «Oggi sembra ancora un po’ uno sport da tipe “strane”, ma se noi ci muoviamo bene potremmo essere la generazione che cambia le cose. Dobbiamo farci conoscere, devono farci conoscere». Le cose sono già un po’ cambiate da quelle dichiarazioni di tre anni fa, è vero? «Negli ultimi due anni c’è stata, finalmente, la rivoluzione». Siamo ancora lontani dallo spazio che hanno le colleghe tedesche o spagnole di Manuela, ma negli ultimi due anni sono nate le squadre femminili della Fiorentina, poi della Juventus e del Milan, dove gioca lei. È cambiata la qualità dei centri sportivi, lo staff medico e quello tecnico.

A giugno, poi, ci saranno i Mondiali in Francia, e l’Italia si è qualificata dopo 20 anni di assenza. Sinceramente, quando voi vi siete qualificate e i vostri colleghi maschi no, avete perfidamente gioito? Ride. «No, gioia no, giochiamo comunque tutti in Nazionale, però magari è l’occasione buona per un po’ di visibilità. Tutti i miei idoli sono maschi, il mio giocatore del cuore è Del Piero, anche se in campo imito Pirlo, mi vedo le sue azioni su Youtube, penso che quello sia il mio tipo di gioco e il mio tipo di ruolo. Però ho un po’ di cose da rimproverare ai grandi nomi del pallone, non ci sono mai venute a vedere giocare una volta. Loro potrebbero molto per farci avere l’attenzione che meritiamo».

«I maschi si possono permettere la competizione interna alla categoria, a volte anche un po’ ridicola»

Prima di essere una calciatrice, però, Manuela è un’adolescente, anche se atipica. Era già ai massimi livelli prima dei 17 anni, e come funziona la crescita di una calciatrice di prospetto? «Per me è stato tutto un po’ diverso rispetto a come sia normalmente essere adolescenti in Italia. In un certo senso ho avuto un’adolescenza “d’altri tempi”, nel senso di molto fisica. A 17 anni ero alla Torres, in Sardegna, il primo anno fuori casa senza mamma né papà. E molto poco online. Non solo perché mi allenavo tanto, ero fuori casa: dovevo stirare, fare il bucato e la spesa. Ho imparato a cucinare in Sardegna, sono diventata grande quell’anno alla Torres. E poi rapporti umani ogni minuto, in campo e nello spogliatoio con le compagne, ma anche nel residence dove dormivamo tutte insieme».

Tutte le volte che ha fatto riferimento al calcio femminile, Manuela lo ha chiamato “movimento”, “il nostro movimento” (anche Nike lo chiama così, il movimento “Just Do It – Nulla può fermarci”, per promuovere la partecipazione sportiva delle adolescenti in Italia, ndr). Come se il loro calcio fosse una missione. «Ci lavoriamo noi per farlo crescere», dice, e sembra che l’obiettivo di questa generazione di calciatrici sia di essere l’ultima a stare in sordina. Di buttare giù le pareti. «I maschi si possono permettere la competizione interna alla categoria, a volte anche un po’ ridicola». Loro, Manuela e le altre, devono prima cambiare le condizioni generali, ed è una cosa che si fa solo insieme.

 

Dal numero 26 di Undici
Foto di Henrik Blomqvist