Il giorno dopo l’incredibile buzzer beater con cui Kawhi Leonard aveva eliminato i Philadelphia 76ers in gara-7 delle semifinali della Eastern Conference, la sensazione comune era che quella giocata fosse stata la rappresentazione di qualcosa di più di un highlight da copertina. Qualcosa che aveva superato persino la facile retorica della chiusura del cerchio aperto nel 2001 dall’errore di Vince Carter in un’altra gara-7 contro un’altra versione dei Sixers, quelli con Allen Iverson in campo e Larry Brown in panchina. Quel canestro, segnato in quel modo contro quell’avversario dal giocatore che incarnava l’idea stessa di cambiamento, aveva rappresentato il momento in cui i Toronto Raptors avevano preso coscienza che la loro scalata all’olimpo della NBA, dopo un quarto di secolo passato quasi sempre dalla parte sbagliata della storia, stava finalmente per concludersi. Certo, per riuscirci era stato necessario l’arrivo del “distruttore di dinastie”, della più antisistemica delle superstar – «Non gioco “hero basketball”. Non gioco per i tifosi. Io gioco per vincere, non per battere record» – nella lega che ha fatto dello star system uno tra i suoi elementi più riconosciuti e riconoscibili, ma anche questo faceva parte di un finale già scritto, dell’unica conclusione possibile di una sceneggiatura unica nel suo genere. O, meglio, di un progetto la cui pianificazione è talmente risalente nel tempo da escludere fin da ora la componente casuale da “one season wonder”, nonostante gli alti e bassi fatti registrare dall’inizio del nuovo millennio.
Oggi, risultati sportivi a parte, non è sbagliato considerare Toronto come uno dei mercati più interessanti e in espansione della Nba: rinnovamento di logo e colori sociali; un roster costruito a immagine e somiglianza del giocatore di riferimento; il rebranding “We The North” che strizza l’occhio alle atmosfere di Game of Thrones, anche solo parzialmente; un rapper come Drake – «il fastidioso tifoso dei Raptors di cui tutti noi abbiamo bisogno», secondo Scaachi Koul di BuzzFeed – perfetto nel ruolo di “global ambassador” quando, novello Spike Lee, non è impegnato a fare del “trash talking” con le superstar avversarie a bordo campo; la rumorosa e coloratissima area antistante la Scotiabank Arena dove i tifosi senza biglietto si riuniscono per guardare le partite e celebrare il culto pagano della palla a spicchi; un palazzetto che ha ospitato nel 2016 l’All Star Game d’addio di Kobe Bryant, l’uomo che dieci anni prima aveva fatto dei Raptors i suoi personali sparring partner nella notte degli 81 punti.
Eppure non è stato sempre così, al netto di un rispettabile ruolino di marcia che racconta di 11 apparizioni ai playoff in 24 stagioni e di una tradizione cestistica che li vede eredi di quei Toronto Huskies sul cui parquet venne disputata la prima partita della storia del basket professionistico (avversari i New York Knicks) il 1 novembre 1946. Fin dalla loro nascita, avvenuta all’alba della stagione 1995/1996 nell’ambito del programma di espansione in Canada voluto dall’allora commissioner David Stern, i Raptors hanno infatti dovuto convivere con la fama di “sfigati di lusso” che spesso accompagna le piazze da “periferia dell’impero” – in un’accezione del termine che prescinde dal fatto che si tratti di una squadra di uno stato non americano –, quelle che mancano dell’appeal di Los Angeles, di New York o anche di Miami, che pure aveva visto debuttare i suoi Heat appena sei stagioni prima.
Due episodi, su tutti: nel 1995 B.J. Armstrong, ex playmaker dei Chicago Bulls e prima scelta dei canadesi nell’expansion draft pensato appositamente per loro e per i Vancouver Grizzlies (che poi avrebbero traslocato a Memphis a fine 2001), preferì firmare con i Golden State Warriors, costringendo i Raptors a puntare tutto o quasi su quel Damon Stoudamire che avrebbe trovato la sua definitiva consacrazione solo in quel di Portland con i Blazers; quindici anni dopo, nel 2010, con la “Decision” lebroniana a tenere in ostaggio tutto e tutti, Chris Bosh decise di diventare il secondo dei futuri “Big Three” dei Miami Heat, cedendo alla corte di Pat Riley e abbandonando alla prima occasione utile la franchigia che di lui voleva fare la pietra angolare della ricostruzione imminente.
Ma, in questa come in altre occasioni, è emersa quella capacità di fare di necessità virtù, di trovare strade alternative, di diventare un’avanguardia gestionale e sportiva, magari inizialmente in direzione ostinata e contraria, ma poi in grado di anticipare le tendenze dentro e fuori dal campo, persino nel campionato dove tutto è proiettato verso il futuro. E, quindi, la scelta di puntare con decisione sui giocatori europei quando non era ancora così mainstream e a costo di qualche delusione cocente – leggasi Andrea Bargnani scelto con la prima chiamata assoluta al draft del 2006, primo e per ora, unico europeo cui sia mai toccato un simile onere e onore; l’affidare la risalita della squadra dal baratro post 2010 ad uno specialista della fase difensiva come coach Dwane Casey mentre il resto della lega virava verso la ricerca di un’identità offensiva sempre più accentuata – nel 2016 i Raptors sarebbero risultati la terza squadra, dopo Cavaliers e Warriors, ad aver migliorato di più il rapporto vittorie/sconfitte dal 2011/2012; il dare le chiavi della franchigia a Masai Ujiri, primo general manager africano di tutte le major sportive americane e che non ha mai mancato la qualificazione ai playoff da quando è al comando; utilizzare i Raptors 905, l’affiliata nella lega di sviluppo, per “crearsi in casa” quei giocatori che sono stati i kicker di Leonard ai playoff, nelle Finals, per tutta la durata della stagione.
Ma per lo step decisivo si è resa necessaria l’ennesima decisione apparentemente in controtendenza. L’ultima, la più difficile, perché sradicava in parte dall’anima della squadra quel peso identitario della rappresentatività delle sorti di un’intera nazione che tante, troppe volte, aveva costituito un freno nel momento decisivo. E, quindi, siluramento di Casey a poche ore dalla nomina a “Coach Of The Year” con squadra affidata al delfino Nick Nurse e DeMar DeRozan – la cui connection dentro e fuori dal campo con Kyle Lowry aveva costituito la base tecnica dei Raptors dell’ultimo lustro – sacrificato nella trade che ha portato Danny Green e Kawhi Leonard, accettando il rischio che quest’ultimo possa comunque decidere di accasarsi altrove all’apertura della prossima free agency.
Il resto è già storia. Oltre il 4-2 che chiude la dinastia di Golden State, oltre l’ovvio MVP delle Finali a Leonard, oltre la comprensibile euforia della prima volta per la squadra, la città, lo stato tutto che ha visto i vessilli dei Raptors sventolare fieramente anche nel weekend del Gran Premio di Montreal e nella tappa canadese del PGA Tour, vinta da un Rory Mcllroy che ha celebrato indossando la maglia di Lowry. Protagonista della polaroid idealmente scattata da John Gonzalez su The Ringer: «Tornato a Oakland dopo gara-4 ho visto Kyle Lowry uscire dalla Oracle Arena per fare un selfie con un giovane fan. Il ragazzo, che avrà avuto non più di 10 o 12 anni, è stato felicissimo che Lowry si fermasse, pur non essendo un tifoso dei Raptors in trasferta. Il ragazzo, che indossava la maglia degli Warriors, sorrideva mentre era in posa per la foto. È stata l’istantanea di una stagione straordinaria perché quel ragazzo, dopotutto, non è solo: i Raptors hanno catturato tutta la nostra attenzione». E, a pensarci bene, non ci hanno poi messo chissà quanto tempo.