Da Udine a Udine: intervista al centrocampista dell'Under 21, che sogna la finale degli Europei.
«No dai, la foto davanti alla panchina no…», e poi un sorriso. Scherza così con il fotografo Rolando Mandragora, centrocampista dell’Udinese e capitano della Nazionale italiana Under 21. È una mattina con il cielo velato sulla Dacia Arena. Dalla scorsa estate Udine è la sua casa, ma questo è anche lo stadio in cui il 30 giugno si giocherà la finale degli Europei Under 21: per la prima volta nella storia la fase finale della competizione si gioca in Italia – Bologna, Cesena, Reggio Emilia, Trieste, Udine (e Serravalle per San Marino) sono gli stadi prescelti. «L’idea di giocare la finale in questo stadio stuzzica», sorride Mandragora, «ma non voglio dire nulla. Sono molto scaramantico». Niente proclami, mentre i giardinieri continuano a lavorare sul campo (per l’Europeo sarà perfetto, dicono) e Mandragora cammina fino in Curva Nord, sale sugli scalini e va a sedersi sul seggiolino numero 38, come la sua maglia. «Tre perché in famiglia siamo in tre figli (lui e due sorelle più grandi di lui, nda) e otto perché è il numero di grandi centrocampisti come Gerrard o Marchisio, e mi è sempre piaciuto». Sotto questa curva ha vissuto il momento più bello della stagione: la gioia dopo il gol pazzesco contro il “suo” Genoa in una partita chiave della corsa salvezza.
Sensazioni provate tante volte da Antonio di Natale, l’ultimo bianconero a essere grande protagonista anche in maglia azzurra. «L’ho conosciuto, Totò, e mi ha dato bei consigli. Li conservo gelosamente». Entrambi napoletani, entrambi affamati di calcio. Mandragora cresce a Scampia, gioca, si allena, ma per ben 17 volte viene bocciato in 17 provini diversi. «Qualcuno mi ha trovato pronto, qualcun altro no. Opinioni diverse. Ma adesso dico grazie a chi mi ha detto no, perché mi ha dato la possibilità di migliorarmi. Provino dopo provino, fino al Genoa che mi ha scelto. Fino alla notte di Marassi il 29 ottobre 2014». L’occhiolino di Gasperini poche ore prima della partita che accende la scintilla, e così tocca a lui, al diciassettenne Mandragora giocare titolare contro la Juventus, contro Pogba e Vidal. L’emozione più forte.
Quello è il passato, mentre il presente si chiama Udinese, che lo ha acquistato dalla Juventus per 20 milioni di euro: «Finalmente dopo un anno parliamo un po’ di italiano nello spogliatoio», ride. «E io sto imparando un po’ di inglese e spagnolo. È uno spogliatoio multietnico, una grande famiglia allargata». Per un ragazzo di 22 anni, una sorta di Erasmus calcistico con i ritiri e i pranzi condivisi in un’annata non semplice, in cui Mandragora ha fatto gruppo con gli italiani Lasagna e D’Alessandro e con i più esperti come Berhami o De Maio, con cui aveva già giocato. Una stagione con tre allenatori diversi (Velázquez, Nicola, Tudor), tre guide tecniche che si sono alternate. «È ovvio che dispiace sempre per chi va via, ma alla base siamo dei professionisti. E c’è sempre subito una nuova partita da affrontare». Quest’anno, per lui, sono state tante: «Sono riuscito a giocare spesso, quasi sempre, e mi sento cresciuto sotto il punto di vista della responsabilità, visto il campionato molto combattuto».
«Ci vuole perseveranza, voglia, determinazione. Io l’ho messa nel calcio. poi ci sono tutti gli altri mondi, lo studio, le altre passioni o altri sport. Volere è potere»Una crescita che adesso può essere messa in mostra con la maglia azzurra, e con una fascia di capitano. «Spero che questa fascia mi sia confermata, sia dal mister sia dai compagni. Voglio onorarla in tutti i modi. Mi stimola, sicuramente. È onore e responsabilità». Mandragora capitano Under 21 come in passato lo sono stati Corini, Caldirola, Grandoni e ancora Tacchinardi, Panucci, Mancini. «Mi viene la pelle d’oca a sentire questi nomi», e si tocca il braccio destro, «spero di fare quello che hanno fatto loro, di fare il mio percorso; ma solo sentire il mio nome in quella lista fa emozionare». Capitano di una squadra ricca di talento, su cui ci sono grandi aspettative: da Audero a Kean, da Orsolini a Zaniolo. «Io mi avvicino a questo torneo al massimo, sto bene sia psicologicamente sia fisicamente. Abbiamo voglia di dimostrare le nostre qualità partita dopo partita, per non sentire troppa pressione, ma contemporaneamente sappiamo che giochiamo in casa e questo può essere un vantaggio per noi. E poi abbiamo tanta voglia di portare i tifosi dalla nostra parte. In questo gruppo ci sono singoli di qualità che giocano titolari in serie A, e soprattutto una bella compattezza di gruppo che si è costruita nel biennio. Dobbiamo saper trasformare le doti personali in un risultato. È quello che conta». L’Europeo si apre con un girone tosto contro Spagna, Polonia e Belgio. «Gli avversari li conosciamo, li abbiamo affrontati spesso nelle varie Under. Sappiamo di essere in un girone competitivo, ma siamo consapevoli anche della nostra forza. Non dobbiamo essere presuntuosi, non stupidi, ma giocare a viso aperto. Pensare a noi stessi, più che all’avversario. Dobbiamo avere consapevolezza dei nostri mezzi, e affrontare le partite al massimo. Vogliamo fare bene, essere competitivi fin da subito».
«Di Biagio imposta un gioco bello e offensivo, un calcio che a noi piace. E poi sa preparare alla grande la testa: lavora sull’atteggiamento, la voglia e la determinazione»Convinzioni dettate anche dal ct Luigi Di Biagio: «Il mister punta molto sul feeling con i giocatori. Ci parla, dà consigli, ci ascolta. Con lui ho un bellissimo rapporto che voglio custodire. Con ammirazione per quello che ha fatto da calciatore e allenatore. Per me è un onore essere allenato da lui». Anche perché Di Biagio vuole un’Italia che sappia imporre il proprio gioco. «È stato calciatore di alto livello e quindi conosce bene le dinamiche del campo. Lui imposta un gioco bello e offensivo. Riusciamo a fare una pressione alta, vuole una squadra compatta e offensiva. Questo è un calcio che a noi piace. E poi sa preparare alla grande la testa: lavora sull’atteggiamento, sulla voglia e la determinazione da mettere in campo». E dopo giugno? «La Nazionale maggiore, che ho già conosciuto, non può non essere il prossimo obiettivo». Dove lo aspetta Roberto Mancini, e parlando del ct a Rolando si illuminano gli occhi: «È stato un sogno lavorare con lui. È un mister di livello internazionale e quando ho esordito con l’Italia (contro la Francia a Nizza, maggio 2018 in amichevole, nda) è stato un vero e proprio sogno che si realizzava. Non lo dimenticherò mai. E quelle emozioni voglio riviverle negli anni a venire».
Nella storia personale di Rolando, un peso speciale ce l’ha la sua famiglia. E il forte rapporto con papà Giustino, che è rimasto a Napoli ma che non si perde una partita casalinga del figlio. «Dico grazie ogni giorno alla mia famiglia. Per l’educazione che mi ha dato e per quello che mi ha insegnato. È stata la mia forza, sia prima di arrivare al Genoa sia dopo, quando c’è stato l’infortunio a Pescara». Prima di rompersi il quinto metatarso del piede destro, Pescara era stata uno splendido giro di giostra. «Che spensieratezza quella stagione. Siamo stati promossi in Serie A dimostrando di essere un bel gruppo di giovani. C’erano Caprari, Verre, Torreira, Lapadula». Quindi la Juventus, dove impara tanto: «E non può essere altrimenti, quando ti alleni con Marchisio, Buffon, Chiellini, Barzagli, Pjanic… inutile fare la lista in una squadra di campioni». E allora si riparte, stavolta dall’estremo sud. Dal Crotone che resterà sempre nel suo cuore. «Sono contento che quest’anno hanno trovato una salvezza tranquilla, tifo sempre per loro. Il calore che c’è per la squadra è fortissimo. Ma non ti nascondo all’inizio le difficoltà anche fisiche nel tornare a giocare a pallone dopo un anno di stop».
Fuori dal campo, Mandragora vuole imparare a giocare sia a tennis sia a padel, non ama molto ballare e passa molto tempo alla Playstation – «insomma, le cose che fa un calciatore». Gli piace guardare il calcio in tv e non solo. Si è appassionato a All or Nothing: Manchester City su Prime Video e se gli chiedi quale allenatore vorrebbe conoscere e con cui vorrebbe lavorare, risponde, senza esitazioni, «Pep Guardiola». Alla fine si congeda ringraziando tutti, da buon napoletano, ed è inevitabile chiedergli se per lui è stato più difficile arrivare in alto: «Onestamente arrivare a giocare in Serie A è difficile da ovunque tu parta. Ma a me piace capovolgere la prospettiva. Se ce l’ho fatta io, ci possono riuscire anche tanti ragazzini. Questo è quello che dico, anzi chiedo, ai ragazzi di Scampia. Ci vuole perseveranza, voglia, determinazione. Io l’ho messa nel calcio. Poi ci sono tutti gli altri mondi, lo studio, le altre passioni, o altri sport. Volere è potere».