Quando, nell’ agosto 2010, fu annunciato che dalla stagione successiva alcune partite della regular season Nba si sarebbero disputate in Europa – nel 2020 Milwaukee Bucks e Charlotte Hornets si sfideranno all’AccorHotels Arena di Parigi dopo nove anni di gare all’O2 Arena di Londra – l’allora commissioner David Stern sancì una svolta definitiva nei rapporti tra il Vecchio continente e la una delle leghe professionistiche più importanti del mondo: in ballo non c’erano solo gli ovvi risvolti commerciali legati alla vendibilità di un prodotto sempre più globale e globalizzato, ma anche la comprensione di come certe dinamiche stessero cambiando. Aprendo al grande pubblico le porte di partite ufficiali e non di semplici match di esibizione, Stern dimostrò di guardare all’Europa come partner ideale per la crescita della sua creatura anche dal punto di vista strettamente tecnico, con i giocatori europei – ad oggi quasi il 70% degli “internationals” presenti in Nba – parte integrante dell’evoluzione del gioco così come stiamo imparando a conoscerlo oggi.
Alla cerimonia di consegna dei premi stagionali per il 2018/19, è avvenuta l’ideale chiusura del cerchio. Perché l’Europa si è presa la Nba, nel senso letterale del termine: 4 dei 6 riconoscimenti principali sono andati a giocatori stranieri, tre dei quali europei. Giannis Antetokounmpo, origine nigeriana e un’adolescenza complessa tra i playground ateniesi di Sepolia, ha vinto il testa a testa con James Harden, diventando il primo giocatore della storia (il secondo europeo dopo Dirk Nowitzki) a essere nominato MVP dopo il “Most Improved Player” ricevuto nel 2017; Rudy Gobert, francese di San Quintino, è stato eletto per la seconda volta consecutiva “Defensive Player of The Year”; Luka Doncic, infine, ha confermato la sua predestinazione conseguendo un titolo di “Rookie of The Year” quasi ovvio nonostante l’agguerrita concorrenza di Trae Young.
Un veloce riepilogo del perché Antetokounmpo ha vinto il titolo di Mvp
L’attuale congiuntura temporale autorizzerebbe a sdoganare una narrazione focalizzata sull’importanza di integrazione e multiculturalismo anche nello sport, solo che una simile chiave di lettura rischierebbe di sottovalutare gli aspetti di campo. Perché, ed è proprio questo il punto, ciascuno di questi riconoscimenti risulta meritato per il tipo di impatto che questi giocatori hanno avuto in un contesto completamente diverso da quello di provenienza: Antetokounmpo è uno di quei “all around player” che ogni general manager cerca per farne la pietra angolare di una franchigia, con una multimensionalità su entrambi i lati del campo con pochi eguali; Gobert rappresenta l’evoluzione del centro difensivo tradizionale, che riesce a coniugare le grandi qualità di stoppatore e “rim protector” a una mobilità che gli consenta di difendere in uno contro uno anche contro avversari più piccoli ed agili di lui; Doncic, invece, è semplicemente un naturale esponente di quel basket visionario e futurista che può trovare la massima espressione solo a queste latitudini e che è risultato sovradimensionato persino per l’Eurolega: «Sta cancellando ogni pregiudizio sui prospetti europei, un highlight dopo l’altro», ha fatto notare Matt Ellentuck su SB Nation.
Luka Doncic, Rookie of The Year
Nulla di tutto questo era scontato. Anche solo fino ai tardi anni ‘80, per un giocatore europeo tentare l’avventura oltreoceano voleva dire fare i conti con una serie di stereotipi che erano in grado di alterare l’effettiva percezione del proprio valore assoluto. Quando, nel 2015, Ric Bucher scrisse su Bleacher Report che «l’idea, fino a quando non hanno dimostrato il contrario, era quella che i giocatori europei non sapessero gestire i contatti e non sapessero essere duri difensivamente», non fece altro che ricordare cosa impedì a cestisti come Arvydas Sabonis – precursore di quel “Playmaking 5” che ha oggi in Nikola Jokic e Marc Gasol la sua massima espressione – e Drazen Petrovic – uno Steph Curry ante litteram nel suo anticipare di vent’anni l’epoca e l’epica delle combo guards attuali – di dimostrarsi ancor più dominanti di quanto sono comunque stati anche al di là dell’Atlantico.
La svolta avvenne nel 2007, con Nowitzki nominato MVP. Lo scorso marzo, quando la notizia del ritiro è diventata ufficiale, Hunter Felt del Guardian ha descritto il tedesco come «l’europeo più importante della storia Nba» perché «pur restando se stesso, ha costretto la lega ad adattarsi a lui». In effetti un giocatore di quelle dimensioni in grado di mettere palla per terra e di costruirsi un tiro dal palleggio sempre, comunque e contro chiunque, oltre a cambiare la percezione del ruolo del lungo, ha costretto gli americani a ripensare l’importanza della tecnica in velocità e, quindi, al corretto bilanciamento tra fisicità e fondamentali.
Il meglio di Rudy Gobert, in una compilation
Il confronto con i migliori esponenti di un movimento che dalla seconda metà degli anni ’90 era cresciuto in maniera esponenziale – in aperta contrapposizione con l’ immobilismo a stelle e strisce, che ha avuto nei ripetuti fallimenti di Team USA a Mondiali e Olimpiadi tra il 2002 e il 2006 l’ideale cartina tornasole – ha finito perciò con il cambiare l’Nba dall’interno, in un modo così rapido da sembrare quasi naturale. Non è quindi un caso che una delle squadre simbolo del XXI secolo prima dell’avvento dei Golden State Warriors, siano stati quei San Antonio Spurs che, grazie alla lungimiranza del general manager RC Buford, intuirono per primi il grande potenziale dei giocatori europei; Bruce Bowen, che con i texani ha vinto tre titoli tra il 2003 e il 2007, ha detto recentemente di credere che «le carriere di David Robinson e Tim Duncan si siano allungate per la presenza dei pezzi giusti, trovati anche all’estero, che hanno permesso alla franchigia di mantenersi ai massimi livelli». Senza dimenticare il contributo portato dai tecnici: al di là di Sergio Scariolo, protagonista nemmeno tanto occulto nella cavalcata vincente dei Toronto Raptors, Ettore Messina, ai tempi in cui era assistente di coach Mike Brown ai Los Angeles Lakers, si è visto riconoscere da Kobe Bryant la capacità di «importare una pallacanestro diversa, fluida, in grado di farci esprimere meglio il nostro potenziale».
Una compenetrazione costante resa possibile dalla direzione intrapresa dal basket contemporaneo e dalle relative esigenze. Donnie Nelson, general manager dei Dallas Mavericks e vero deus ex machina della scelta che ha portato Doncic a vestire la stessa casacca che è stata di Nowitzki nelle 20 stagioni precedenti, ha detto che «oggi ai giocatori più giovani si cerca di insegnare l’importanza di poter contare su tante abilità. Bisogna essere in grado di tirare, passare, mettere palla per terra, prendere decisioni giuste al momento giusto. Si tratta delle quattro skills di base che chiunque punti a una carriera ad alto livello deve possedere»; in pratica il bagaglio tecnico di ogni giocatore europeo che oggi prova il grande salto in una Nba sempre meno “specialistica” e sempre più alla ricerca, per quanto riguarda la prossima generazione di superstar, di profili versatili in grado di incidere in ogni singolo aspetto di un gioco che, per la sua natura, si basa sull’interpretazione delle singole situazioni. Ancora una volta, quindi, la necessità di doversi adattare è stato il primo passo per il cambiamento, l’idea di migliorare per dimostrarsi all’altezza la spinta propulsiva per entrare in una nuova dimensione: quella dove i giocatori europei non si limitano ad appartenere alla Nba, ma la dominano. A modo loro e nonostante il loro essere apparentemente diversi da quel mondo un tempo irraggiungibile. Anzi, forse soprattutto grazie a questo.