«Questa è più di una maglia. È una scelta, una promessa, una chiamata. Ogni volta che la indossi, accetti la sua storia. Non temere il cambiamento, guidalo. Immagina ciò che gli altri non riescono a vedere. Osa dettare nuove regole, fai in modo che le tradizioni non siamo un limite, ma un’ispirazione per scrivere il futuro». Il claim utilizzato da adidas per la campagna social legata al lancio della maglia della Juventus per la stagione 2019/2020 – la prima senza strisce – racconta quali siano le nuove frontiere del mercato delle divise da gioco: non si tratta, banalmente, di adeguarsi a esigenze marketing oriented, ma di riuscire a coniugare nel modo giusto tradizione e innovazione in uno dei pochi elementi di identificabilità e appartenenza del calcio contemporaneo, globalizzato e iperprofessionistico.
Non a caso il video di presentazione del nuovo kit home dei bianconeri si conclude con i tifosi che scendono in campo al fianco di Dybala, Pjanic, Chiellini, Kean, Bentancur e Bernardeschi, in una sorta di significativa “chiamata alle armi” a difesa della storia juventina. Che non è, non può essere, solo una questione di disposizione dei colori sociali sulla maglia, ma anche un’idea innovativa di passione e condivisione proiettata verso il futuro, e che va oltre categorizzazioni fuori dal mondo e dal tempo, per una società che può vantare milioni di tifosi anche al di fuori dai confini italiani. Il “be the stripes” conclusivo è, quindi, un invito ad essere la storia senza limitarsi ad indossarla, tenendo a mente il principio che oggi non si compra solo un prodotto, piuttosto un’esperienza completa, complessa.
Proprio sulla rete e sui social sono corse le maggiori proteste contro questa scelta di rottura (seppur temporanea) con il passato: è un fatto che spiega come la volontà di ridisegnare storia possa produrre un rischio non sempre calcolato e/o calcolabile. Soprattutto nell’epoca in cui sperimentazioni e scelte estetiche sempre più azzardate riguardano anche le prime maglie, quelle più iconiche e riconoscibili, che segnano la differenza con il resto del mondo e che incarnano uno degli ultimi retaggi identitari del calcio che fu. Quando Gerard Piqué, commentando la “scacchiera” che ha preso il posto delle tradizionali strisce blaugrana sulla maglia del Barcellona, dice che il nuovo kit è «nuovo ed eccitante, potrà anche essere diverso ma è al 100% del Barça, ed è ancora meglio che il design rappresenti il legame che il club ha con i tifosi e le persone che stanno guidando la città in avanti», si riferisce proprio alla capacità di innovare restando fedeli ai legami, sportivi ma anche culturali, tra squadra, città e società. E, in questo senso, i richiami al design del quartiere Eixample – in cui si trovano alcuni degli edifici più importanti progettati da Antoni Gaudí – risultano efficaci nel veicolare l’idea che il Futbol Club Barcelona sarà sempre e comunque Barcellona. A prescindere dai motivi utilizzati per la maglia azulgrana.
La difficoltà è insita in questa continua ricerca del compromesso, per un oggetto che, oltre a incarnare valori, storia e tradizioni di un club, è anche il primo che si trova sottoposto a quelle logiche di marketing in continua evoluzione. Tanto più in un periodo storico in cui l’abbigliamento sportivo deve essere pensato e adattato anche alle esigenze off the court – si pensi al kit che Nike ha disegnato per la Nigeria in occasione dei Mondiali 2018, andato sold out a tre ore dal lancio e diventato uno dei capi più venduti della scorsa estate – e parzialmente slegato dalla rappresentazione del tifo nella sua concezione più ancestrale: quando la stella Nba James Harden viene fotografato mentre indossa le maglie di Juventus o Bayern Monaco, il messaggio che passa è quella di un capo alla moda indossato da chi la moda la detta a sua volta, e non più solo uno status symbol di identità, appartenenza e fede. Si “esce dal campo”, metaforicamente e non, per entrare in quella nuova dimensione in cui lo stile e il design vengono influenzati anche da musica, arte e cultura popolare, in funzione della versatilità oggi richiesta all’apparel sportivo.
Si tratta di una strada relativamente nuova, che molti più club stanno provando a percorrere – non ultimo il Paris Saint-Germain con Jordan –, guardando a quei mercati extraeuropei che rappresentano la nuova terra promessa e che impongono una decisa virata verso uno streetwear influenzato da una cultura – sportiva e non – diversa: se per un tifoso europeo sarebbe impossibile anche solo pensare di indossare nella quotidianità la maglia di una squadra che non sia la sua, per un americano o un asiatico la scelta di indossare una jersey piuttosto che un’altra dipende essenzialmente dal suo essere o meno “alla moda”, adeguata allo stile e al tempo.
Bisogna andare oltre il concetto della “fidelizzazione” di nuovi tifosi in giro per il mondo: come ha scritto Tommaso Berra in un articolo su nss magazine, «le maglie hanno rappresentato una possibilità in più per i brand, per diffondere i loro prodotti a una clientela che fino a pochi anni prima avrebbe snobbato gli acrilici, i crest e il design football-inspired. Lo Sportswear è portavoce di una cultura più popolare e di riflesso lo è diventata anche la moda ispirandosi a esso, è un cambiamento che non parte dai calciatori o dalle manifestazioni sportive in sé per sé, ma dagli stessi brand e dalle scelte di posizionamento nel mercato».
Un’idea di esclusività che, quindi, non è più legata al mostrare e dimostrare di essere tifoso di una squadra attraverso una maglia ma dall’estetica, intesa come percezione di vestibilità e “bellezza”, insita nella maglia stessa, pensata e valutata come qualsiasi altro capo di abbigliamento: non è un caso, infatti, che già nel 2018 il direttore creativo di Dior (e, prima ancora, di Luois Vuitton) Kim Jones abbia collaborato con Nike alla realizzazione di “Football Reimagined”, una collezione che applicasse, senza estremizzarli, i dettami dell’alta moda al design dei kit da gioco.
In questo senso non esistono scelte univoche: che si tratti di sperimentazioni più o meno all’avanguardia – come il “collage” tra strisce verticali e diagonali della nuova maglia dell’Inter, oppure i richiami alla Roma imperiale in quella dei giallorossi – o di riuscitissimi “ritorni al passato” che non si traducano in antistoriche operazioni nostalgia – quello che New Balance sta facendo con il Liverpool è il massimo esempio del culto vintage declinato secondo i canoni della moda attuale –, i marchi stanno puntando a massimizzare quell’esperienza emozionale derivante dal connubio tra il sentimento identitario trasmesso dalle maglie e la sua rielaborazione in chiave moderna – con il successo delle connessioni extracampo strettamente legato alle campagne di comunicazione. Come quella che, ad esempio, ha realizzato adidas per l’Arsenal: il riferimento alle serie tv inglesi degli anni ’90, in quel continuo parallelismo tra calcio e vita quotidiana che si ritrova anche nelle atmosfere lisergiche e colorate di Fever Pitch, è l’ideale gancio per lo sdoganamento definitivo della commistione tra street football e professionismo che costituisce l’odierno riferimento per i designer di brand vecchi e nuovi. Con tutto ciò che comporta il dover fare i conti con il passato, il presente, il futuro.