Il racconto di Fausto Coppi è il racconto del ciclismo e dell’Italia

Il mito del ciclista italiano più influente di sempre, nel libro di Maurizio Crosetti.

Il ciclismo fa da sempre parte del coro di voci, della memoria condivisa della mia famiglia, così come credo di quella di molti altri. Gruppi di persone riunite intorno a una radio, in un bar, per strada, in un giardino, dentro a una casa, tutti aggrappati alla voce del radiocronista, a immaginare uno scatto, curva dopo curva, tornante, strappo, scavallamento, la bici che passa tra due ali di folla che si allargano e poi si restringono alle spalle del campione, l’uomo solo che arriva al traguardo.

Coppi e Bartali fanno parte del mio lessico famigliare. Ho avuto due nonni molto diversi tra loro, introverso e silenzioso l’uno, espansivo e affettuoso l’altro, due brave persone. Una sola cosa li accomunava: l’amore per il ciclismo. Gli uomini sui pedali li appassionavano più di qualunque spettacolare azione che potesse avvenire, per esempio, su un campo da calcio. Il ciclismo, l’ho capito dopo, per loro, insieme a poche altre cose, aiutava a sperare negli anni a cavallo delle due guerre e a rinascere in quelli immediatamente successivi. I miei nonni mi hanno parlato di Coppi per tutta la vita, anche quando insieme a loro guardavo le imprese di Moser, Saronni, Hinault, Greg Lemond. Entrambi avrebbero meritato di vedere almeno una volta scattare Marco Pantani.

Quando Fausto Coppi vinse la famosa tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949, arrivando al traguardo con circa 12 minuti di vantaggio su Bartali, mio padre aveva poco più di 10 anni, per tutta la vita, fino a ieri – quando al telefono gli ho letto qualche passaggio de Il suo nome è Fausto Coppi di Maurizio Crosetti (Einaudi 2019) – mi ha ripetuto la frase del radiocronista Mario Ferretti, epica quasi quanto quella tappa: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi».  Quella frase è il nostro codice, vale un abbraccio e tutti quanti i ricordi. Credo di aver inseguito in tutti questi anni l’idea e la speranza di commuovermi per un uomo solo al comando, qualche volta è successo con Pantani, una o due di quelle volte io e mio padre stavamo seduti sullo stesso divano. Questi ricordi e sentimenti sono riemersi ed esplosi leggendo, pagina dopo pagina, il bellissimo libro su Coppi che ha scritto Maurizio Crosetti.

Il ragazzo quando scatta è come la grandine sulla vigna.

Maurizio Crosetti costruisce (e ricostruisce) la storia di Fausto Coppi come se fosse un romanzo corale. Ogni capitolo è affidato a una voce, tutte le voci formano un coro, tutte parlano in prima persona come se scrivessero un diario, come se conversassero con un amico, come se rispondessero a delle domande raccontano il pezzo della loro vita che ha incrociato quella di Fausto Coppi, per quasi tutti è stata la parte più importante della vita. Non ci sono cognomi nei titoli dei capitoli, soltanto nomi: Angiolina, Domenico, Biagio, Costante […] Serse, Pinella […] Sandrino, Gino, Ettore, Maria […] Ercole […] Faustino, Giulia e Fausto. I cognomi o sono nel capitolo o si intuiranno, contano i nomi, perché chi racconta è tutta gente che a Coppi ha voluto bene, lo ha ammirato, è tutta gente che gli ha dato del tu, che gli ha passato una ruota, che lo ha abbracciato, invidiato, amato, messo al mondo. Crosetti scrive il romanzo di Fausto Coppi e scrive un po’ il romanzo dell’Italia che va dalla nascita di Coppi, il 1919, a quello della sua morte, il 1960. Coppi se ne andò per la malaria contratta in Africa nel dicembre del 1959, aveva quarant’anni e qualche mese, ed è incredibile il numero di corse vinte, se si pensa anche agli anni della seconda guerra mondiale, nei quali si corse poco o niente.

«Il signor Bartali, quando tutti sono rimasti nella sala con il mio Fausto, è venuto a sedersi con me in cucina e aveva la faccia bianca. Stavamo da soli io e lui. Ha pianto un po’ ma senza far rumore e io avevo impressione di quell’uomo che lacrimava zitto come una donna triste.» Chi parla è Angiolina, la mamma di Coppi, una donna che immagino straordinaria, una storia dentro la storia del campionissimo, la sua. Una mamma che vede tre dei suoi cinque figli morire troppo giovani, addirittura giovanissimi come Serse, il fratello più piccolo di Fausto, ciclista pure lui, che vinse una Roubaix perché il gruppetto di testa sbagliò strada e venne squalificato. Serse che nel suo capitolo racconta la propria morte.

È bello un libro in cui i morti raccontano come se fossero vivi, perché in fondo è così, non se ne vanno, rimangono nei nostri ricordi, e così i morti ricordano il loro Coppi parlandone, descrivendolo e mettono insieme una storia avvenuta nel passato ma coniugata al presente, così che ci pare, mentre leggiamo, di vedere Fausto Coppi, ancora garzone a Novi Ligure, che porta la spesa a Girardengo, e qualche capitolo più avanti mentre rifiuta di correre per lui perché ha già dato la sua parola alla Legnano. Ci pare di vederlo quando va per la prima volta da Biagio Cavanna, il cieco, che lo tocca, lo interroga e sente il corridore che sarà, il campione che verrà da lì a poco.

Fausto Coppi durante il Tour de France 1949. Coppi ha trionfato in quell’edizione della Grand Boucle, e poi una seconda volta nel 1952 (AFP/Getty Images)

Il mio Fausto è uno stilista anche sull’Izoard
che sotto le sue ruote diventa liscio come la pista del Vigorelli

Lo vediamo nel racconto di Bartali, fatto di amicizia e rivalità, di corridori così diversi, ma così coraggiosi, così capaci di lasciarsi tutti quanti alle spalle, e vediamo Bartali che salva gli ebrei senza vantarsene. Bartali che viene battuto, prima da un cane che lo fa cadere e poi da Coppi che è suo gregario, che capisce che può andare, e va. È il Giro del 1940, dove ebbero davvero inizio le danze, Coppi non si fermò più, nemmeno quando forse avrebbe dovuto fermarsi, ma dal racconto di Maurizio Crosetti si capisce che l’Airone senza bicicletta non sapeva stare.

Lo vediamo, il magro Fausto, il fragile, dai mille infortuni dai quali ritornare. Il Fausto silenzioso e cupo, il Fausto, invece, allegro per altri. Il Fausto determinato, il grande tattico. Il primo corridore capace di vedere il futuro del ciclismo attraverso la corretta alimentazione e la modernizzazione del mezzo meccanico. Coppi fu il primo a chiedere biciclette diverse a seconda del tipo di gara, così come fu il primo a vincere il Giro e il Tour nello stesso anno. Lo vediamo, nelle memorie di Pinella, il meccanico, l’uomo che adeguava la bicicletta all’uomo. Pinella dice che Fausto era matto per i particolari e lui andava, si capisce, andava fiero di averne cura. «Fausto come una macchina meravigliosa sale contro la pioggia, contro il vento e la grandine. Dentro porta il suo demonio, come tutti, ma cerca di tenerlo zitto anche se poi quello ogni tanto salta fuori. È come se Fausto fosse morto tante volte prima di morire davvero, e poi gli passava. La vigilia del record dell’ora va al cinema e si fa una camomilla, per dire l’equilibrio».

Coppi durante una tappa del Tour de France 1952. Oltre alle vittorie in Francia, Coppi ha trionfato 5 volte al Giro d’Italia e ha vinto una volta il Mondiale su strada (AFP/Getty Images)

Coppi era pallido come un morto
ma superiore a tutto,
anche in questo come i morti, sì.

Lo sentiamo attraverso la voce di Carosio, l’altro grande telecronista, citato per due volte nelle libro, in due diverse memorie, quando alla Sanremo del 1946, all’arrivo di Coppi disse:  «Primo Fausto Coppi; in attesa del secondo classificato trasmettiamo musica da ballo», perché tale era il distacco da chi sarebbe arrivato dopo, il francese Teisserie con quasi un quarto d’ora di ritardo. Lo troviamo nei racconti dei suoi più fidati gregari, tra i quali spicca e spiccava Sandrino Carrea, l’uomo che era sopravvissuto due anni in un campo di concentramento, l’uomo che tirava alla morte, in gara e in allenamento, l’uomo al quale bastava un cenno di Coppi per cominciare l’accelerata che avrebbe portato quaranta, cinquanta chilometri dopo all’attacco di Fausto. La voce di Sandrino mette voglia di essere su quelle montagne, di passare una borraccia, di alzarsi sui pedali.

Lo troviamo controverso e gentile, disposto a pagare il prezzo che l’amore per Giulia richiese. Giulia odiata da molti, ma rispettata da tanti. Coppi e la Dama bianca su tutti i giornali, scandalo, dramma, processo, carcere per lei ed era soltanto amore. Due donne e due figli, Marina e Faustino, cresciuti a pochi metri di distanza per molti anni prima di incontrarsi (la prima volta grazie a Candido Cannavò) e poi conoscersi e affezionarsi, da sorella e fratello quali sono.

Fausto Coppi festeggia il successo al Tour de France 1949 dopo l’arrivo al Parco dei Principi di Parigi. Durante la sua carriera da professionista, Coppi ha vinto complessivamente 151 corse su strada (122 esclusi i circuiti), 58 delle quali per distacco, e 83 su pista (StaffAFP/Getty Images)

Eppure, dal fondo del pozzo il bellissimo Fausto riesce a salire
proprio con le ultime pedalate,
forse è questo che distingue chi sa filare dentro il vento
che se ci riuscissimo saremmo tutti Coppi, ognuno di noi lo sarebbe.

Maurizio Crosetti lascia parlare per ultimo Fausto Coppi – di cui a settembre ricorre il centenario dalla nascita – come se scrivesse da lontano, dall’Africa che se lo portò via, dal Pordoi, dall’Izoard, dal Turchino, dal Velodromo Vigorelli, luogo in cui stabilì il record dell’ora, in pratica sotto i bombardamenti,  e dichiarò «Mai più». Fausto e il suo amore per Giulia, Fausto che vince ovunque, sempre da solo, con tutti quanti gli altri dietro, molto indietro, più indietro di quanto si potesse (e si possa ancora) immaginare. Fausto che lascia i premi ai compagni di squadra, Fausto che vuole smettere dopo la morte di Serse e poi non smette quella volta e vince, e poi non smette mai. Si dice che gli ultimi anni lo abbia fatto per soldi, può darsi, ma forse davvero non riusciva a togliere i piedi dai pedali.

Chi era Fausti Coppi? Dal lavoro di Crosetti viene fuori un ritratto di un uomo capace di caricarsi sulla bicicletta il mondo e portarlo fino all’ultimo tornante, alla vetta, al traguardo. Per molti motivi, anche chi non lo ha mai visto correre, come me, quando pensa a un uomo solo al comando, al ciclismo, al dopoguerra, pensa a Fausto Coppi.