La sequenza di camion su cui grigliano le salamelle, che oggi va di moda chiamare food truck, è l’allestimento scenografico del monumento. Quando la percorri, ti senti parte integrante dell’opera. Dietro l’angolo, svetta un’enorme colata di calcestruzzo, così espressiva da sembrare una scultura marmorea levigata a mano da un manipolo di artisti: lo stadio Giuseppe Meazza è sublime, non solo per l’imponenza dell’architettura, ma anche perché è una visione attesa durante il cammino tra le quinte, un punto di arrivo da assaporare durante il tragitto che puntualmente ripaga le aspettative. Ma, per paradosso, il rituale di avvicinamento che definisce l’importanza di San Siro in ognuno di noi è anche il motivo per cui questo stadio non è più adeguato al presente, e di conseguenza al futuro: l’avvicinamento alla partita si consuma in strada anziché dentro l’impianto perché quest’ultimo non è stato progettato con questo scopo. Non è un concetto di per sé sbagliato, è però fuori dal tempo: tutto ciò che avviene all’esterno non può essere controllato e monetizzato dai club.
Nei settori sprovvisti di benefit del Meazza, il tifoso non ha modo di riempire i tempi morti, motivo per cui tende a farlo fuori dallo stadio. Dentro, al massimo, si arrangia con i pochi e risicati angoli bar, e senza pensarci torna al posto per consumare, perché non esiste uno spazio in cui sedersi, appoggiarsi, sostare. Manca il foyer teatrale, il “ridotto”, il locale adiacente alla sala dove gli spettatori hanno la possibilità di intrattenersi prima, dopo e durante lo spettacolo. Il cosiddetto matchday, l’esperienza che prescinde dalla partita pur ruotando attorno ad essa, è quindi ostacolato dallo spazio a disposizione.
È il limite principale dell’impianto milanese in relazione all’affluenza: anche nell’ultima stagione, infatti, nessuno stadio di Serie A ha accolto più persone di San Siro – 59mila spettatori in media per i match dell’Inter, 55mila per quelli del Milan. Il bacino di utenza è enorme, in linea con i top team e le principali città europee, ma le potenzialità sono parzialmente inespresse: l’Inter, i cui tifosi sono i più presenti in Italia, ha raggiunto la quota record di 45 milioni di ricavi da stadio nel bilancio dell’ultima stagione, eppure non si avvicina allo standard di chi ha recentemente edificato un nuovo stadio per valorizzare al massimo la matchday experience come il Bayern Monaco (104 milioni nel 2017/18 ricavati dall’Allianz Arena) e l’Arsenal (112 milioni dall’Emirates). Si dirà che all’estero i prezzi dei biglietti sono più alti, ma è pur vero che l’offerta segue la domanda, e la domanda aumenta se lo stadio offre un servizio all’altezza. E qui si torna al punto della discordia: San Siro è iconico, ma superato.
L’accoglienza non porta solo introiti, è anche una questione di identità: il fatto che i tifosi rimangano fuori dall’impianto per un tempo simile, se non superiore, alle due ore in cui sono dentro per vedere la partita, porta ad una distorsione dell’identificazione dei tifosi stessi. Si riconoscono più nel Meazza che non nelle attività del club di appartenenza, più nell’immagine dello stadio che non nell’esperienza che quest’ultimo può offrire. Per questo motivo, l’intenzione di abbattere l’impianto di Inter e Milan ha sollevato un polverone mediatico: è come cancellare una parte dell’identità dei due club, in cui i tifosi si ritrovano.
Abbattere il Meazza può sembrare una follia morale, ma non può essere tale a livello puramente architettonico e immobiliare. Anche se il valore storico di un edificio è un tema da sempre dibattuto nell’architettura, e non è semplice stabilire quale oggetto debba essere preservato e quale abbattuto per lasciare spazio al nuovo, si può però affermare che uno stadio di calcio appartiene più facilmente alla seconda categoria: essendo il contenitore di un servizio attivo, la priorità è la sua performance. Il tema della sacralità è di relativa importanza di per sé, ma lo è a maggior ragione per un’architettura che ha già subito un intervento invasivo che ne ha leso l’immagine: l’aggiunta del terzo anello per i Mondiali del 1990 (secondo il progetto Ragazzi-Hoffer) ha infatti cambiato definitivamente l’estetica dello stadio milanese, e non si può certo dire in positivo. Le rampe elicoidali introdotte dalla ristrutturazione di Calzolari e Ronca nel 1955 che lo rendevano iconico sono infatti scomparse dietro gli undici pilastri su cui sono stati appoggiati il terzo anello e la copertura, e poco conta che questi pilastri siano avvolti da rampe che riprendono l’idea originale: in gergo architettonico si tratta di un falso storico. In termini pratici significa che l’attuale Meazza è la conseguenza di una scelta antinostalgica, proprio quella che oggi viene contestata.
Al netto del discorso sentimentale e morale, la demolizione di San Siro è sostenuta anche da una questione pratica. Ristrutturarlo significherebbe limitarne la capienza per almeno due stagioni e obbligare i tifosi ad una convivenza forzata con cantieri piuttosto invadenti: un disagio inammissibile per uno stadio utilizzato come minimo una volta a settimana. Inoltre, non è possibile ipotizzare un intervento separato come accadde per il terzo anello, quando gli undici pilastri furono progettati esternamente proprio per consentire a Inter e Milan di continuare a giocare durante i due anni di lavori. Il paradosso è che San Siro è un esempio di architettura stratificata, in perenne divenire, che ha saputo reinventarsi almeno tre volte nel tempo e che però oggi è arrivato ad una forma definitiva, compiuta, sotto molti punti di vista immutabile: le rampe che ai tempi coniugavano in maniera innovativa l’esigenza funzionale (il rapido e ordinato flusso per la salita in quota di un numero di persone fuoriscala per l’epoca) ad una soluzione estetica (l’effetto scultoreo in facciata, con i giochi di luce dettati dall’alternanza dei pieni e dei vuoti) sono oggi l’ostacolo principale per un progetto di ristrutturazione migliorativa perché impediscono un allargamento dei “vassoi” di distribuzione retrostanti le tribune.
Un allargamento che renderebbe questi spazi non solo di passaggio, ma anche di sosta. Il disegno architettonico del Meazza è il principale “limite strutturale” denunciato da Inter e Milan nel comunicato congiunto per avviare il progetto per il nuovo stadio, ciò che sconsiglia la ristrutturazione. Il secondo è la natura dell’architettura del Meazza: evoca una statua perché è costruito in calcestruzzo, un materiale poco flessibile che dà vita ad una forma permanente, su cui è difficile lavorare. Un’opera scultorea, appunto, definitiva per definizione.
È oggetto di critica anche la scelta di Inter e Milan di condividere il nuovo stadio, piuttosto che costruirne due separati. In questo caso, la motivazione è essenzialmente economica: oltre al prezzo della ristrutturazione, preoccupa il costo necessario per mantenere in vita un impianto di simili dimensioni. Basti pensare che gli ultimi bilanci di M-I Stadio Srl, la società con cui Inter e Milan hanno gestito per anni l’impianto milanese, non sono mai stati in attivo. Abbattere San Siro significa togliersi il “problema” della sua gestione, con il pensiero che quest’ultima non possa migliorare senza un restauro profondo, e che questo restauro a sua volta non sia una mossa sensata.
La soluzione di un unico stadio nuovo, nuovamente da condividere, stride rispetto al panorama europeo, ma è motivata da un indubbio guadagno: i due club dimezzerebbero i costi di costruzione, stimati in prima istanza in 1,2 miliardi comprensivi del “distretto multifunzionale nell’area del Meazza dedicato allo sport, all’intrattenimento, allo shopping e al divertimento”. I ricavi derivati dal nuovo impianto non ne risentirebbero in una misura direttamente proporzionale alla divisione della spesa: ogni club avrebbe zone dedicate e personalizzate sia all’interno che all’esterno, dove potrebbero mettere a reddito le attività dell’area multifunzionale.
Nel nuovo progetto, quest’ultima sarebbe finalmente edificata, organizzata e, soprattutto, predisposta per essere attiva anche quando non è in programma una partita: una differenza fondamentale rispetto a quella attuale, improvvisata e estemporanea, se è vero che in assenza dell’evento i truck spariscono e la zona attorno allo stadio diventa inutilizzata. Inoltre, il progetto di fattibilità presentato da Inter e Milan mira ad una revisione delle competenze, che possa risolvere l’inghippo attuale: se oggi il Comune è proprietario del Meazza e ne cede i diritti di utilizzo ai club (fino al 2030, a circa 9 milioni all’anno), questi ultimi con il nuovo stadio vorrebbero far leva sulla concessione del diritto di superficie di 90 anni in modo da avere mano libera per gli investimenti sul terreno.
La libertà d’azione sarebbe necessaria per consegnare il nuovo stadio non solo ai club stessi, ma soprattutto ad una città che in questo momento di dibattito sta dimenticando la spinta verso l’innovazione, lo sviluppo e l’internazionalizzazione che l’ha migliorata sensibilmente negli ultimi anni e che, ci si augura, continui a farlo nei prossimi.