Dall'oblio del post-2002 alla possibilità di vincere la prima Coppa d'Africa della sua storia.
In conferenza stampa, alla vigilia della decisiva gara con il Senegal, l’allenatore francese del Kenya Sébastien Migné ha lasciato a casa la diplomazia, utilizzando la lingua come un’arma affilatissima per mettere i Leoni della Teranga davanti ai propri spettri: «Il Senegal ha avuto giocatori talentuosi come Camerun e Costa d’Avorio, ma non hanno mai vinto una Coppa d’Africa. Dovremmo chiederci perché. Forse non hanno la giusta dose di forza mentale». La risposta di Aliou Cissé, il commissario tecnico del Senegal, non si è fatta attendere ed è stata piuttosto piccata, comprensibilmente: «Io penso che i miei colleghi parlino troppo di noi. Cosa conosce lui? Conosce per caso il nostro popolo? Come può dire che ci manca la mentalità». L’ex capitano è tornato a guerreggiare in conferenza stampa come aveva fatto un anno fa, quando durante il Mondiale i cronisti lo avevano stuzzicato con domande sul suo status di unico allenatore nero del torneo.
Quello del mancato trionfo in Coppa d’Africa, del resto, è un tema molto sensibile tra i senegalesi, una sorta di tabù da esorcizzare ma di cui nessuno vuol sentir parlare: prima di quella in corso, infatti, i Leoni della Teranga, hanno partecipato a 14 edizioni della Coppa d’Africa, ma non hanno mai messo le mani sul trofeo, nonostante abbiano potuto contare su diverse generazioni di giocatori molto talentuose. Quindi non deve stupire se Sadio Mané, totem del Senegal e fresco campione d’Europa con il Liverpool, abbia rilasciato dichiarazioni piuttosto incisive, confessando di essere disposto a sacrifici inimmaginabili pur di rientrare a Dakar con la coppa tra le mani: «Se solo fosse possibile baratterei la Champions League conquistata con il Liverpool pur di vincere la Coppa d’Africa con il Senegal».
Le parole della sua stella fotografano al meglio il significato di questo torneo per il Senegal: i Leoni della Teranga sono una squadra in missione, arrivata in Egitto per combattere i fantasmi del passato e colmare un vuoto storico nella bacheca. Finora, nonostante gli errori dal dischetto di Sadio Mané, le cose sono andate nel verso giusto: il Senegal ha spazzato via il Kenya con un secco 3-0 e, dopo aver superato l’Uganda agli ottavi e messo fine alla favola del Benin nei quarti, ha battuto la Tunisia in una tiratissima semifinale decisa da un’autorete di Bronn nei supplementari.
Un percorso che è valso il ritorno in finale di Coppa d’Africa a distanza di 17 anni dalla prima e unica volta. Per Aliou Cissé, che nel 2002 da capitano aveva sbagliato un rigore decisivo nell’epilogo con il Camerun, è stato come togliersi una zavorra dalla coscienza, mantenendo la promessa fatta nel 2015 a Kalidou Koulibaly per convincerlo a sposare la causa del Senegal: «Quando sono arrivato sulla panchina di questa nazionale mi sono ripromesso di portarla nuovamente a giocarsi una finale di Coppa d’Africa. In particolare l’ho promesso a Koulibaly: gli ho detto che se fosse venuto a giocare per noi, saremmo andati al Mondiale e avremmo raggiunto la finale di Coppa d’Africa», ha confessato Cissé in conferenza stampa.
La traversata del deserto
In Senegal, addirittura, c’è chi ha scritto un libro sulla maledizione della Coppa d’Africa, cercando di individuare i motivi di questa storica allergia al successo. Secondo Babacar Khalifa Ndiaye, decano del giornalismo senegalese e autore del volume Le Sénégal à la CAN de foot: Pourquoi les Lions n’y arrivent toujours pas?, le ragioni sono molteplici. Si va dall’inesperienza ad alto livello, alla mancanza cronica di organizzazione, passando per l’instabilità tecnica, fino alla sfortuna di incrociare sul cammino e venire eliminati dai padroni di casa, come è accaduto nel 1990 (Algeria), nel 2000 (Nigeria), nel 2004 (Tunisia), nel 2006 (Egitto) e nel 2012 (Guinea Equatoriale): «Guarda per esempio le partite con il Camerun: non lo battiamo praticamente mai, è la nostra bestia nera», ha spiegato il giornalista e scrittore senegalese in un’intervista a RFI.
Non a caso Ndiaye cita il Camerun, ritornando così al 2002, il vero pilastro fondativo di ogni tipo di narrativa sulla nazionale senegalese. Quell’anno i Leoni della Teranga, guidati dal compianto Bruno Metsu, si sono arresi in finale di Coppa d’Africa ai Leoni Indomabili soltanto ai calci di rigore, prima di stupire tutti raggiungendo i quarti di finale al mondiale nippocoreano dell’estate successiva. Dopo il trionfo nella gara inaugurale contro la Francia campione del Mondo, celebrato dalla stampa internazionale con l’epica del riscatto sull’antico colonizzatore, lo stesso presidente della repubblica Abdoulaye Wade si è camuffato tra la folla festante di Dakar, partecipando ai caroselli come un cittadino comune. Dal tettuccio di un pick-up, circondato da un oceano di persone, il presidente ha trovato anche il modo di arringare la folla, sventolando orgogliosamente una bandiera del Senegal: «È un momento bellissimo per il nostro Paese. Siccome la Francia è campione del Mondo e noi l’abbiamo battuta per la proprietà transitiva possiamo affermare che il Senegal è campione del Mondo», ha detto provocando un boato della gente.
In quegli anni per il Senegal sembra andare tutto a gonfie vele, il popolo sogna con la prospettiva di una nazionale finalmente vincente, ma in realtà è solo l’inizio di una fine già annunciata dopo l’addio del condottiero Bruno Metsu alla fine di quel Mondiale. I Leoni della Teranga non possono saperlo, ma sono solamente all’imbocco di una lunga traversata del deserto, segnata da crisi federali più o meno cicliche e da un esasperato caos tecnico: dall’addio di Metsu all’avvento del suo allievo Aliou Cissé, per dire, sulla panchina del Senegal si sono alternati ben dieci allenatori, di cui sette autoctoni.
Le conseguenze non si sono fatte attendere. Nel 2008, solo sei anni dopo le mirabilie in mondovisione di Henri Camara ed El Hadji Diouf, a Dakar l’entusiasmo aveva già lasciato spazio alla depressione. Se nel 2002 il calcio senegalese ha raggiunto lo zenit, nel 2008 è precipitato fino a toccare il nadir: non solo quell’anno la Coppa d’Africa in Ghana si è chiusa in maniera disastrosa per il Senegal, eliminato ai gironi con tanto di dimissioni di Kasperczak a manifestazione in corso e alcuni giocatori pizzicati in discoteca alla vigilia del match decisivo con il Sudafrica, ma i Leoni della Teranga hanno dovuto dire addio anche ai Mondiali sudafricani del 2010, pareggiando in casa con il modesto Gambia.
Come nel 2002 la gente è scesa in piazza, ma stavolta per protestare, dando luogo a violenti tafferugli per le strade della capitale Dakar: «Siamo un paese molto complicato. Sono consapevole che qualcuno non esiterà un attimo ad esonerarmi per calmare i bollenti spiriti», dichiarava ormai rassegnato l’allenatore dell’epoca Lamine N’diaye, consapevole di essere un capro espiatorio, mentre sullo stadio Léopold Sédar Senghor s’innalzavano le colonne di fumo provenienti dai piccoli roghi accesi dalla folla intorno all’impianto.
La rinascita
Secondo Abdoulaye D. Faye, difensore del Senegal tra il 2004 e il 2010, l’origine della crisi post 2002 non è da ricercare tanto nell’instabilità tecnica, o almeno non solo, quanto nella qualità scadente del coaching, senza per questo voler scomodare l’eterno dibattito tra gli stregoni bianchi europei e i tecnici autoctoni: “Dopo l’addio di Kasperczak», ha spiegato Faye, «il problema del Senegal è stato il non avere, allenatori che in passato fossero stati anche dei grandi giocatori» Seguendo questa filosofia, quindi, non è un caso se una forte spinta alla rinascita cominciata all’inizio del nuovo decennio sia arrivata dopo l’avvento di Aliou Cissé, il carismatico capitano del 2002 chiamato a ricostruire i Leoni della Teranga sulle macerie lasciate dal francese Alain Giresse dopo l’eliminazione al primo turno della Coppa d’Africa 2015.
Il tecnico di Ziguinchor non ha preteso una rivoluzione, ma ha portato due ingredienti come lungimiranza e stabilità, assemblando in quattro anni una squadra all’insegna della continuità e con un’identità riconoscibile, anche a costo di sacrificare l’estetica sull’altare della pragmaticità: 15 dei 23 giocatori della spedizione egiziana erano presenti un anno fa ai Mondiali di Russia, 12 invece c’erano già due anni fa alla Coppa d’Africa in Gabon quando il Senegal è stato eliminato ai quarti dal Camerun. Ad un ipotetico gran premio della bellezza il Senegal di Cissé non partirebbe mai in pole position, differentemente dalla squadra del 2002, ma a lui poco importa: «Preferisco vincere come l’Atletico Madrid che perdere giocando come il Barcellona».
Cissé, però, non ha fatto tutto da solo. Per il risollevamento del movimento senegalese è stato decisivo il ruolo svolto dalle tante accademie spuntate nel Paese all’alba del nuovo millennio. Da queste strutture il Senegal ha tratto il talento necessario per il rilancio: 6 dei 23 giocatori a disposizione di Aliou Cissé, infatti, si sono formati tra Génération Foot, Oslo Football Academy e Diambars, l’accademia fondata da Patrick Vieira a Saly insieme ad alcuni soci. In particolare si è distinta la Génération Foot di Dakar, la culla di Ismaila Sarr e Sadio Mané, vera e proprio locomotiva della rinascita calcistica senegalese. Lo pensa anche Augustin Senghor, il presidente della federazione della Teranga: «Progetti come quello della Génération Foot e della Diambars permettono all’intero movimento di fare passi avanti. Se il Senegal ha ottenuto buoni risultati negli ultimi anni, è anche grazie a queste accademie, che noi dobbiamo incoraggiare».
Fondata nel 2000 da Mady Touré, con gli anni la GF si è data una struttura professionale, stipulando nel 2003 un partenariato con i francesi del Metz. Cosi da quel momento in poi i migliori talenti senegalesi svezzati dalla Génération Foot hanno usato il Metz come testa di ponte per lo approccio con la nuova realtà europea, prima di spiccare il volo verso lidi più prestigiosi. La lista di giocatori passati dalla GF al Metz è lunga, come ha ricordato il presidente Mady Touré a So Foot: «Oltre a Mané e Sarr, al Metz abbiamo dato anche giocatori come Papiss Cissé, Habib Diallo, Diafra Sakho e Ibrahima Niane».
Questo, se da un lato ha impoverito il campionato senegalese, dall’altro ha portato enormi benefici alla nazionale, consentendo ai migliori talenti del Paese di misurarsi immediatamente in un contesto più competitivo – considerando che il professionismo è sbarcato in Senegal solamente nel 2009. Mané e Sarr, per esempio, sono arrivati in Europa a cinque anni di distanza l’uno dell’altro, diventando nel giro di pochi anni calciatori di livello internazionale e portabandiera di un’intera nazione. Su Mané, in particolare, si posano le speranze del popolo senegalese di superare l’Algeria e veder trionfare per la prima volta i Leoni della Teranga in Coppa d’Africa. Il fuoriclasse del Liverpool avrà pure una motivazione extra: se stasera, nella bolgia dello Stadio Internazionale del Cairo, Sadio Mané solleverà al cielo la Coppa d’Africa, fra qualche mese potremmo vedergli fare lo stesso con il Pallone d’Oro.