Ghemon, lo sport e l’America

Il rap, la passione per lo sport, la cultura street: intervista al più americano tra gli artisti italiani.

In Do The Right Thing, il claim che dà il titolo al film è una frase pronunciata dal Sindaco – un uomo all’apparenza inutile, in quanto vecchio e alcolizzato, che però è al contempo un’istituzione del quartiere e un personaggio così importante da fungere quasi da Grillo Parlante – che consiglia a Mookie di «fare la cosa giusta». Nel rap, almeno in Italia, non si è ancora capito quale sia la cosa giusta, ma proprio come l’alter ego di Spike Lee nel suo film più famoso, Ghemon è un personaggio indecifrabile, del quale però si ha la certezza che – esclusivamente con le buone – riuscirà a ottenere ciò che gli spetta.

Il concetto di non essere mai aggressivo e di non rompere mai eccessivamente il cazzo, ma di continuare con la propria morale e per la propria strada, è qualcosa che ha avuto il suo exploit nella partecipazione a Sanremo. È davvero la scelta giusta? Cosa porta a un rapper – nella sua accezione più pura – il palco più in vista, ma anche più antiquato, d’Italia? «Questo boom lo sto gestendo un po’ day by day, quello che arriva faccio. Sto prendendo come viene, senza grossi stress, perché sono stato abituato a molto di peggio: l’esposizione è un regalo, non è stressante», dice. «È magari più stressante quando vuoi stare in studio, sei stato esposto a lungo, e sparire sembra una follia. So che è filosofia molto spicciola, ma era molto peggio quando non mi cagava nessuno, quindi prendo tutto ciò con molta gioia», mi racconta con una tranquillità quasi zen.

Ho incrociato la strada di Ghemon molte volte, per i motivi più disparati, dalle sneaker agli allenamenti di calcio. Il linguaggio è sempre stato, seppur con le più disparate divergenze, abbastanza affine, eppure personalmente i dubbi su Sanremo erano molti, conoscendo il pubblico medio della kermesse e conoscendo la rettitudine morale – se così si può definire – di Ghemon. La domanda più spontanea, dunque, è se non ci fosse paura di essere fraintesi. Dice: «La prendo alla larga. Arrivano dei momenti in cui pensi di star facendo le cose bene, investi tantissimo nei live, ci metti tantissimo pensiero sul disco, sull’artwork, sul messaggio, sulle interviste, su tutto, ma banalmente non arrivi al numero di persone a cui ambisci. Che non significa che ci sono 30 persone ai tuoi concerti o che non vendi dischi, ma che non arriva mai quell’upgrade. Lì devi farti diverse domande, io di solito se devo trovare un correttivo, cerco di agire su di me, mai su chi lavora con me. Cosa porta di buono Sanremo? Il fatto che ci sono un sacco di persone che non inciamperebbero nelle mie cose neanche per sbaglio, perché la loro vita fa altri giri, ma la loro sensibilità, o anche la loro esigenza nei confronti della musica e dell’arte coincide perfettamente con quello  che faccio. Quindi arrivare a Sanremo con una canzone abbastanza identitaria come “Rose Viola” è stata una bella vetrina. Uno oggi arriva su internet e trova cinque dischi, due mixtape, due Ep, un libro e una valanga di altre informazioni. Perché magari uno ha 45 anni, non ha mai ascoltato né Neffa né i Sangue Misto, perché la vita va così, però la cosa che faccio io lo riguarda, in qualche modo».

«Arrivare a Sanremo con una canzone abbastanza identitaria come “Rose Viola” è stata una bella vetrina»L’environment di Ghemon è molto chiaro anche solo guardandogli i piedi, non solo oggi, ma in ogni momento in cui abbiamo accesso alla sua vita, sia su Instagram che a un concerto. Si spazia dalle Jordan alle Under Armour che veste oggi, il marchio che più di ogni altra cosa in questo momento associamo a Stephen Curry, l’ennesima grande rivoluzione della palla a spicchi. Fa però strano che in Italia il rap sia così legato al basket – e infatti non lo è, se non in alcuni personaggi che sono eccezioni, come appunto Ghemon. «Ci sono due livelli di questa mia passione: io ho conosciuto il rap e il basket negli anni ‘90, un periodo in cui entrambe le fazioni stavano vivendo una golden age. He Got Game, Space Jam… Parlavo con un ex giocatore Nba a New York del fatto che a un certo punto i ragazzini hanno voluto mettere le scarpe da ginnastica, perché iniziavano ad averle addosso gli atleti, che erano i loro miti. Però quei ragazzini ascoltavano anche il rap, quindi oltre ad averle i cestisti, le loro scarpe dei sogni le avevano anche i Run DMC, perché alla fine erano dei ragazzini che guardavano al basket. Ora, invece, i giocatori della Nba hanno 20 anni, sono dei ragazzini e hanno come modello di riferimento i rapper. Quest’emulazione si è un po’ invertita. Quindi io non faccio proprio differenza da quel punto di vista. Ovviamente, da italiano, questo rapporto lo ho anche con il calcio, ma in maniera più blanda, perché non è affine con la cultura afro-americana, che costituisce gran parte dei miei ascolti e delle mie influenze. Ho un rapporto con lo sport di totale dipendenza, quasi. La mattina mi alzo e guardo Sky Sport, sfoglio la Gazzetta, per cui, anche se distrattamente, so cosa succede più o meno in ogni sport. L’altro livello che dicevo, che è un po’ più americano come imprinting – e non so dirti perché uno nato e cresciuto ad Avellino debba avere questo mindset così tanto americano – è quello di strive for greatness, dell’allenamento, del non mollare. Di quel mondo non mi ispiravano le catenazze, anche se le capivo, ne potevo rimanere in qualche modo colpito, ma mi affascinava molto di più lo sbattimento di allenarsi per arrivare, di affinare il talento».

Un altro freno, appunto, nei confronti di Sanremo, era l’età. Prima di sederci a fare l’intervista, parlavamo di come oggi fare una squadra di giovani su Fifa (il videogioco) voglia dire, praticamente, scegliere persone che hanno un numero considerevole di anni meno di noi. Fare i conti con quei numeri che ci definiscono più di ogni altra cosa, è necessaria per un rapper per rimanere nel music business?

«Se guardi gli Stati Uniti, ora, gli adulti hanno ancora dei numeri grandi: Jay-Z, Kanye West, Eminem. Sono ultra 40enni e ancora sono delle popstar. Quelli che avevano 40 anni dieci anni fa sono rimasti iconici, penso ai Public Enemy, ma non hanno mantenuto quello status. Noi stessi siamo la prima generazione che va verso i 40 anni e continua a poter fare questa cosa tranquillamente. Poi io, nello specifico, ho cercato di ritagliarmi uno spazio tutto mio che mi consentisse di arrivare a 50 anni e rappare – o più generalmente fare musica – con gioia. Qualcun altro non so se a 50 anni potrà fare ciò che fa oggi con estrema gioia… Però cazzi loro (ride, nda)». Poi aggiunge: «Tutto quello che faccio lo vedo principalmente come evolutivo, non come conservativo. Preferisco essere un esploratore, così posso confrontarmi con qualcosa di sempre nuovo, e quello mi dà la sfida e la soddisfazione e sempre all’americana maniera mi piace il ruolo di entertainer multidisciplinare, non mi interessa fare una cosa sola. Ti racconto questa cosa molto divertente: Pyrex della Dark Polo Gang è, per sua ammissione, un mio fan. E l’altro giorno mi ha presentato alla sua fidanzata – pur avendomi appena parlato di “Fantasmi Pt. 2”, quindi conoscendo benissimo il mio lato rap – come “Ghemon, un cantante R’n’B”. Che è giusto, è anche un po’ la mia missione al momento. Io so benissimo che rimango un rapper, ma non c’è un modo di chiamarmi preciso in Italia. Durante il Festival, parolacce come soul e R’n’B, sono state le più utilizzate dai telegiornali per definirmi».

«Tutto quello che faccio lo vedo principalmente come evolutivo, non come conservativo. Preferisco essere un esploratore»E come si concilia in Ghemon e nel rap italiano la passione per lo sport? «So che sembra una paraculata, ma sono davvero fan dello sport. Ho delle simpatie, ma non sono dominanti, non mi annebbia mai il tifo. Sono tifoso del bel gioco che non vince, perché lo trovo romantico. Sono stato un grandissimo fan della Samp di Verón, Mihajlovic, perché mi sembrava un accrocco di potenziali campioni che però non vincevano. Ma lo stesso discorso potrei farlo con il Napoli di Sarri: da avellinese non posso tifare Napoli (ride, nda), però guardavo con simpatia. Poi sono fan delle storie, specialmente di quello che comprendono inferno e risalita – anche questo concetto molto americano, ma non lo faccio apposta. In Italia il fallimento, invece, rimane sempre un bollino. Qui è più risaltato l’errore che lo sforzo. Calcola, poi, che il rap prima era degli alternativi, ovvero di quelli che erano stati rifiutati da tutto: dalla musica, dallo sport. Era l’ancora di salvezza: non toccherò mai un pallone, ma almeno ho il rap. L’impressione invece è che oggi sia molto mordi e fuggi, Nba e rap sono legati perché è un incontro tra culture. In Italia, vedendo il rap e il calcio, sembra più un incontro tra jet set. Però è anche vero che calcio e rap oggi sono le due realtà che al momento parlano di più ai ragazzi, quindi sarebbe anche interessante se in qualche modo andassero un po’ di pari passo».

In sostanza è chiaro che, per Ghemon, Sanremo sia stata la scelta giusta, nonostante le reticenze del caso e dell’ambiente. Quando Drake scrisse “Started From The Bottom”, concludeva lo statement con “now we’re here”, ma “qui” è molto generico, non è il fondo, che tutti conosciamo. La storia di Gianluca, come le storie che lui ama dello sport, è sicuramente partita da zero, a volte ci è ritornata, ma ha come grande caratteristica quella di non aver avuto confini. Oggi Ghemon “canta”, ma si sente un rapper, domani rapperà, ma magari sentendosi altro. Altro che, come l’here di Drake, è sempre bene non specificare.

Dal numero 28 di Undici