Non servivano i due gol realizzati alla Sampdoria, non serviva neanche la pietra miliare delle 100 marcature in Serie A, perché Ciro Immobile potesse essere celebrato come uno degli attaccanti italiani più efficaci degli ultimi anni. Da quando ha firmato con la Lazio, il centravanti napoletano ha segnato 88 gol in 135 partite, e ha sempre superato le 15 realizzazioni in campionato, anche in un’annata come l’ultima, non proprio brillantissima – 19 reti totali in tutte le competizioni, solo una in Europa League.
L’identificazione di Immobile con la sua squadra e con Simone Inzaghi è pressoché totale, e spiega gran parte della sua forza realizzativa, della sua crescita nelle ultime stagioni: entrambi sono arrivati insieme alla Lazio, quindi il tecnico emiliano ha sempre costruito il suo gioco intorno a lui. La prossimità non è solo fisica e circostanziale, ma anche filosofica: Inzaghi è un allenatore elastico, che ama modellare il proprio sistema tattico sulle caratteristiche dei calciatori che ha a disposizione, perciò la Lazio degli ultimi tre anni è stata pensata e messa in campo per servire Immobile, per creare spazi da attaccare in verticale, in cui Immobile potesse correre per poi cercare la conclusione verso la porta – le doti migliori e più evidenti del suo portfolio. Le prime uscite della nuova stagione sembrano confermare questa impostazione, questa simbiosi.
Nel Pescara di Zeman, stagione 2011/12, Immobile ha segnato 28 gol in 37 partite; nel Torino guidato da Ventura, due anni dopo, ha realizzato 22 reti e ha vinto il titolo di capocannoniere in Serie A. Sono le stesse cifre raggiunte durante la sua esperienza alla Lazio, ed evidentemente non è un caso: quando si trova in un sistema tattico che gradisce, e che funziona, Immobile è un calciatore che esalta, e che si esalta. Fare tanti gol, imporsi lavorando con allenatori così diversi tra loro, è sicuramente un merito. Un merito che spazza via uno dei grandi dubbi su Immobile, quello per cui sarebbe un attaccante limitato nella comprensione del gioco. Anzi, è proprio il contrario: le sofisticate triangolazioni – con e senza palla – di Zeman richiedevano letture avanzate rispetto ai movimenti propri e a quelli dei compagni; il gioco di Ventura era rapido e immediato, nonché dispendioso dal punto di vista fisico; la Lazio di Inzaghi è una squadra multiforme, che chiede al proprio centravanti di muoversi praticamente a tutto campo, così da trovare gli spazi migliori per finalizzare la manovra.
Ridurre l’intero discorso su Immobile cucendogli addosso l’etichetta del “centravanti elementare” è dunque semplicistico. Esistono, però, anche i sostenitori di questa teoria, che a loro volta potrebbero agitare i fallimenti all’estero e in Nazionale: Immobile mette insieme 21 gol in 68 presenze con Borussia Dortmund, Siviglia e Italia. Tra l’altro, 14 partite giocate in Nazionale (su 36 totali) vedevano proprio il suo mentore Ventura sulla panchina azzurra. Una sproporzione evidente, che chiarisce la dimensione di Ciro Immobile: non è un centravanti elementare, piuttosto è una punta che ha bisogno di un contesto particolare per rendere al meglio. Un contesto fatto di incastri tecnici, geografici, emotivi.
Per un giocatore del genere, le difese di A sono perfette: attente e precise nella fasi di gioco statiche, meno reattive in transizione, negli spazi apertiIl profilo di Immobile è atipico: non è un attaccante raffinato nei fondamentali ma non è neanche un pivot, il suo fisico (185 cm per 85 kg) gli permette di essere esplosivo e resistente della corsa, quindi di rendere al meglio quando può attaccare l’area di rigore, non quando deve occuparla o deve dialogare con i compagni. Per un giocatore del genere, le difese di Serie A sono perfette: attente e precise nella fasi di gioco statiche, meno reattive in transizione, negli spazi aperti. Una differenza netta rispetto alla Bundesliga, alla Liga, al calcio europeo in generale, in cui i difensori sono più abituati a correre in avanti, a coprire ampie porzioni di campo, anche a grande velocità. Non è un caso che i gol segnati lontano dalla Serie A siano arrivati contro avversari di livello più basso: Colonia, Wolfsbrug e Stoccarda in Bundesliga; Anderlecht e Galatasaray in Champions League; Steaua Bucarest e Salisburgo in Europa League (più altre squadre trascurabili); Israele, Macedonia, Liechtenstein e Albania in Nazionale. A referto, una sola marcatura contro una big riconosciuta del calcio internazionale: l’Arsenal, nella Champions League 2014/15.
Un altro aspetto fondamentale riguarda l’adattamento a stili di vita diversi, come se il discorso tecnico-tattico si estendesse pure fuori dal campo: Immobile ha fatto fatica ad ambientarsi in Germania, in un’intervista rilasciata a Sportweek durante l’esperienza al Borussia Dortmund raccontava che «i tedeschi sono freddi, non c’è niente da fare: in 8 mesi che sono qua, nessun compagno di squadra mi ha mai invitato a casa sua a cena»; in un’altra intervista rilasciata al Diario de Sevilla, all’inizio della sua avventura in Spagna, spiegava come in Germania si sentisse «isolato dal resto della squadra», inoltre la lingua era «troppo difficile»; anche in Andalusia, nonostante una cultura decisamente più vicina a quella italiana, Immobile gioca poco e male, e dopo soli sei mesi decide di ritornare al Torino.
Il ritorno in Italia è stato trionfale, ma ha anche confermato la sensazione per cui Immobile ha bisogno di un tetris di situazioni favorevoli per rendere al meglio: l’utilizzo di un sistema di gioco congeniale alle sue caratteristiche da parte del suo allenatore; un ambiente che non lo deprima, dal punto di vista umano e sociale; una richiesta tecnica e prestazionale non eccessiva, proprio per quanto riguarda le ambizioni del club, e quindi il suo rendimento. Anche da questo punto di vista Immobile e la Lazio sono vicinissimi, la loro unione è ideale, assolutamente perfetta: la squadra di Simone Inzaghi è distante da alcune realtà del nostro campionato – Juventus e Napoli, secondo le classifiche degli ultimi anni –, ma aspira sempre a lottare per le prime posizioni contro organici di livello similare, o poco superiore – l’Inter, la Roma, il Milan, poi è arrivata anche l’Atalanta. I biancocelesti non sono mai riusciti a spuntarla, a fare il salto di qualità definitivo, e pure in Europa League non sono mai andati oltre gli ottavi di finale; la Coppa Italia dell’ultimo anno è stato un bellissimo premio alla serietà e alla costanza del progetto, ma non ha lo stesso valore e lo stesso impatto di una qualificazione alla Champions League.
È la storia di Immobile, se ci pensi: ha segnato tanti gol, ha dimostrato di essere un giocatore di grande qualità, ma ogni volta che è stato chiamato a fare l’ultimo step ha finito per smarrirsi, non è riuscito ad andare oltre una determinata dimensione. In vista dei 30 anni (li compirà a febbraio 2020), la fase di evoluzione e di maturazione è praticamente finita, magari non è ancora arrivato il momento del declino, ma non è eccessivo pensare che abbia già raggiunto il suo apice fisico e tecnico. È stato ed è un attaccante prolifico e continuo, un eccellente realizzatore. Ma solo entro certi limiti. Solo fino a un certo livello.