L’Italia che torna ai Mondiali è la squadra di Marco Belinelli

La guardia dei San Antonio Spurs è il simbolo della Nazionale azzurra.

Tra Foshan, uno dei principali centri della provincia cinese del Guangdong, e Sapporo, capoluogo della prefettura di Hokkaido e quinta città giapponese per grandezza e numero di abitanti, passano quasi 3.500 chilometri e tredici anni. Una distanza geografica, temporale e metaforica, che separa l’ultimo Mondiale di basket disputato dall’Italia dal suo grande ritorno sulla scena internazionale. Una distanza che separa la partita che ha cambiato la vita di Marco Belinelli dall’ennesima pagina (l’ultima?) della sua storia azzurra. Non è un caso che l’uomo di San Giovanni in Persiceto sia il trait d’union tra quella versione dell’Italbasket e questa, ed è un discorso che prescinde dalla sua riconoscibilità, dal fatto che sia stato il primo – e unico – giocatore italiano a vincere un titolo in Nba: esattamente come la Nazionale, di cui è da tempo il leader tecnico ed emotivo, Belinelli ha dovuto fare i conti con una sottovalutazione perenne, legata a quell’idea di scontato che ha finito con il condizionare il giudizio sui traguardi che ha raggiunto, a livello personale e di squadra. Traguardi che erano tutto tranne che scontati.

Non era infatti scontato che un ragazzo italiano scelto alla #18 del Draft 2007 dai Golden State Warriors (un anno dopo la #1 di Andrea Bargnani) riuscisse a guadagnarsi una credibilità all’interno del contesto Nba nonostante una carriera da autentico “journeyman” – 9 squadre in 12 stagioni – e un inizio da incubo; e non era scontato che una shooting guard di 1.96 per 80 chili riuscisse, nel tempo, a trasformarsi in uno dei role players fisicamente più affidabili della lega su entrambi i lati del campo. Allo stesso modo, non era scontato che l’Italia, reduce dai quinti posti agli Europei 2015 e 2017 e dalla delusione del preolimpico di Torino, riuscisse ad arrivare in Cina, magari provando a strappare un pass per Tokyo 2020. La Nazionale azzurra rappresenta un movimento che non esprime più individualità di medio-alto livello con continuità, eppure giocherà di nuovo i Mondiali.

Belinelli ha giocato 149 partite con la Nazionale italiana (Ozan Kose/AFP/Getty Images)

Per tutti questi motivi non deve stupire la centralità, a parole e nei fatti, che Marco Belinelli si è conquistato all’interno del gruppo di Meo Sacchetti, il ct che proverà a migliorare il trend e a rinverdire l’ultimo grande risultato – l’argento ormai sbiadito di Atene 2004. Toccheranno infatti al 33enne dei San Antonio Spurs le maggiori responsabilità offensive, oltre che di conduzione fisica del gioco: l’Italia dovrà far fronte a una carenza nel reparto lunghi, che ha la sua rappresentazione plastica nel forfait di Niccolò Melli – a sua volta prossimo allo sbarco in Nba con i New Orleans Pelicans, e alle prese con un fastidioso infortunio al ginocchio destro – e alle incognite legate alle condizioni di Datome e Gallinari. Tutto questo in un primo girone che, stante l’apparente imbattibilità della Serbia di Jokic, impone la vittoria contro Filippine e Angola per poter poi navigare forzatamente a vista nelle perigliose acque della seconda fase.

Del resto la storia di Belinelli, della Nazionale, di Belinelli con la Nazionale, è una storia ciclica di adattamento a contingenze diverse rispetto alle condizioni iniziali, una storia sulla capacità di reinventarsi in funzione di qualcosa di più grande. Una storia cominciata appunto a Sapporo il 23 agosto 2006: Italia-Team Usa, quinta partita del gruppo D, 25 punti  – 5/7 dal campo, 4/11 da tre e una memorabile schiacciata in campo aperto – di un Belinelli appena ventunenne, tra l’altro marcato da LeBron James per gran parte del tempo. Una grande prestazione che non basta a bissare l’impresa di Colonia di due estati prima solo perché, poi, Carmelo Anthony impone la sua legge mettendone 35 nel 94-85 finale a favore degli americani. «Quella è stata la partita più importante della mia vita. Da lì in poi è cambiato tutto», racconterà in un’intervista con Federico Buffa. «Ero ancora molto magro, fisicamente non strutturato, ma il giorno dopo tutti gli scout Nba mi guardavano già con occhi diversi. Ricordo di essere entrato in campo con un po’ di paura ma, alla fine, a prevalere fu la voglia di dimostrare quello che ero in grado di fare. Anche di fronte a LeBron».

Premesse ottime, confermate in una Summer League post Draft da record: l’8 luglio 2007 realizzò 37 punti (14/20 dal campo e 5/7 da tre) in 40 minuti nel 110-102 degli Warriors sugli Hornets. Solo Keith Bogans, nel 2004, aveva fatto meglio con 38. Un grande avvio che però si è scontrato ben presto con la dura realtà dell’ostracismo del coach Don Nelson, e con quella diffidenza dei media, italiani e non, sulla sua effettiva appartenenza a un mondo del genere. Una diffidenza per molti versi ingenerosa, per altri giustificata dai risultati che tardavano ad arrivare (anche con la Nazionale), per altri ancora utile in quella trasformazione in icona di resistenza umana che gli ha permesso di diventare qualcosa d’altro, qualcosa di diverso. Con il tempo, la pazienza, l’etica del lavoro, l’umiltà di ripensare quello che è stato e quello che credeva di essere – cioè un giocatore che aveva bisogno di avere molto la palla in mano per dare sfogo ai suoi istinti realizzativi – in funzione di nuove prospettive di grandezza, Belinelli si è (ri)costruito una solida fama come knock-down shooter, oltre che una multimensionalità difensiva necessaria per confrontarsi giorno dopo giorno con le migliori combo guards della Nba.

Il miglior risultato dell’Italia ai Mondiali è il quarto posto colto nel 1970 e 1978 (Tao Zhang/Getty Images)

Fino ad un’altra partita, gara-7 del primo turno di playoff 2013 contro i Brooklyn Nets, che ha cambiato per sempre la percezione nei suoi confronti: non tanto e non solo per i 24 punti, per i tiri decisivi nei momenti chiave della partita, per essersi fatto trovare pronto nonostante la prolungata esclusione dalle rotazioni di Tom Thibodeau, quanto per aver dimostrato quella durezza mentale necessaria per mettersi in discussione, per stare nella Nba e starci da protagonista. Fino a quel «alla fine ho vinto!» urlato tra le lacrime un anno dopo, quando ha conquistato l’anello con i San Antonio Spurs. Più che una rivincita verso i suoi tanti detrattori, quel trionfo è stato l’ideale chiusura del cerchio di un uomo, prima ancora che di un giocatore, che aveva finalmente trovato se stesso e il suo posto nel mondo.

L’Italia che torna sulla scena mondiale tredici anni dopo è, da questo punto di vista, specchio fedele della parabola del suo numero 3: una squadra adattabile, che ubbidisce alle logiche del basket contemporaneo, per necessità più che per scelta. E che, anche a causa delle difficoltà nel percorso di avvicinamento ai Mondiali, non viene accreditata nemmeno tra le prime 10 del torneo. In realtà, il gruppo di Sacchetti ha già dimostrato di sapersi scrollare di dosso quell’idea di predestinazione derivante dal poter contare su giocatori Nba che in passato è stata alla base delle delusioni della “generazione perduta”. La generazione dei Bargnani, Belinelli, Gallinari e Datome, che adesso è in cerca di quel riscatto che sente di meritare dopo aver lavorato duro per ottenerlo. «Non siamo una squadra di giocatori alti e grossi ma abbiamo tanto talento e quindi cercheremo di avere un gioco veloce, con difesa a tutto campo e la ricerca del contropiede per arrivare a canestri facili. Soprattutto, però, proveremo a sfruttare il tiro da tre che credo sia la nostra arma migliore», ha detto recentemente proprio Belinelli. L’uomo che “alla fine ha vinto”, che ha dimostrato che la volontà deve essere più forte del talento. E chi meglio di lui, che si è preso l’America quando ormai nessuno ci credeva più, può guidare e rappresentare una Nazionale così?