In estate si è costruita un’Inter tutta nuova. Nei volti, nel modo di fare, e di giocare. Ma, per paradosso, è dopo tanti anni un’Inter che non riparte da zero. È quindi un’evoluzione, non una rinascita. La squadra è in ascesa perché lo è la società, che sta diventando qualcosa di diverso da ciò che è sempre stata, e sta cambiando sotto i nostri occhi. Per capire questo cambiamento, Claudio Savelli, Michele Dalai e Simone Torricini, firme di Undici, dicono la loro sui temi principali della stagione nerazzurra. È la terza tavola rotonda pubblicata sul nostro sito dopo quella sul Napoli e quella sulla Juventus.
I nuovi volti dell’Inter
Claudio Savelli: Giuseppe Marotta era una figura necessaria, che all’Inter mancava. Serviva un uomo in grado di affiancare il direttore sportivo, ma anche di rappresentare la società con frequenza, credibilità e capacità di dialogare. Non è un caso che il nuovo direttore si presenti ai microfoni prima di ogni partita. Ausilio, durante un’intervista, mi confidò che non amava parlare, ma che doveva farlo: ora questo problema è sistemato, si sa chi è la voce dell’Inter. Marotta non è l’unica novità, penso anche che sia sempre più in luce Steven Zhang, un presidente sottovalutato perché giovane. Invece è il volto perfetto di un’Inter ambiziosa, fresca, e internazionale. Lo è di nome, con il nuovo presidente, fresco di ingresso nell’Eca, sta tornando a esserlo anche di fatto.
Michele Dalai: La prima grande sfida per l’Inter del dopo Moratti riguardava i conti, sistemare le finanze traballanti e in veloce dissesto. Thohir prima e Suning dopo hanno tappato la falla, privilegiando la ricostruzione di strutture societarie solide rispetto al rafforzamento della parte sportiva. Terminato il ciclo di interventi, finalmente è iniziata la fase due, quella del vero ripensamento della parte tecnica, dirigenti e giocatori. Beppe Marotta ha un grande privilegio che può trasformarsi in un terribile onere: l’Inter è nelle sue mani, Marotta è il primo vero plenipotenziario dal 2010 a oggi, chiunque fa capo a lui per pochi passaggi, la filiera è corta e le decisioni sono sue. I primi mesi di silenzio e lavoro sul progetto avevano lasciato spazio a qualche dubbio e perplessità, l’estate appena passata ha mostrato i tratti di un timoniere determinato e perfettamente consapevole delle mosse successive. All’Inter pianificare è sempre stata pura utopia, con Marotta pare possibile. Una menzione speciale anche per Inter Media House, che ha cambiato l’immagine della squadra e inaugurato una nuova stagione nella comunicazione, traghettando l’Inter in una dimensione internazionale, affrontando temi semplici e complessi con lo stesso approccio.
L’impatto di Conte
Simone Torricini: C’è una cosa su tutte che Antonio Conte ha costretto anche e soprattutto chi non lo stimava a imparare sul suo conto: ovvero che dovunque si trova di passaggio finisce sempre per raccogliere un attestato di successo. Dalla Serie B vinta con il Bari alla promozione con il Siena, passando per il triennio che ha dato il là allo straordinario ciclo juventino, il suo curriculum in età ancora verde è pieno di acuti. E poi la Nazionale; non ha vinto né ci è andato particolarmente vicino, eppure tutti ne abbiamo un ricordo positivo. In questi tempi di magra, confidando nel futuro prossimo, non è poco. Infine il Chelsea: Premier League il primo anno, FA Cup il secondo. Riassunta così, su due piedi, la sua carriera sembra quasi una passeggiata. Chi lo ha scelto invece sa bene che non è così, che dietro al successo si nascondono tante altre cose. Se è vero che l’abitudine a vincere è una di queste, la taglia di Conte sembrava e sembra fatta su misura per vestire l’Inter. Un abito particolare, che dopo il biennio di Spalletti non poteva sottrarsi all’upgrade definitivo.
Michele Dalai: Antonio Conte è un eccellente allenatore, Antonio Conte non è l’allenatore che avrei voluto all’Inter e non c’è vittoria presente o futura che possa farmi cambiare idea. Per carità, viva il calcio moderno, i professionisti e la continua evoluzione di uomini e movimento, ma ci sono troppe cose, troppe caratteristiche di Conte che non mi sento di chiudere in un baule e dimenticare. Farà, sta facendo un ottimo lavoro, vivrò la condizione dissociata del tifoso scisso: felice per i risultati della squadra, indifferente all’operato dell’allenatore.
Claudio Savelli: Ho discusso tutta estate con amici interisti su questo tema. Sull’arrivo di Conte. Uno juventino, secondo alcuni. Un grande allenatore, secondo altri. Entrambi, secondo te, Michele. Capisco il fastidio, ma non lo condivido, nemmeno se fossi il più accanito dei tifosi nerazzurri, perché Conte è un upgrade enorme per l’Inter. Per questa Inter. Poterlo ingaggiare, e averlo fatto, significa annunciare l’inizio di una nuova era, l’ingresso della società in una dimensione superiore. A prescindere dai risultati: perché dopo anni (dal post-triplete), arriva sulla panchina nerazzurra un tecnico che ha vinto più di quanto abbia vinto la squadra che è chiamato ad allenare. È poi un guanto di sfida alla Juventus, che conosce Conte, e il suo impatto, più di qualunque altra società. L’Inter sposa l’ex bianconero nel momento in cui la Juve cambia se stessa, e quindi ha qualche dubbio sul futuro: non c’era momento migliore. Al di là del discorso emotivo e psicologico, poi, l’Inter aveva bisogno di un allenatore come Conte, in grado di creare un’identità di gioco riconoscibile. E di rendere il gioco più ritmico, frizzante, coinvolgente. Il biennio con Spalletti è servito per organizzare le risorse, la legna da ardere, ma serviva una fiamma per accendere il focolare. E Conte può essere questa fiamma.
San Siro e il 3-5-2
Claudio Savelli: La credibilità di Conte è anche data dalla disponibilità del pubblico a digerire il 3-5-2. Storicamente la difesa a tre è sempre stata criticata nel mondo nerazzurro. Stavolta c’è invece la curiosità nel vederla applicata da Conte, anche perché è uno schieramento che consente il ritorno del tanto sospirato “doppio centravanti”, in cui i tifosi nerazzurri si riconoscono. Credo che sia rilevante notare questa apertura mentale perché contiene la fiducia a Conte, anche di quei tifosi che non riescono a digerire il suo avvento, e contiene anche la crescita culturale del pubblico, non solo quello nerazzurro, ma del calcio in generale: si è capito che non è tanto il modulo che conta, quanto l’identità di gioco.
Michele Dalai: Il pubblico di San Siro ha vissuto anni di 3-5-2 con Mazzarri e nonostante la poca passione per l’allenatore siamo riusciti ad assorbire il buono di quel modulo, di quel concetto di gioco. Dopo anni di Icardi isolato in avanti la vera novità sarà piuttosto vedere due punte che agiscono armonicamente e salutare con euforia gli inserimenti degli interni di centrocampo. Un gioco corale anche nell’ultima fase e non solo nell’impostazione.
Simone Torricini: Va detto anche che a spingere Conte verso l’adozione della difesa a tre non è stato un impulso ideologico, bensì le circostanze in cui si è trovato a lavorare. È valso per la Juventus, dove si accorse progressivamente che il trio Barzagli-Bonucci-Chiellini doveva essere un trio, ed è valso anche per il Chelsea, dove capì che David Luiz necessitava di condizioni particolari per rendere al massimo e dove aveva due esterni – Alonso e Moses – che non sono né ali né terzini. All’Inter la situazione è piuttosto simile: ha in rosa tre centrali di alto livello, e gli mancano dei laterali moderni, con forza aerobica, qualità ed intelligenza tattica per fare come si deve la doppia fase. Se il centrocampo a tre – dato Brozovic, e dati gli investimenti per Sensi e Barella – è di fatto intoccabile, e se è vero che Lukaku ha bisogno di un partner d’attacco, si tratta semplicemente di accettare che il 3-5-2 è il sistema di gioco più funzionale per l’Inter che è e che verrà.
L’addio ai vecchi leader
Michele Dalai: L’addio a Icardi si è trasformato da tema tecnico e sentimentale a caso di studio psichiatrico. Perdere Mauro Icardi è una sconfitta per tutti: giocatore, società e tifosi. Non solo per il valore tecnico del calciatore ma anche e soprattutto per le modalità, un divorzio rabbioso prima e solo faticoso dopo, un finale inadeguato alla storia di Icardi all’Inter, 124 gol e anni al servizio di squadre mediocri e mal costruite. Detto ciò, assodata la tristezza delle modalità, il divorzio era inevitabile. Perisic ha vissuto stagioni di alti e bassi e ha pagato molto la scarsa empatia, di Nainggolan inutile discutere. Troppo breve e troppo poco incisivo il suo passaggio, di certo la leadership è altra cosa. Nel silenzio invece se n’è andato uno dei pochi leader naturali dello spogliatoio: João Miranda. Splendido difensore, arrivato tardi eppure impeccabile in campo, ha sostenuto per due anni le amnesie di tanti compagni di reparto e si è progressivamente eclissato. Per inciso: in questo contesto, Stefano Sensi e Nicolò Barella sono due acquisti fondamentali e rappresentativi della nuova stagione interista. Centrocampisti, giovani, italiani. La volontà di costruire un progetto a lungo termine che abbia interpreti nuovi, che lo sposino e sappiano raccontarlo e trasmetterne il senso ai nuovi arrivati. Le dinastie (dinasty per i professionisti americani), si costruiscono così.
Claudio Savelli: Cambierei prospettiva sugli addii. Con il senno di poi, credo che la società abbia saputo trasformare un problema (anzi, tre: Nainggolan, Perisic e Icardi) in un’occasione di crescita. Averli ceduti tutti, seppur in prestito, è forse il miglior acquisto estivo dell’Inter perché così la società ha dimostrato forza e coerenza, cioè quello di cui aveva bisogno. E così ricorda ai giocatori che nessuno è indispensabile, che l’Inter bisogna guadagnarsela ogni giorno, e che devono farlo anche i leader. Così si libera anche di un passato che, per paradosso, aveva raggiunto l’obiettivo Champions, e quindi implicitamente ribadisce la volontà di andare oltre se stessa, di compiere un salto di qualità.
Il significato di Lukaku
Simone Torricini: Come Conte nel corso della sua carriera si è guadagnato successo dopo successo l’etichetta di “vincente”, così Lukaku ne ha conquistata una che per un attaccante, anche oggi, rimane indispensabile: è uno che segna. Con l’Anderlecht (41 volte in 98 partite), con l’Everton (87 in 166), con il Man United (42 in 96) e con il Belgio (49 in 82). Nei suoi nove anni di carriera (il decimo è appena iniziato) ha fallito soltanto al Chelsea. Se di fallimento si può parlare, visto che negli stessi anni da Cobham sono passati – e sono stati scartati – anche Momo Salah e Kevin De Bruyne. Considerando tutti i punti di vista (la spesa, il confronto con il predecessore, una tendenza a sparire nei momenti clou) l’operazione Lukaku può lasciare alcune perplessità, ma sul fatto che il belga garantirà la sua consistente doppia cifra stagionale i dubbi sono davvero prossimi allo zero.
Claudio Savelli: Lukaku è un acquisto significativo perché testimonia il ritorno dell’Inter sul mercato degli attaccanti di massimo livello, acquistati da top-team europei. L’ultimo fu Eto’o, che però fu scambiato con Ibrahimovic. Il belga, poi, è stato acquistato dal Manchester United, e dalla Premier League, cioè uno dei club più potenti al mondo e la lega più ricca. Negli anni passati, pre-Suning, un acquisto del genere non sarebbe stato possibile. Vuol dire anche che Lukaku ha scelto l’Inter, e quindi ne ha fortificato l’immagine. In campo, poi, può portare cose nuove, un raggio di azione più ampio rispetto a Icardi e una personalità diversa, più espansiva e positiva, sorridente.
Michele Dalai: Non tanto, non solo il giocatore. Lukaku è una rockstar, il suo management è quello di una rockstar, le sue dichiarazioni sono quelle di un uomo intelligente, poco propenso alla banalizzazione di fatti gravi e molto abituato a essere analitico. Il suo arrivo costringe molti di quelli che hanno vissuto di luoghi comuni ed epica gratuita, di minimizzazioni e benaltrismi, a ripensare alle parole che usiamo quando parliamo di razzismo. Una personalità dirompente.