Che Maradona è il Maradona di Asif Kapadia

Se guardiamo al Pibe come a una popstar figlia della propria epoca, i suoi eccessi ci risultano tutto sommato normali.

L’ultimo documentario diretto da Asif Kapadia prima di Diego Maradona era stato il Premio Oscar Amy (2015): un film sulla cantante Amy Winehouse intesa come popstar di risonanza mondiale, geniale e “maledetta” al netto delle inflessioni che comporta una vita stra-esposta ai riflettori. Insomma: i successi e gli errori, le soddisfazioni e le fragilità, il talento e le debolezze. Senza una linea di demarcazione, perché nella psiche della protagonista ciascun elemento influenza gli altri, e viceversa. La nuova pellicola del regista inglese di origine indiana, stavolta dedicata al Pibe de Oro, riparte da lì: raccontare Diego Armando Maradona come un’icona pop allo zenit della fama, con le trappole e le contraddizioni che il suo ruolo inevitabilmente ha incontrato. Sempre, ovviamente, geniale e maledetto, ma anche star, divo “trasversale” e anche “semi-dio”. Un dio, sottolinea il film, piuttosto incline agli errori.

Dello sport – inteso come competizione, o semplicemente espressione di quello che magari è il più grande calciatore di sempre – Kapadia non vuole cogliere troppo. Ciò che conta, qui, è l’uomo: quel “Diego” in conflitto aperto col “Maradona” che la domenica scendeva in campo. Come il primo affronta il secondo, come il secondo influenza il primo: là dove pubblico e privato vorrebbero rimanere distinti, senza riuscirci. Ovviamente si tratta di una vicenda umana non facile da maneggiare, ma è l’unica prospettiva da cui – dopo trent’anni di sterilità sull’essere stato o meno migliore di Pelé, o se il suo stile di vita abbia influito o no nel rendimento in campo – valga la pena procedere.

Certo c’è da scavare, per offrire un ritratto pieno delle contraddizioni del personaggio. Diego Maradona lo fa – per due ore filate – sfruttando materiale ad alta fedeltà. Presentata a Cannes lo scorso maggio, e in sala in Italia dal 23 al 25 settembre distribuito da Nexo Digital, l’opera condivide infatti con Senna (2010) – altro lavoro di Kapadia di indirizzo sportivo, su Ayrton Senna – la natura iper-realistica: è costruito con soli filmati d’epoca, integrati con le testimonianze di chi c’era e dello stesso Maradona. Gli spezzoni – alcuni intimi, altri famosissimi (i soliti, insomma) – riguardano quasi tutti il periodo napoletano, dal 1984 al 1991. Gli altri, come quelli sull’infanzia difficile a Villa Fiorito (il quartiere di Buenos Aires), la spola Boca–Barcellona e i pentimenti post-ritiro, sono marginali e forniscono giusto il contesto per comprendere gli eventi italiani. Perché è lì, in quelle sette stagioni in azzurro, che Maradona ha alzato i due scudetti e il Mondiale che l’hanno reso icona. Lì Maradona è diventato uomo, da ragazzino che era il giorno della storica presentazione al San Paolo. Lì Maradona è asceso all’Olimpo, prima di caderne. Lì Maradona ha vinto e lì ha sbagliato. Lì è racchiusa la sua storia umana.

Quella sportiva, al contrario, come dicevamo rimane sfumata: un talento innato più che allenato, il primo contratto con l’Argentinos Jrs, il Boca e poco ancora. Del resto – proprio perché si parla di una figura pop – tutti sanno chi sia stato Diego a livello strettamente tecnico, e Kapadia non ricalca. Al massimo le scene dal campo riguardano i passaggi che l’hanno consacrato nell’immaginario collettivo: la difficile stagione d’esordio a Napoli nel 1984, il Mondiale di Messico ’86, la Mano de Dios, lo Scudetto del 1987 e, in posizione più defilata, la vittoria della Coppa Uefa 1989. E però, anche qui, il focus non è mai sul gesto tecnico in sé, sulla traiettoria impossibile della punizione contro la Juventus del 1985 o sui tocchi di palla consecutivi nel gol contro l’Inghilterra dell’anno dopo, ma sulle conseguenze che quelle reti, e quelle vittorie, hanno avuto sulla gente e sulla percezione di Diego nel mondo. Come, insomma, cresce il mito di Maradona, e in che modo lui ne gestisce le responsabilità. E quindi – di nuovo – Maradona e il mondo, Diego e Maradona, pubblico e privato.

Arrivato nel 1984, Maradona rimarrà al Napoli fino al 1991. In 259 partite tra Italia ed Europa segna 115 gol. La sua migliore stagione è la 1987/88, quando segna 21 reti

Su tutte, le sequenze dominanti sono quelle in cui El Pibe gira per Napoli come un re nel suo regno, da popstar: i tifosi che lo acclamano con euforia, i sintomi di un’idolatria esasperata che diventa parossistica in occasione della semifinale Italia–Argentina giocata al San Paolo nel 1990, scene di isteria collettiva mai viste per un atleta, ospitate televisive a mo’ di jet-set e la certezza che fosse più di un calciatore – specie per il riscatto politico e sociale simboleggiato per partenopei e argentini. A tutto ciò rispondono, però, anche le vicende personali di Diego, che completano le sfaccettature del totem: il rapporto coi genitori e in particolare con la madre, il legame con le proprie radici, l’amore per l’ormai ex moglie Claudia Villafañe e i tradimenti («L’amavo, ma non ero certo un santo», confessa lui in uno dei tanti estratti), la paternità e il peso di sentirsi il simbolo di due popoli. Pubblico e privato, sempre.

Poi il giocattolo si rompe: quando la narrazione arriva al 1987, entra in scena la cocaina e i toni cambiano. La storia anche qui è nota, e Diego Maradona non cincischia: il gossip più fastidioso, gli eccessi mai nascosti, la tossicodipendenza, gli avvocati e la voglia di lasciare il Napoli sono in mostra perché parte essenziale della parabola, così come certe frequentazioni “pericolose” e la passione per la vita notturna. Il punto è che vengono inseriti nel dramma di una popstar schiacciata dai riflettori, nel passaggio fra il puro, originale “giocare per tenere fuori i problemi” al “dover giocare a tutti i costi”. E qui inizia il paradosso: mentre in superficie fioccano altri trionfi (lo scudetto del 1990, la Coppa Uefa dell’anno prima), le fondamenta personali prima scricchiolano e poi crollano, con Maradona insofferente e vulnerabile. Si tratta, come sappiamo, di un’autocombustione, ma in Diego Maradona non c’è né la voglia di assolvere El Pibe come un ingenuo vittima delle debolezze né l’esigenza di demonizzarlo.

Maradona viene arrestato a Benos Aires nell’aprile del 1991, dopo che nel suo appartamento di calle Franklin a Buenos Aires viene trovato mezzo chilo di cocaina (Daniel Luna/Afp/Getty Images)

Il merito di Kapadia è descrivere ascesa & caduta (perché di questo si tratta) di Maradona come un romanzo di formazione senza cadere nello stereotipo, lasciando parlare le onnivore immagini di repertorio nel loro realismo. Non c’è direzione che sia non quella cronologica, e non c’è un’intenzione che non sia quella di allineare i fatti (intimi o pubblici) senza omissioni. Il Maradona di Kapadia non è né “genio e sregolatezza” né “migliore di Pelé”, né un santo e né un demone. È una popstar più che uno sportivo, un’icona degli anni Ottanta, un uomo di spettacolo assurto a divinità, con quelle contraddizioni che. viste da questa nuova, ma a pensarci scontata prospettiva, sembrano già più naturali, o perlomeno comprensibili.